LA BANALITÀ DEL MALE: GAZA E NON SOLO da VOLERE LA LUNA
La banalità del male: Gaza e non solo
06-06-2024 – di: Simona Fraudatario e Gianni Tognoni
Richiamare uno dei testi fondanti della cultura (più ancora che del diritto) della civiltà seguita alla Seconda guerra mondiale per una riflessione su quanto si sta vivendo in questi interminabili mesi, che hanno restituito un ruolo di protagonista globale al termine “genocidio”, può apparire frutto di incompetenza o di ideologia. Ma così non è alla luce della lunga in un organismo (il Tribunale Permanente dei Popoli) che si è confrontato sistematicamente con situazioni riconducibili a quella che oggi si vive tra uno Stato (Israele) riconosciuto come autorità legittima ed esemplare nella comunità internazionale e un Popolo (quello palestinese) che, da quando le Nazioni Unite lo hanno formalmente indicato come titolare di uno Stato simmetrico a Israele, continua ad essere un’entità virtuale (e di vittima concreta, e anch’essa esemplare). Da una parte, un’autorità giuridicamente riconosciuta a prescindere dalla sua aderenza o violazione alle regole di una democrazia non solo formale; dall’altra, i popoli che, pur con tanti nomi (opposizioni, popolazioni, minoranze, movimenti di liberazione…), condividono la realtà di essere negati-repressi-puniti nei loro diritti fondamentali, nei modi più diversi e drammatici.
Non è difficile riconoscere queste situazioni nelle mappe geopolitiche che via via si rinnovano. Bastano pochi nomi, anche vicini agli scenari che circondano Gaza, e non solo: Turchia, Iran, Egitto, Myanmar, Sri Lanka… La caratteristica comune di queste situazioni è quella di conflitti per i quali si esclude a priori una soluzione. Il diverso-dissidente è il nemico: non può avere spazi di azione che mettano in difficoltà la controparte. E se c’è la minaccia di una forza antagonista, occorre dichiararne la non appartenenza alla società degli Stati. La definizione più mainstream per questa entità che può nascere ovunque e per i diversi motivi è terrorismo: introdotta nel linguaggio universale dagli Stati Uniti e adottata senza nessun accordo giuridico, ma come categoria indefinita, tanto da poter essere applicata arbitrariamente come una condanna automatica e passibile delle più diverse sanzioni, fino alla legittimazione di una guerra per distruggerla. Il Medio Oriente ne sa qualcosa, dai tempi delle Guerre del Golfo che hanno inaugurato l’entrata ufficiale del “terrorismo” come attore strutturato dello scenario internazionale. In queste situazioni, la comunità internazionale degli Stati, attraverso le Nazioni Unite e le Corti internazionali, ha un potere di intervento molto ristretto, perché sostanzialmente dipendente dai poteri più forti (che arrivano a non riconoscerne la competenza) e da interessi geopolitici, sempre più banalizzati e irrigiditi-diversificati, in termini di interessi economici, che nelle loro diverse forme sono i più potenti attori transnazionali.
Quanto succede con il “mercato delle armi” e dei “sistemi di sorveglianza-sicurezza”, generalizzati e promossi ben al di là dell’uso nelle tante guerre tra Stati e terrorismi, completa un quadro di cui la guerra Russia-Ucraina, o Russia-Nato, è lo scenario devastante: da tutti riconosciuto come un “teatro”, con spettatori obbligati e diversamente paganti (o vittime), senza vincitori previsti, e che perciò si può prolungare senza scadenze. La guerra in Ucraina, divisiva tra tutte le tendenze politiche per le non-ragioni più diverse, è anche il pro-memoria del dato di fatto che appare nelle cronache più per impressionare che per far pensare. La presenza di decine, o centinaia, o migliaia, o milioni di soggetti umani, singoli o collettivi, titolari di diritti inviolabili, è una variabile assolutamente facoltativa, confinata, con la dovuta solennità, come oggetto di “raccomandazioni” o di preoccupazioni. La loro rilevanza è misurata, all’interno degli Stati, nei termini del peso che possono avere come elettori, consumatori, mano d’opera a costi sostenibili. I loro diritti coincidono con il grado di democrazia del singolo Stato. Le frontiere sono impermeabili, in entrata e in uscita, ai diritti umani che continuano a chiamarsi universali.
