MANDATO DI ARRESTO CPI: “IL DIRITTO NON HA FALLITO, HA FALLITO L’OCCIDENTE” da IL MANIFESSTO e IL FATTO
Armi e sostegno, anche gli alleati rischiano
Complicità L’arresto del primo ministro israeliano è un vero e proprio obbligo giuridico per gli Stati membri, tra cui tutti i paesi europei, che costituiscono peraltro il nucleo fondatore del progetto materializzatosi a Roma nel 1998
Chantal Meloni 22/11/2024
Dopo tante speculazioni e infiniti ostacoli, è finalmente arrivato il mandato di arresto – tanto atteso e temuto – della Corte penale internazionale nei confronti del primo ministro israeliano Netanyahu per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi a Gaza. La richiesta era stata avanzata dal procuratore dell’Aja lo scorso 20 maggio e riguardava, oltre a Netanyahu, il ministro della difesa israeliano Gallant, e tre leader palestinesi di Hamas, Haniyeh, Sinwar e Deif.
Nei sei mesi trascorsi da allora, almeno due dei capi di Hamas sono stati fisicamente eliminati da Israele (mentre il destino di Deif rimane incerto) e Gallant non è più ministro.
La Camera preliminare della Cpi, composta da tre giudici di varie nazionalità, ha dovuto sciogliere alcuni nodi e rigettare alcune obiezioni, che erano state portate dallo Stato di Israele nel tentativo di bloccare la giurisdizione della Corte, prima di potersi pronunciare sui mandati d’arresto.
Questi interventi dilatori, uniti a indiscrezioni trapelate nei mesi passati, in merito alle indebite pressioni esercitate da più parti sulla Corte, non da ultimo dal Mossad, nonché dagli Stati uniti, strenuamente impegnati a proteggere l’alleato israeliano, avevano portato alcuni a dubitare che la Corte avrebbe avuto la forza per compiere un passo di tale portata. Come già altri hanno notato, è in effetti la prima volta che la Cpi procede con la richiesta di arresto di un capo di Stato in carica di un paese appoggiato dall’Occidente.
È chiaro che l’emissione di questi mandati di arresto avrà enormi ripercussioni politiche. Ed è altrettanto chiaro che proprio questo è il momento per dare pieno supporto e appoggio alla Cpi, un organismo giudiziario indipendente, istituito con un trattato internazionale (lo Statuto di Roma del 1998) ratificato ad oggi da 124 Stati.
Come ha subito chiarito Josep Borrell, parlando a nome della Commissione europea, l’arresto del primo ministro israeliano, come anche degli altri due individui oggetto dei mandati appena emessi, è un vero e proprio obbligo giuridico per gli Stati membri, tra cui tutti i paesi europei, che costituiscono peraltro il nucleo fondatore del progetto materializzatosi a Roma nel 1998.
Del resto, anche il mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin, emesso nel 2023 dai giudici di una diversa Camera preliminare, riguarda un capo di Stato in carica di un paese che non ha aderito al trattato istitutivo della Corte. Vale la pena ricordare come gli Stati uniti e i nostri paesi abbiano subito espresso il massimo supporto per l’operato della Cpi e l’apertura di procedimenti per i gravi crimini commessi dalle autorità russe in Ucraina. È chiaro che la posizione di netto supporto degli Stati in quella situazione sarebbe difficilmente riconciliabile con prese di posizione di segno opposto rispetto al procedimento riguardante le autorità israeliane.
Come nel caso della Russia, la giurisdizione della Corte su individui israeliani è fondata sul fatto che il paese sul cui territorio i crimini sono stati commessi, la Palestina, è membro della Corte penale internazionale (dal 2015). Peraltro l’interessamento, per così dire, della Cpi alla situazione non è certo iniziato dopo gli attacchi del 7 ottobre, ma risale addirittura al 2009, quando la prima analisi preliminare venne avviata a seguito dei gravi episodi integranti possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel corso della c.d. operazione Piombo Fuso a Gaza.
