LA COSTITUZIONE HA 76 ANNI: “VA ATTUATA, NON CAMBIATA” da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA COSTITUZIONE HA 76 ANNI: “VA ATTUATA, NON CAMBIATA” da IL FATTO e IL MANIFESTO

76 anni fa la Costituzione: va attuata, non cambiata

PIER LUIGI PETRILLO  27 DICEMBRE 2023

Il 27 dicembre 1947, il capo provvisorio dello Stato italiano, Enrico De Nicola, promulgava la nuova Costituzione repubblicana. Dopo 76 anni da quella data, numerosi principi costituzionali restano privi di effettività ed è paradossale che dinanzi a una Costituzione, per buona parte, inattuata, si ragioni di come cambiarla anziché di come attuarla.

I Padri costituenti hanno disegnato una democrazia pluralista che trova il proprio fondamento nella dignità dell’uomo. Eppure il trattamento riservato agli immigrati è privo di ogni dignità e rende inefficace anche l’articolo 10 laddove si dispone che lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, abbia diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. E che dire dell’articolo 11 che dispone il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali? Negli anni, il legislatore si è inventato di tutto per aggirare questo granitico principio e giustificare interventi armati in suoli stranieri, giungendo perfino a creare il concetto di peace building, ovvero di azioni di guerra finalizzate al “mantenimento della pace” come se la storia del mondo non ci avesse insegnato niente. Ugualmente ignorate sono le disposizioni che disciplinano il lavoro, l’impresa, la proprietà. L’articolo 36, ad esempio, riconosce a ciascun lavoratore il diritto a una retribuzione in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Eppure si fa finta di niente e il salario minimo diventa una battaglia politica come un’altra e non un obbligo inderogabile imposto dalla Costituzione, al pari della parità di retribuzione per gli uomini e le donne. Il principio della dignità dell’uomo sostanzia tutte le disposizioni costituzionali e non è un caso: in Assemblea Costituente è intorno a questo concetto che si fonda l’alleanza tra cattolici e comunisti perché, per usare le parole di Aldo Moro, è la dignità dell’uomo il “sicuro criterio di orientamento per una lotta che non è finita adesso e che non può finire, lotta per la libertà e per la giustizia sociale”. Ed è per questo che la Costituzione limita finanche l’iniziativa economica privata condizionandola all’utilità sociale e disponendo che non rechi danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, e – ancora una volta – alla dignità umana. Ma se si volge lo sguardo alle politiche economiche degli ultimi anni, se si leggono le ultime dieci leggi di Bilancio, quante norme assicurano l’attuazione di questi principi?

Anche le disposizioni che attengono all’organizzazione dei poteri sono inattuate quando non stravolte. L’articolo 70 assegna alle Camere il potere legislativo eppure, nella realtà dei fatti, tale potere lo esercita il governo tramite i decreti legge, costringendo il Parlamento a un ruolo di mera ratifica. L’articolo 77 attribuisce al governo il potere di emanare atti aventi forza di legge, ma giustifica questa deroga eccezionale ai soli casi straordinari di necessità e urgenza ovvero a ipotesi imprevedibili come un terremoto o a situazioni di emergenza irripetibili. Il governo Draghi ha segnato, al riguardo, un punto di svolta con una media di quasi 4 decreti legge emanati al mese. L’attuale governo, però, ha intenzione di superare tale record e, con 51 decreti emanati, ha già sopravanzato il primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte (26 decreti) e quello di Paolo Gentiloni (20). E che dire dell’articolo 72 che impone alle Camere di approvare i disegni di legge, articolo per articolo, quando invece, con la questione di fiducia posta dal governo su maxi-emendamenti si cancella ogni dibattito, votando articoli unici omnibus? Sicché ci si domanda se l’inefficienza del sistema politico derivi dalle norme costituzionali vigenti (e che si invoca periodicamente di cambiare) o dalla loro mancata applicazione.

A restare inattuato è anche il principio di esclusività del mandato parlamentare: gli articoli 54, 67, 98 impongono al parlamentare di essere al servizio esclusivo della Nazione, senza alcun vincolo esterno, dovendo adempiere alle funzioni pubbliche con disciplina e onore. Ma nonostante il dettato costituzionale, abbiamo parlamentari stipendiati da Paesi stranieri o che fanno serenamente lobby per società private (i casi Renzi e Gasparri insegnano e non sono isolati) perché manca una legge che lo vieti espressamente (anche se basterebbe un po’ di dignità personale).

A 76 anni dalla firma di De Nicola, il Parlamento dovrebbe dedicare almeno una seduta a settimana a discutere di come attuare la Costituzione perché, come ha recentemente ricordato il presidente della Repubblica Mattarella, citando Dossetti, “nei momenti di confusione il solo riferimento è la lettura della Costituzione”.

La riforma: stato minimo e un capo assoluto, ma impotente

PREMIERATO. Il presidente del Consiglio concentrerebbe una quota di autorità statale con l’unico precedente di Mussolini, ma che adesso sarebbe sostanzialmente depotenziata e impoverita

Alfio Mastropaolo  28/12/2023

Quattro articoli bastano alla destra per scempiare l’impianto normativo della Costituzione. Tema fondamentale è l’elezione diretta del presidente del Consiglio, insieme alla sua stabilizzazione nella carica, istituendo un vincolo ferreo con la sua maggioranza.

La quale, andrebbe formata prevedendo – già in Costituzione – un sostanzioso premio di maggioranza al candidato e alla lista primi arrivati alle elezioni. Tanto, secondo la relazione che accompagna il disegno di legge, per ovviare alla «mancanza di stabilità e di coesione delle compagini governative e del continuum che lega maggioranza parlamentare ed esecutivo».