Gaza è stata il laboratorio di verifica di tutte le definizioni, esplicite e implicite, degli ambigui scenari di diritto appena evocati e si impone come chiave di lettura della loro tenuta rispetto al progetto di civiltà con cui confrontarsi. Un attacco da parte di un movimento “terroristico”, perfettamente noto e ufficialmente sorvegliato da Israele fino nei dettagli più personali della sua composizione, ha preso ufficialmente di sorpresa uno Stato che da 75 anni viola i trattati internazionali nella più assoluta impunità anche per crimini come l’apartheid contro tutto un popolo. La risposta è stata universalmente riconosciuta come “sproporzionata”, ma questo “eccesso” ha raggiunto livelli di inumanità mai visti, resistenti a tutte le pressioni di cessate il fuoco e via via “perfezionati” con ripetute violazioni dei diritti più elementari e antichi. Perfino un Segretario Generale delle Nazioni Unite, certo non rivoluzionario, ne ha sancito la impensabilità: e le immagini della banalità con cui l’orrore si diversificava fino agli ultimi (finora) bruciati vivi di Rafah, tranquillamente definito “un incidente”, sono entrate a pieno titolo in antologie di inumanità che si pensava appartenessero al mai più. La pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia è stata non solo rigettata da Israele contro ogni evidenza ma accolta con il gesto plateale e sprezzante di tagliuzzare lo statuto delle Nazioni Unite: Israele si dichiara a priori non solo in-giudicabile, ma estraneo alla comunità internazionale. Non si è risparmiata neppure la vacuità di dichiarare terrorista l’Unrwa. E irride, offeso, all’ipotesi che si possa parlare di genocidio, anche quando si dimostra che da anni i suoi servizi segreti inseguivano il presidente della Corte Penale Internazionale per documentarne anticipatamente la non credibilità.
Nel frattempo, in quanto soggetto “inesistente”, il popolo palestinese continua ad essere massacrato: suscitando una emotività che occupa pagine sempre più interne, perché sempre uguale e scostante come uno spettacolo obbligato. La discussione (se questo termine ha senso in questo contesto) si concentra sulla definizione del crimine e sulla competenza delle Corti. “Genocidio” è parola proibita (come, nel quadro generale sopra ricordato, lo è il termine “pace”…). Può essere usato solo per l’evento che ha fondato con la sua tragicità la nostra storia. Ed è segno di antisemitismo dichiarare che lo Stato di Israele, proclamatosi non appartenente alla storia attuale, riproduce (lo dicono bene, da anni, suoi membri autorevolissimi come A. Burg e tanti altri) l’Hitler profondo che ha in sé per la sua origine sionista. Le definizioni che pretendono non confrontarsi con il presente e la realtà dei fatti sono una trappola funzionale al gioco dei poteri da cui si è partiti. A Gaza, in modo esemplare, si sta decidendo (o si è già deciso) quali sono le definizioni che contano per il presente-futuro di un mondo che non riconosce più – e non pensa più di rispettare – un diritto che cerca di essere universale per gli umani, perché la legge delle cose è prioritaria ed escludente: e le cose umanitarie non possono essere date neppure ai bambini di quegli umani che rappresentano, con la loro concentrazione in una striscia che sostituisce una terra da abitare, tutti i migranti del mondo.
Anche se gli esperti internazionali e indipendenti di genocidio concordano sul fatto che a Gaza (come nel Myanmar o contro i Kurdi) ciò che succede ha superato tutti i limiti di definizione, il male si è fatto così “banale” ed evidente (e il diritto che lo deve definire chiaro ma lontano) che si sente il bisogno di una domanda-sogno: e se, eliminando le formalità delle definizioni, si arrivasse a riconoscere che la vita e l’esistenza del popolo palestinese è sacra (in quanto rappresenta anche le vite di tanti popoli) e la sua autodeterminazione dovuta? E la pace può avere un futuro? A Gaza, banalmente, si sta invece continuando a dire che non c’è spazio – nella cultura, nella politica, nella civiltà della comunità internazionale – per un futuro umano. Gaza può ripetersi ovunque. Se il diritto internazionale non coincide con una rilettura della convivenza umana secondo cui Gaza non è un “evento genocida” contro un popolo siamo di fronte alla dimostrazione – concentrata in un’area ridicolmente piccola, banale, e in un tempo che non ha durata – che il salto di civiltà prodotto dai milioni di morti della seconda guerra mondiale è da rifare. Perché i bambini di Gaza ricordano tutti i milioni che muoiono in eccesso per effetto del mercato. Dobbiamo inventare un tribunale per condannare il capitalismo o il neocolonialismo di un colore o di un altro?
Una risposta reale per Gaza è in una lista d’attesa di cui si conoscono perfettamente i responsabili e i loro incroci. E non ci sono risposte per i terrorismi di Hamas e per i genocidi in corso, più o meno giuridicamente definibili. Nell’oscurità dell’impunità, le Corti hanno aperto, a partire da Gaza (forse per rendere la brutalità senza senso e senza limiti che la opprime meno minacciosa per la buona coscienza della nostra civiltà?) fessure che si vorrebbe tanto qualificare di speranza. Più profonda dell’impunità, imposta dai poteri ufficiali per proteggere colpevoli di cui sono in diverso modo complici, la “banalità del male” che considera le vite degli umani come disposable, usa e getta, è la sfida aperta, in una società eticamente capovolta, per un diritto capace di confrontare le proprie definizioni con la durezza e le ipocrisie della storia che si vive, e della memoria di tutte le resistenze che lo hanno sognato.
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