L’UNICA TERRA POSSIBILE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’UNICA TERRA POSSIBILE da IL MANIFESTO

L’unica terra possibile

CISGIORDANIA. Dopo una sentenza della Corte suprema israeliana oltre mille palestinesi rischiano di essere espulsi dalla loro terra in un’area a sud di Hebron che l’esercito di occupazione ha dichiarato area militare

Michele Giorgio, Masafer Yatta  28/05/2022

Si può amare una terra arida, rocciosa, che ti regala rari frutti a prezzo di enormi fatiche, dove si arriva solo a bordo di autoveicoli robusti in grado di percorrere strade sterrate e un po’ pericolose? Non hanno dubbi gli 89 uomini, donne e bambini di Khirbet al Fakheit, villaggio minuscolo all’interno di un’area conosciuta come Masafer Yatta sulle basse colline a sud di Hebron, nella Cisgiordania meridionale. «È la nostra terra, non c’è nessun altro posto dove vorremmo vivere» ci dice Abed, un pastore con la pelle bruciata dal sole parlando a nome di tutti gli altri. A Khirbet al Fakheit oltre il lavoro c’è ben poco da fare. «Non abbiamo caffè e ristoranti – prosegue – l’acqua scarseggia, non viviamo in case ma in tende, però questa è la nostra vita. I nostri bambini non hanno la tv, giocano tra di loro, basta un pallone e corrono felici. Gli israeliani vogliono cacciarci via, dicono che l’hanno deciso i loro giudici. Noi resteremo qui, perché è la nostra terra da sempre, non ne abbiamo un’altra». Davanti a noi ci sono le macerie di alcune costruzioni, nulla di più di ripari per le capre. «I soldati sono venuti con le ruspe e le hanno buttate giù, è successo poche settimane fa» ci spiega Abed «va avanti così da anni. Ci mostrano un ordine di demolizione, dicono che non possiamo costruire nulla su un terreno militare e buttano giù stalle e altri piccoli edifici».Alle nostre spalle, sotto un tendone, altri rappresentanti del villaggio raccontano la storia di Khirbet al Fakheit a una piccola delegazione italiana accompagnata da palestinesi. Sedute assieme ad alcuni cooperanti di Ong, ci sono le deputate Simona Suriano e Yana Ehm, prima nei MS5 e ora parte di «Manifesta» che da qualche mese rappresenta a Montecitorio Potere al Popolo e Rifondazione. Come avvenuto a Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est), qualche giorno fa, Suriano ed Ehm sono a Khirbet al Fakheit per vedere di persona ciò che accade nei Territori palestinesi occupati e riferirlo in Parlamento. A qualche decina di metri dalle rovine sorgono, per fortuna ancora intatti, l’ambulatorio medico e scuola che accoglie 138 studenti, dalle elementari alle superiori, di otto piccoli villaggi palestinesi di Masafer Yatta. Alle spalle ci sono un campetto da calcio con l’erba sintetica e un tabellone da pallacanestro, frutto di progetti per la comunità finanziati dalla cooperazione italiana. «Anche queste strutture sono a rischio di demolizione da parte degli israeliani» avverte un abitante rivolgendosi alla delegazione italiana. «Perderle sarebbe un disastro per i nostri ragazzi. Ci tengono alla scuola, alcuni di loro vengono a piedi, percorrendo ogni giorno diversi chilometri, con il caldo e con il freddo».

Rischi e problemi che non corrono e affrontano i coloni dei vicini insediamenti israeliani di Avigayll e Maon. Le loro case e scuole sono collegate alle reti idrica ed elettrica e le loro auto percorrono tranquille strade ben asfaltate e costruite per loro che portano in pochi minuti in Israele o in altre parti della Cisgiordania occupata aggirando i centri abitati palestinesi. Le colonie sono illegali per il diritto internazionale e per innumerevoli risoluzioni approvate dalle Nazioni unite. Invece per Israele sarebbero illegali i villaggi e le comunità palestinesi indigene di Masafer Yatta, perché all’interno di una «zona militare», la 918, stabilita unilateralmente nel 1981, e usata come poligono di tiro e per addestramento di truppe e mezzi corazzati.