Vi è dunque, da oggi, una lunga lista di Paesi (i 124 membri della Cpi) che Netanyahu e Gallant non potranno visitare se non vogliono concretamente rischiare di essere arrestati e trasferiti all’Aja. Ma anche per altri paesi, che non facciano parte della Corte, e forse anche per l’attuale amministrazione statunitense, ricevere una visita ufficiale di un individuo oggetto di un mandato di arresto per tali gravi crimini sarebbe come minimo oggetto di imbarazzo istituzionale.
Ma vi è di più: il fatto che i giudici della Corte penale internazionale abbiano deciso che ci sono «ragionevoli motivi» per ritenere che i massimi rappresentati dello Stato di Israele si siano resi responsabili di crimini gravissimi – quali il crimine di affamamento della popolazione civile (starvation), utilizzato come arma di guerra, o di crimini contro l’umanità quali la persecuzione della popolazione civile di Gaza, privata del diritto alla vita e alla salute con intento discriminatorio, le uccisioni di civili, incluse le migliaia di bambini – non potrà non avere forti ripercussioni su tutti gli Stati che entrino in relazione con Israele. Sono già molteplici le cause civili, penali e amministrative, intentate in molti paesi, tra cui negli Stati uniti, in Germania, Regno unito, Olanda, Francia o Australia, contro il supporto prestato a livello governativo in termini economici e soprattutto militari a Israele.
Continuare a intrattenere commerci, e in particolare vendere armi a Israele – i cui massimi rappresentanti sono ufficialmente ricercati su mandati di arresto emessi dalla massima autorità giudiziaria indipendente – potrebbe configurare, a maggior ragione alla luce dei mandati di oggi, precise responsabilità anche di natura penale.
Il diritto non ha fallito, ha fallito l’Occidente
Tremenda vendetta L’Onu e l’Aja hanno agito secondo le norme internazionali. A paralizzarle l’inerzia e il doppio standard degli Stati
Alessandra Annoni* 22/11/2024
A un anno dal 7 ottobre, la situazione in Medio Oriente appare sempre più drammatica. La risposta militare israeliana ai sanguinosi attacchi di Hamas e Jihad islamica ha già mietuto più di 41mila vittime palestinesi. Il 90% della popolazione della Striscia di Gaza è sfollata, intrappolata in una prigione a cielo aperto dove scarseggiano cibo, acqua e forniture mediche e dove è impossibile garantire standard igienici dignitosi. Le trattative per la liberazione degli ostaggi israeliani sono in stallo, in Cisgiordania la violenza dei coloni dilaga e il conflitto si sta progressivamente allargando ad altri attori regionali.
LA COMUNITÀ internazionale non sembra in grado di governare questa spirale di violenza, né tanto meno di fermarla. È difficile non intravedere in questo un fallimento dell’ordine internazionale così come disegnato dopo la Seconda Guerra mondiale; quell’ordine internazionale improntato a ideali di giustizia e rispetto del diritto internazionale, che – negli auspici degli estensori della Carta delle Nazioni unite – avrebbe dovuto garantire la pace e la sicurezza internazionale. Più complesso è stabilire le ragioni di questo fallimento.
IL PROBLEMA non è l’assenza di norme giuridiche adeguate. Il diritto internazionale stabilisce puntualmente in quali casi sia legittimo ricorrere alle armi e disciplina altrettanto precisamente il modo in cui la violenza bellica deve essere esercitata, tanto dalle forze armate statali che dai gruppi armati non statali. Nonostante la peculiarità della situazione, la rilevanza di tali norme nel contesto del conflitto israelo-palestinese non è in discussione. Israele stesso implicitamente lo riconosce, quando utilizza (seppur in modo distorto) il linguaggio del diritto internazionale per tentare di legittimare le proprie azioni, ad esempio invocando la «legittima difesa» come giustificazione per l’intervento militare a Gaza o ricorrendo alla retorica degli «scudi umani» per addossare al nemico la responsabilità per l’inaccettabile numero di vittime civili dei propri attacchi.
SE LE REGOLE esistono, perché allora non se ne riesce ad assicurare il rispetto? Il problema è che, in un ordinamento tutto sommato poco strutturato come quello internazionale, manca un’autorità terza sovraordinata che sia in grado di reagire tempestivamente a ogni violazione commessa dai consociati. L’Onu, che pure è stata istituita proprio al fine di mantenere la pace, è tenuta ad esercitare i poteri che gli Stati membri le hanno conferito nel rispetto delle regole stabilite nella Carta delle Nazioni unite. Entro questi limiti, essa sta facendo ciò che può.
