L’ANESTETIZZATORE E IL PARADIGMA MANIACALE DELL’ESISTENZA da IL MANIFESTO
L’anestetizzatore e il paradigma maniacale dell’esistenza
PSYCHE E POLITICA. Il nucleo del successo di Silvio Berlusconi è stato il matrimonio del suo inconscio con quello collettivo
Sarantis Thanopulos 14/06/2023
Il fatto che Silvio Berlusconi abbia dominato la scena politica italiana negli ultimi trent’anni, usando spregiudicatamente il suo enorme potere nel campo dell’informazione e sfruttando il vento del neoliberismo che dai tempi di Reagan e di Thatcher sta spazzando via ogni genere di legame solidale, non spiega tuttavia la sua longevità al potere e l’ostinazione della sua presenza nell’immaginario collettivo. Il nucleo del suo successo, che lascerà tracce durature nella mentalità collettiva, e estenderà i suoi effetti a una percezione distorta della res publica, sta nell’avere ottenuto una rapida identificazione con il suo modo di pensare e di sentire. Ben più importante dell’uso sapiente che Berlusconi ha fatto del consenso – un uso psicologico più che politico – è stato il matrimonio del suo inconscio con quello della collettività. Per primi gli avversari ne hanno subito la fascinazione: mentre contestavano i suoi fini, si immedesimavano con le sue “moderne” strategie di comunicazione, e con la spregiudicatezza del suo agire.
Berlusconi ha convinto i suoi sostenitori, o dissuaso gli avversari, che sembravano considerarlo imbattibile, grazie all’attrazione esercitata, in tempi di scoraggiamento diffuso, da un nodo psichico irrisolto: la sua occultata dimensione depressiva, dalla quale si è difeso tutta la vita. Proprio questa gli ha garantito la disponibilità di una rete collettiva solidale e diffusa, perché subliminalmente identificata.
Dalla sua depressione Berlusconi ha tratto l’arma più forte, rifiutandosi di riconoscerla e di prendersene cura e adoperandosi invece a rovesciarla in quel sistematico agire maniacale, che ha lavorato all’eccitante conquista del potere.
L’instancabile, ossessivo inseguimento della performance ha estromesso dalla vita di Berlusconi la capacità di sostare nelle sue esperienze e nelle sue azioni quel tanto da rendergliele riconoscibili: è così che è diventato un maestro di vita, a volte simpatico a volte cattivo, sempre persuasivo.
Freud spiegava come ogni reazione maniacale sia funzionale al risparmio psichico necessario all’elaborazione del dolore: una grande quantità di energia si rende così disponibile, generando un ingannevole senso di vitalità e di euforia. Di questa dinamica Berlusconi è stato un potente paradigma calato nella nostra realtà, ciò che gli ha permesso di funzionare come euforizzante collettivo, in gran parte inconscio, e comunque capace di indurre potenti meccanismi di imitazione. Con il suo ottimismo posticcio, ha fatto credere che tutto si potesse risolvere, bastava solo schierarsi a suo favore. È stato un potente strumento di diniego del lutto, una forza contraria alla elaborazione della perdita delle nostre certezze, quelle su cui avevamo fondato l’ideale di un progressivo sviluppo del benessere e della democrazia. Agendo come una sostanza stupefacente, è diventato l’artefice e insieme la vittima di un mercato fondato sulla domanda di venire anestetizzati. Ha cercato di tacitare la ferita del nostro rapporto con ogni forma di alterità, cullandoci nell’inganno che sia possibile evitare la fatica di una convivenza con l’altro, e inducendoci così a seminare in noi false promesse, di cui rischiamo di raccoglierne ancora a lungo le rovine.
Trent’anni di Berlusconomy, quattro governi di declino italiano
L’UNTO NAZIONALE. In economia non seguì nessuna linea: il liberismo lo promise solo. Alla fine dalla cosiddetta «era Berlusconi» chi più ci ha guadagnato è stato lui e il ridotto ceto che a lui si è affidato
Pier Giorgio Ardeni 14/06/2023
Nel commentare la fine dell’uomo, non possiamo non ragionare su ciò che ha rappresentato per l’economia e la società italiana. Perché il crooner divenuto “palazzinaro” capì che la televisione privata era il business del futuro, generatrice di profitti e grande manipolatrice delle menti, cambiando per sempre il panorama sociale e culturale. Così, da subito, usò le sue doti di ammaliatore, proprio come al piano bar sulle navi da crociera, per farsi amici i politici e rompere il monopolio televisivo della Rai. Ambizioni di potere ne aveva già – tanto da arruolarsi nella P2 – ma trovò il modo di farsi strada da sé. E quando arrivò “tangentopoli”, un sistema crollò e lui pensò bene di sfruttare il suo piccolo mondo di palazzi e tv per scalare il potere, quello vero. E vi costruì sopra il suo regno. Che fu ben diverso dalla narrazione che vi imbastì sopra.