Gli specialisti hanno ampiamente illustrato le sgrammaticature del disegno: democratiche e di tecnica costituzionale. Tra le prime spicca la possibilità di consacrare quale premier un candidato sorretto da una maggioranza elettorale molto relativa. Tra le seconde rientra la concentrazione nelle mani del premier di una quota abnorme dell’autorità statale, disattivando la figura del capo dello Stato, che perderebbe il potere di nomina del presidente del Consiglio e quello di scioglimento delle camere e che in più potrebbe essere eletto agevolmente dalla maggioranza parlamentare prodotta dalla legge elettorale, rinunciando alla curvatura super partes che i costituenti avevano voluto imprimere alla carica. Un altro effetto sarebbe la definitiva sottomissione del parlamento all’esecutivo.

Ultimo venuto di una sequenza di tentativi condotti dai primi Anni 90 per cambiare le regole del gioco, quello avviato dal governo Meloni accentua e aggrava i vizi dei tentativi precedenti, fortunosamente vanificati dalle divisioni tra i proponenti o dai pronunciamenti referendari degli elettori. Ma è già da tempo che il regime disegnato dai costituenti è stato ridisegnato nella prassi, proseguendo un processo di «razionalizzazione» in origine solo accennato.

La bipolarizzazione della contesa politica, che risale ai primi Anni 90, ha in particolare prodotto una stabilizzazione ambivalente. Grosso modo: quando a vincere le elezioni è la destra, i governi si sono mostrati piuttosto stabili. Quando la destra si è trovata in minoranza, i suoi concorrenti hanno dato vita a governi ben più precari. Si è fatto perciò ricorso a maggioranze improvvisate, spesso inclusive di schegge della destra stessa, o a governi tecnici, propiziati dall’iniziativa del capo dello Stato, con un seguito parlamentare fragile e capriccioso.

L’ipotesi ipermaggioritaria contenuta nel disegno di legge potrebbe ovviare a questo problema, incoraggiando l’offerta elettorale «non di destra» a ristrutturarsi. Ma l’esperienza, anche quella degli enti locali, prova che l’impresa è difficilissima e il disegno governativo ne approfitta.

Ma alle sgrammaticature si somma anche un paradosso. Da un lato il capo del governo concentrerebbe nelle sue mani una quota di autorità statale che avrebbe come unico precedente quella detenuta di Mussolini, dall’altro tale autorità sarebbe sostanzialmente depotenziata e impoverita.

Lo svuotamento dell’autorità statale è stata già dimostrata dalla riscrittura al ribasso del Pnnr. Pensato per colmare il deficit di infrastrutture di cui soffre il paese e aggiornare il sistema produttivo, è stato ridotto all’erogazione di benefici a pioggia alle imprese, confermando, oltre alla soggezione della destra di governo agli interessi forti, l’assenza di strumenti amministrativi idonei a governare un qualsiasi serio processo di rinnovamento.

Devastate da anni di politiche di austerità, di riduzione indiscriminata della spesa, di dequalificazione e riduzione del personale, le amministrazioni centrali sono in grave crisi di efficienza, nonché incapaci di supplire alle carenze provocate a cascata sulle amministrazioni locali. Una volta rafforzata la figura del capo del governo, di quali leve potrà allora disporre per attuare la promessa di ovviare all’attuale «difficoltà di concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione»?

La carenza di leve è destinata ad aggravarsi ove giungesse a compimento il progetto di autonomia differenziata cui sta alacremente lavorando il ministro Calderoli, che prevede la possibilità di attribuire, ove lo richiedano, alle regioni competenze vastissime in materia di sanità, istruzione, università, beni culturali, trasporti, attività produttive, lavoro e altro ancora. Il tutto accompagnato dall’attribuzione di una quota delle risorse fiscali commisurata oltre che alle nuove competenze (secondo criteri stabiliti nazionalmente), almeno in parte, alle imposte raccolte nel territorio regionale. Sconfessato il principio di solidarietà tra le regioni, i cittadini di quelle più ricche legittimamente fruirebbero di più e migliori servizi rispetto agli altri. i mezzi a disposizione dell’esecutivo e del suo capo sarebbero comunque ulteriormente decurtati.

Non è tutto. Il premier assoluto di un paese fatto a tocchi sarebbe infine sottoposto ai vincoli in materia di spesa pubblica e di rientro del debito pretesi dal nuovo patto di stabilità. L’Ue ha concesso al governo in carica l’elemosina di tre anni di dilazione per alleviare le sue difficoltà elettorali. Ma già in questi tre anni il governo avrà margini ridotti: non potrà condurre alcuna politica di crescita e sarà costretto a ridimensionare ancor di più i servizi pubblici. Altro che riforme!

La presidente Meloni non è una sprovveduta. Altri sono dunque gli obiettivi del suo disegno. Sa di non avere il patrimonio e neanche l’appeal di Berlusconi ed è per lei prioritario il consolidamento definitivo del suo potere personale e di quello della sua parte politica. E lo schema applicato da Orban in Ungheria e solo di poco fallito in Polonia. Le costituzioni, si sa, sono stravolgibili costituzionalmente.

Il secondo obiettivo è predisporsi alla retrocessione della statualità al suo originario nucleo coercitivo: ordine pubblico e difesa. La retrocessione è in corso da tempo, non solo in Italia, ma potrebbe accelerarsi e aggravarsi. La repressione poliziesca fa parte del Dna di questo governo. Va da sé che, dotato di poteri assoluti, il premier sarebbe agevolato nel prevenire e reprimere qualsiasi protesta suscitata dalle misure di macelleria sociale richieste dalla sua preferenza per i poteri forti o imposte dai vincoli europei, di cui la finanziaria in approvazione sta fornendo un assaggio.

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