Dopo decenni di demolizioni, ricostruzioni e una battaglia durata più di 20 anni all’interno del sistema giuridico non internazionale bensì del paese occupante, questo mese la Corte suprema israeliana, ha dato il via libera all’esercito di sfrattare definitivamente circa 1300 palestinesi da Masafer Yatta e di riutilizzare la terra solo a scopo militare. Sarà la più grande espulsione di massa di palestinesi dalla Cisgiordania occupata dalla guerra del 1967. Ai primi di giugno saranno 55 anni dall’inizio di una occupazione militare che non vede mai la fine. La Corte suprema non ha tenuto conto dei documenti storici presentati dagli avvocati delle otto comunità palestinesi più minacciate, tra i quali filmati aerei per dimostrare l’esistenza dei villaggi prima del 1981 e che non corrisponde al vero la versione dell’esercito di una «occupazione abusiva» dell’area usata solo come terreno di pascolo e non per residenza.

Secondo i giudici David Mintz, Ofer Grosskopf e Isaac Amit le riprese aeree prima del 1980 non mostrerebbero edifici e una presenza umana stabile. Ma i palestinesi di quella zona, allora come oggi, molto spesso vivono in grotte naturali adattate ad abitazioni. Inoltre, hanno sentenziato i giudici, quando il diritto internazionale contraddice quello israeliano, quest’ultimo prevale. La gente di Masafer Yatta dovrà anche pagare 20.000 shekel (circa 6mila dollari) di spese. La sentenza della Corte suprema israeliana è stata condannata dalla Relatrice dell’Onu per i diritti umani nei Territori occupati Francesca Albanese che ha chiesto il rispetto delle risoluzioni internazionali e dei diritti della popolazione palestinese sotto occupazione.  Demolizioni ed espulsioni di palestinesi hanno suscitato le «preoccupazioni» di Unione europea e anche degli Stati uniti in vista della visita programmata a fine giugno in Israele del presidente Biden. Ma di concreto non si è visto nulla e anche l’avvio della costruzione di oltre 4.200 nuovi alloggi negli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania andrà avanti senza alcun intervento di Washington e Bruxelles.Andando via da Khirbet al Fakheit, le deputate Ehm e Suriano promettono agli abitanti che faranno del loro meglio per portare a conoscenza dei loro colleghi e dell’opinione pubblica italiana la drammatica conclusione che si annuncia per loro e per Masafer Yatta. «Per ragioni di immagine, non credo che vedremo persone caricate con la forza su camion», ha previsto qualche giorno fa Dror Sadot del centro israeliano per i diritti umani B’Tselem «Vedremo piuttosto demolizioni sempre più frequenti che costringeranno le comunità palestinesi ad andarsene». Abed e le popolazioni di Khirbet al Fakheit e degli altri villaggi non sono d’accordo. Non lasceranno mai le loro terre, dicono che dovranno caricarli con la forza sugli autocarri, come nel 1999 quando furono espulsi per la prima volta. Allora il loro ricorso fu accolto e tornarono poco dopo. Ora è tutto diverso. Su Masafer Yatta intanto cala il sole. Occorre avviarsi. Su queste strade sterrate e piene di buche si procede con estrema cautela. Un lento rientro che permette di godere appieno del paesaggio. Aspro, roccioso, eppure bellissimo.

Abu Akleh, due inchieste accusano Israele. E il caso finisce all’Aja

PALESTINA/ISRAELE. Video e bodycam, immagini satellitari e analisi forensi: per la Cnn e l’Autorità palestinese a sparare contro la giornalista sono stati i soldati israeliani. E il caso arriva alla Corte penale internazionale: al Jazeera e And presentano due diverse richieste di indagine

Chiara Cruciati  28/05/2022

Saranno due le richieste di indagine che la Corte penale internazionale si troverà a breve sul tavolo in merito all’uccisione, lo scorso 11 maggio nel campo profughi di Jenin, Cisgiordania occupata, della giornalista palestinese di al JazeeraShireen Abu Akleh.