IL SEGRETARIO generale Guterres ha condannato più volte con fermezza le violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Grande attivismo hanno dimostrato anche alcuni relatori speciali delle Nazioni unite (prima fra tutti Francesca Albanese), che già il 19 ottobre scorso evidenziavano il rischio di genocidio a Gaza. In meno di un anno, la Corte internazionale di giustizia ha adottato tre ordinanze nella controversia Sudafrica c. Israele, riconoscendo l’esistenza di un rischio di genocidio e dettando misure cautelari sempre più pervasive.
La stessa Corte il 19 luglio ha reso un parere consultivo in cui ha affermato l’illegalità dell’occupazione israeliana e il conseguente obbligo di Israele di ritirarsi il più rapidamente possibile dai Territori palestinesi. Il 18 settembre l’Assemblea generale, che da decenni riconosce il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, ha fissato in 12 mesi il termine per completare il ritiro.
NONOSTANTE le plurime sollecitazioni, invece, il Consiglio di sicurezza – unico organo dell’Onu dotato di poteri coercitivi secondo la Carta – è rimasto sostanzialmente inerte di fronte alla violenza degli scontri a Gaza. Il veto degli Stati uniti ha bloccato qualunque azione significativa, se si eccettua l’adozione della risoluzione n. 2728 (2024) con cui il Consiglio imponeva una tregua per il mese del Ramadan, peraltro rimasta del tutto inattuata. La paralisi del Consiglio di sicurezza non è certo una novità, né tanto meno un’anomalia. Di recente, ne ha beneficiato anche la Russia, che con il suo veto ha impedito l’adozione di una risoluzione di condanna della propria aggressione all’Ucraina.
In quel caso, però, la reazione degli altri Stati è stata dura e compatta. Preso atto dell’impossibilità di adottare misure collettive in seno all’Onu, si sono assunti la responsabilità di imporre unilateralmente sanzioni contro la Russia. 43 Stati hanno inoltre segnalato la situazione dell’Ucraina alla Corte penale internazionale, consentendole di avviare tempestivamente un’investigazione sui crimini internazionali commessi nel corso del conflitto. Ben diverso è stato l’atteggiamento degli Stati nei confronti di Israele.
NONOSTANTE l’allarme genocidio suonato dalla Corte internazionale di giustizia e sebbene sia la Corte che l’Assemblea generale abbiano ribadito l’obbligo, per gli Stati terzi, di non riconoscere l’occupazione dei Territori, di non assistere Israele nel mantenerla e di cooperare per porre fine all’illecito, pochi Stati hanno interrotto completamente la fornitura di armi a Israele e alcuni hanno riaffermato il proprio sostegno militare incondizionato allo Stato ebraico.
L’accordo di associazione tra Ue e Israele non è stato sospeso. Il Regno unito e altri Stati occidentali hanno addirittura cercato di interferire con la procedura attivata davanti alla Corte penale internazionale, contestandone la competenza, e di fatto rallentando la decisione sui mandati d’arresto chiesti, ormai più di quattro mesi fa, dal Procuratore Khan nei confronti di Gallant, Netanyahu e Sinwar. Se qualcuno ha fallito, dopo il 7 ottobre, non è certo il diritto internazionale e forse nemmeno l’Onu. Sono i governi occidentali, con la loro odiosa politica dei doppi standard, ad aver tradito i palestinesi, e con essi i principi e gli ideali su cui dovrebbe fondarsi l’edificio che chiamiamo ordinamento internazionale.