SE GUARDIAMO ALLA STORIA dell’economia italiana nell’era Berlusconi non possiamo non notare che essa ha coinciso con il declino (un termine per qualche tempo pure oggetto di studio, oggi un po’ uscito dall’orizzonte del dibattito, tanto cronico quel declino si è fatto). Il 1992, per chi non lo ricordasse, fu l’annus horribilis della storia (non solo economica) recente per il nostro paese. Una crisi valutaria che ci fece uscire dal Sistema monetario europeo, una manovra economica tra le più feroci del dopoguerra di cui si accollò Giuliano Amato (con un inusitato prelievo dai conti correnti deciso dalla sera alla mattina prima che si potessero avere reazioni). La mafia aveva alzato la testa, assassinando Falcone e Borsellino; Mario Chiesa, il mariuolo, si era fatto arrestare e varie tragedie si consumarono, fino alle monetine del Raphael contro Craxi.
L’ECONOMIA FU RIMESSA in pista, ma il sistema politico precipitò e, nel turbinio, emersero il «partito azienda» del Cavaliere e la ruspante Lega di Umberto Bossi. Discioltasi la Dc, liquefattosi il Psi, la borghesia e i ceti medi “produttivi” del Nord optarono così per il “nuovo” che gli si offriva: un mix di liberismo e dirigismo in salsa lumbard, ammantato di modernismo “all’americana” di fronte al quale la sinistra, in preda al travaglio post-1989, si curò più che altro di apparire immacolata (lasciando al “compagno G” l’onere di mostrarne l’estraneità al “sistema”) e si contentò di resistere. E il messaggio di B. convinse, perché «se si è fatto ricco lui, farà ricco il Paese». Il primo regno del signor B. durò poco, pagando l’incontinenza di un Bossi “popolare” (in fondo, era una “costola” della sinistra, come profferì “baffino”), arrivò Lamberto Dini dalla Banca d’Italia – con il sostegno della sinistra – e poi il professore bolognese «a portare l’Italia in Europa», per cadere poi sotto i veti incrociati dei suoi. In cinque anni, però, il centro-sinistra non segnò né un cambio di passo né fu in grado di legiferare sulla questione del «conflitto di interessi», tanto che il tycoon di Arcore fu così in grado di riprendersi il governo e di fare, finalmente, con postfascisti e leghisti, quanto gli aggraziava.
L’economia non si spostò di un nulla dalla sua traiettoria. L’impresa medio-grande continuò a delocalizzare, quella medio-piccola continuò a investire poco e niente, poco innovando e poco producendo nuova ricchezza. Il secondo regno di B. non fu in grado di succedere a se stesso, Prodi rivinse le elezioni ma tornò a cadere sotto lo stesso fuoco incrociato, dopo due anni appena. Sono gli anni lunghi della globalizzazione, della dot economy, della delocalizzazione. Le tre “i” del signor B. – impresa, internet, inglese – appaiono tenere, viste con gli occhi di oggi, ma fu il meglio del telemarketing di Arcore. Cambiava il paese, nei modi di consumo – grande distribuzione, spese voluttuarie “moderne”, indebitamento per gli acquisti – come nei gusti e nelle mode, involgarendosi al passo del degrado pubblico. Quando il Cavaliere rivince le elezioni per la terza volta, nel 2008, non sa che sta arrivando il vento della crisi, innescata dalla speculazione. Il paese che governa, assecondando industriali piccoli e grandi, una borghesia di rentier e un ceto medio che vive sopra le sue possibilità, è un paese dall’economia fragile, dal debito crescente – un “liberista” per cui la spesa pubblica è aumentata – e dai divari che si allargano. Così, la crisi dell’euro e dello “spread” lo fanno cadere, l’industriale di Arcore perde i favori dei poteri forti, dando inizio al suo tramonto e a un nuovo biennio con la cinghia tirata.
Il Pd, però, non incide, la sinistra non capisce cosa sta succedendo. I cinque anni che seguiranno vedranno un Pd totalmente succube del neoliberismo dell’austerity, mentre a destra la base berlusconiana e leghista resta compatta, radicata nei suoi territori e nelle sue pratiche. Ma è il corpo sociale del paese a sfaldarsi, attratto dalle sirene pentastellate, sempre più disperso.
LA LEZIONE DEL “LIBERISMO” berlusconiano sta in questa deriva. Un liberismo che non ha “liberato” le energie migliori del paese e non ha favorito l’innovazione né ridotto le elefantiasi burocratiche dello stato, portando solo a un aumento delle disuguaglianze e dei divari e finendo, in ultimo, ad assecondare il sovranismo e la chiusura protezionistica contro i “guasti” della decantata globalizzazione. Un paese più povero economicamente, culturalmente e socialmente, in cui i ceti che avevano sostenuto l’uomo di Arcore oggi grettamente preferiscono la destra postfascista pur di mantenere quei privilegi che per un venticinquennio gli erano stati garantiti. Così, della cosiddetta «era Berlusconi», alla fine, chi più ci ha guadagnato è stato lui e il ridotto ceto che a lui si è affidato. Un’eredità da non fare invidia a nessuno.