Una dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e una del network qatariota. A darne conto ieri a Londra sono stati i team legali chiamati a presentare i casi, affiancati da esperti internazionali. «Attendiamo la conferma dall’ufficio della Procura della Corte penale sulle azione che intende assumere», fa sapere lo studio legale Bindmans LLP.

IL GIORNO PRIMA l’Anp aveva reso noti i risultati dell’indagine condotta sulla morte di Abu Akleh: le prove dimostrano che l’esercito israeliano ha sparato per uccidere, ha dichiarato il procuratore generale Akram al-Khatib.

«È chiaro che uno dei soldati dell’occupazione ha sparato il proiettile che ha colpito Shireen Abu Akleh in testa», ha detto ricordando che la giornalista indossava la pettorina Press e l’elmetto. Un proiettile che corrisponde ai fucili da cecchini Mini Ruger.

ALLA BASE dei risultati stanno le testimonianze degli altri giornalisti presenti (di cui uno, Ali al-Samoudi, ferito), indagini sul luogo della sparatoria e analisi forensi. Secondo l’Anp, non c’erano combattenti palestinesi nelle vicinanze, come inizialmente affermato dall’esercito israeliano che aveva attribuito l’omicidio ai militanti presenti nel campo profughi (una posizione poi semi-sparita dalle dichiarazioni ufficiali, fino alla decisione di Israele, presa la scorsa settimana sulla base delle testimonianze dei soldati, di non aprire un’indagine per «assenza di atti criminali»).

Al contrario, ha aggiunto al-Khatib, l’esercito l’aveva vista e ha comunque sparato, colpendola alle spalle: tentava di fuggire dopo i colpi che avevano ferito al-Samoudi.

Identici risultati quelli raggiunti da un’inchiesta della Cnn, pubblicata pochi giorni fa. Utilizzando i video girati durante l’omicidio dai giornalisti presenti e dalle bodycam dei soldati israeliani, otto testimonianze, le analisi di esperti di armi da fuoco e le immagini satellitari, il network Usa indica nell’esercito israeliano il responsabile della morte di Abu Akleh: la giornalista, colpita da una distanza di 200 metri, si trovava di fronte ai militari, come mostrano cinque diversi video, l’analisi forense del rumore dei proiettili e le stesse dichiarazioni dell’esercito.

I COMBATTENTI PALESTINESI, sulla stessa direttrice, erano posizionati alle spalle dell’esercito, troppo lontano per poterla raggiungere con un proiettile. E in ogni caso non stavano sparando: in quel momento, alle 6.30 del mattino, non c’erano scontri armati in corso, come affermato da Tel Aviv.

C’era invece un gruppo di giovani palestinesi che si stava intrattenendo con i giornalisti, fumando e scherzando con loro (come documenta uno dei video, a riprova dell’assenza di scambi a fuoco). Poi, gli spari.

CHE SONO PROSEGUITI contro i giovani che tentavano di portare in salvo Shireen, ormai incosciente. «Il numero dei segni di proiettile sull’albero di fronte al quale stava Shireen – ha aggiunto Cobb-Smith, esperto britannico – provano che non si è trattato di un colpo partito per caso, è stata presa di mira».

I segni sono troppo vicini tra loro perché si tratti di colpi random. E lei troppo vicina ai cecchini israeliani, era visibile. Le hanno comunque sparato almeno quattro volte.

E ieri un 14enne palestinese, Ziad Ghoneim, è stato ucciso dall’esercito israeliano a Al-Khader, sud di Betlemme, durante delle proteste. Secondo testimoni, è stato colpito mentre cercava rifugio in una casa.

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