*Professoressa di Diritto internazionale all’Università di Ferrara
Netanyahu e Gallant, l’ex procuratrice Arbia: “La Corte così certifica che non c’è impunità per i crimini di guerra”
Ex magistrata della Cpi – “La decisione muta l’equilibrio internazionale, Bibi non è più credibile né autorevole”
Cosimo Caridi 22 Novembre 2024
“Un leader sotto mandato di arresto internazionale perde credibilità e autorità. Questo è un punto fondamentale: la sua reputazione è seriamente danneggiata, e il sostegno politico interno potrebbe vacillare”. Silvana Arbia è stata procuratrice della Corte penale internazionale (Cpi) all’Aia, ha svolto un ruolo cruciale presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda e valuta con la massima serietà i mandati di arresto spiccati ieri per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. “Sono soddisfatta, speravo che la decisione potesse arrivare prima, ma ci sono stati diversi contenziosi”.
Questo segna davvero una svolta per la giustizia internazionale?
Sì, è un passo fondamentale. La Corte penale internazionale non è più vista come un’istituzione debole. Gli Stati che pensavano di poter agire impunemente, come Israele, ora sanno che c’è una giustizia che può intervenire. Questo cambia l’equilibrio politico internazionale.
Finisce l’impunità per Israele?
No, questo è un processo che dura da decenni. Anche Hamas ha commesso crimini di guerra; la Cpi sempre ieri ha emesso anche un mandato di arresto contro Mohammed Deif, uno dei tre leader di Hamas, il cui decesso non è ancora certo come lo è invece per Yahya Sinwar e Ismaily Haniyeh. La comunità internazionale ha fatto poco per punirli. Ma se non ci fosse stato questo intervento, le cose sarebbero rimaste uguali. L’impunità ha portato a una situazione di crescente violenza. Se la Corte penale internazionale fosse intervenuta prima, forse sarebbe stato possibile prevenire o fermare alcuni crimini.
Cosa significa l’emissione di mandato d’arresto Cpi?
Vuol dire che la Corte ha raccolto prove sufficienti per accusare una persona di crimini internazionali. Il passo successivo è il processo, che si svolgerà in contraddittorio. L’imputato comparirà davanti al giudice, dove dichiarerà se è colpevole o meno. Ci sarà la possibilità per la difesa di contrastare le accuse. L’importante è che l’intero procedimento si svolga nel rispetto dei diritti dell’imputato.
Esistono dei limiti o difficoltà per l’esecuzione di questi mandati di arresto?
Certamente, pratiche e politiche. Gli Stati membri della Cpi hanno l’obbligo di eseguire i mandati, ma ci sono Stati non membri che non sono obbligati a farlo, come Israele stesso. Anche se la Corte invia i mandati di arresto a tutti gli Stati, non c’è una garanzia che vengano eseguiti.
Se uno Stato membro non esegue?
La Corte può fare un rapporto all’Assemblea degli Stati membri, ma non ci sono vere sanzioni concrete. La questione principale rimane politica: gli Stati hanno firmato il trattato, ma se non collaborano, le conseguenze non sono gravi come potrebbero essere.
Ci sono stati casi significativi in cui questi mandati non sono stati eseguiti?
Sì, uno degli esempi più significativi è quello di Omar al-Bashir, l’ex presidente del Sudan. Nonostante il mandato di arresto della Cpi, molti Paesi, inclusi alcuni Stati membri, non hanno eseguito l’arresto. Questo evidenzia la debolezza del sistema: anche se la Corte ha emesso mandati legittimi, la loro esecuzione dipende molto dalla politica internazionale. La Corte deve rimanere imparziale, ma la sua capacità di agire è limitata dalle dinamiche politiche tra gli Stati.
I mandati sono emessi su base di responsabilità personali?
In questo caso, la Corte penale internazionale si concentra sulle persone fisiche. La responsabilità penale può essere anche quella di un superiore, come un comandante o un ministro, che non ha impedito i crimini commessi dai suoi subordinati. Questo è un aspetto importante: se un comandante poteva sapere che i suoi subordinati stavano commettendo crimini e non ha agito per fermarli, può essere ritenuto responsabile. Ad esempio, se dei soldati commettono crimini non ordinati, il superiore, come Gallant, avrebbe dovuto intervenire.
Quindi arriviamo fino all’apice della catena di comando?
Esattamente, hanno una responsabilità diretta. La catena di comando gerarchica si estende fino al massimo livello, quindi la responsabilità per gli atti commessi dai subordinati può arrivare fino al primo ministro.
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