1994, l’assalto alla Costituzione inizia da qui
RIFORMA DI FATTO. La morte impone rispetto, e non si discute. E l’impatto di Berlusconi sulla storia d’Italia nemmeno si discute. Ma ha diviso il paese da vivo, e continuerà a farlo da […]
Massimo Villone 14/06/2023
La morte impone rispetto, e non si discute. E l’impatto di Berlusconi sulla storia d’Italia nemmeno si discute. Ma ha diviso il paese da vivo, e continuerà a farlo da morto. Già ora, una parte del popolo italiano non condivide i sette giorni di lutto parlamentare e la giornata di lutto nazionale. Perché pensa che Berlusconi sia causa non ultima dell’indebolimento istituzionale e politico del paese.
Berlusconi decide di scendere in campo nel 1993. Non prima, e nessun altro prima di lui, perché partiti fortemente strutturati e radicati nel territorio avevano fino ad allora imposto un cursus honorum che preveniva l’incursione ai piani alti della politica del tycoon di passaggio. Il collasso dei partiti in quei due terribili anni – 1992 e 1993 – e il vuoto che ne derivava erano condizioni necessarie per Berlusconi.
Nella seconda parte del 1993 viene ad arte creata nel paese l’attesa sul tema «scende, non scende». Arriva infine alle tv il 26 gennaio 1994 la videocassetta «L’Italia è il paese che amo». I professionisti della politica non capirono il cambio di passo nella comunicazione. Come non capirono che il partito “di plastica” che Berlusconi stava creando era un pericolo reale.
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Berlusconi aveva fatto il miracolo politico di tenere insieme Forza Italia, Alleanza Nazionale erede del Msi e la Lega Nord. La vittoria del centrodestra nel 1994 dissolve l’”arco costituzionale” dei partiti che avevano dato vita alla Carta del 1948, e ne fornivano un supporto essenziale. Ha inizio allora un indebolimento strutturale della Costituzione mai in seguito recuperato.
Ne è parte la lettura berlusconiana del voto. Il 16 maggio 1994, nel discorso sulla fiducia, Berlusconi afferma che l’alleanza elettorale «si trasforma in coalizione di Governo su esplicito mandato dei cittadini… Credo che questa maggioranza e questa legislatura debbano coincidere e che per costituire una nuova maggioranza siano politicamente necessarie nuove elezioni».
È la rottura con la forma di governo parlamentare. Capo dello Stato e parlamento sono chiamati ad atti sostanzialmente dovuti, persino sottilmente eversivi, se non conformi al voto popolare. Alla caduta del suo governo, Berlusconi manda il 19 dicembre 1994 alle tv una videocassetta in cui chiama i suoi sostenitori a manifestare per lui, unico e legittimo presidente del consiglio. Un incitamento che per fortuna il paese non raccoglie. Ma il refrain del tradimento degli elettori rimane. Lo ribadisce La Loggia il 1° febbraio 1995 in Senato, affermando che il voto del 27 marzo 1994 riduce «sin quasi a zero» i poteri del presidente della Repubblica, prima «pressoché assoluti». Entrano nell’Eden della politica il comandamento della scelta nel voto di chi governa, e il peccato originale del ribaltone.
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Non meraviglia la posizione della destra. Ma meravigliano gli accenti analoghi da Prodi nel 1996, da D’Alema nel 1998, da Amato nel 2000, ancora da Prodi nel 2006 e nel 2008, nel momento della sconfitta. Ed è così che Il 13 maggio 2008 nella Camera dei deputati Berlusconi vittorioso celebra gli elettori che hanno accolto, scegliendo con nettezza maggioranza e opposizione, «il nostro comune (del Pdl e del Pd, nda) appello a rendere più chiaro, più efficiente e controllabile il governo del Paese… è stata la prima grande riforma…».
E Veltroni, disastrosamente sconfitto, rivendica al neonato Partito Democratico in corsa quasi solitaria il merito di aver introdotto discontinuità rispetto «… alla esasperata frammentazione politica e… costante demonizzazione dell’avversario…». Per primo il Pd ha avuto «… il coraggio di compiere scelte difficili e innovative». Poco conta che l’effetto collaterale sia consegnare il Parlamento nelle mani della destra.
Un epitaffio. Al cedimento politico e culturale di una sinistra che nei decenni di Berlusconi non ha saputo o voluto difendere i suoi storici presidi di cultura istituzionale e politica, come la rappresentanza, il ruolo delle assemblee elettive e dei corpi intermedi, la centralità del principio di eguaglianza, dei diritti, della coesione sociale.
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È il popolo italiano, respingendo nel referendum la riforma costituzionale del centrodestra nel 2006, e quella di Renzi nel 2016, che nega al Berlusconi-pensiero una conclusiva vittoria. Non sappiamo se potrà accadere di nuovo. Quel che sappiamo è che nell’inseguire Berlusconi senza la forza di proporre una vera alternativa la sinistra ha smarrito la sua anima. E il paese ha smarrito la sinistra.
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