I CANCELLI DI AUSCHWITZ APERTI SULL’ORRORE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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I CANCELLI DI AUSCHWITZ APERTI SULL’ORRORE da IL MANIFESTO

I cancelli di Auschwitz aperti sull’orrore

27 gennaio 1945 La fanteria sovietica spalanca lo sguardo del mondo sul più grande crimine mai commesso in Europa. Ma il mondo non è pronto ad ascoltare i testimoni come Primo Levi. E la promessa «Mai più» viene presto tradita

Carlo Greppi  26/01/2025

Auschwitz, 27 gennaio 1945. Nel freddo glaciale polacco dell’ultimo inverno di guerra le baracche di uno dei magazzini di Auschwitz II-Birkenau, il Canada II, sono ancora in fiamme: i nazisti in fuga hanno cercato di distruggere le prove dello sterminio.

E in tutto il complesso di Auschwitz, una vera e propria regione concentrazionaria con i suoi quaranta sottocampi, l’odore della morte di massa è ovunque.

La popolazione schiava, che prima brulicava e sopravviveva a stento, è in gran parte sparita. Si è consumato il più indicibile crimine commesso in Europa in tutta la sua storia.

Primo Levi è uno dei pochi rimasti. Nell’incipit de La tregua è descritta la scena in cui quattro soldati a cavallo, arrivati senza ordini precisi su come comportarsi, osservano quello che è appena stato: «Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo».

«Le mie parole non saranno mai sufficienti a raccontarvi quello che hanno fatto di noi»Paul Cerf

«Le mie parole non saranno mai sufficienti a raccontarvi quello che hanno fatto di noi», scrisse in questo stesso inverno da Birkenau il deportato politico francese Paul Cerf.

Tra i pochi capaci di trovarle, e fin da subito, ci sarebbe stato proprio Levi, che nel 1947 avrebbe pubblicato la prima edizione di Se questo è un uomo.

L’incipit de La tregua, scritto forse già in quello stesso 1947, non a caso verrà da lui ripreso nell’ultimo suo libro, I sommersi e i salvati, quasi quarant’anni dopo, per ricordare quella scena dei quattro russi frastornati, paralizzati. Nei loro occhi, Levi e i suoi compagni videro la vergogna «che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa».

A partire dall’arrivo dei primi ricognitori della 100ma divisione fanteria di Leopoli, che il 26 gennaio attraversò la Vistola e il 27, dopo un breve combattimento con i tedeschi in ritirata, liberò Auschwitz I e Birkenau, gli internati in uno stato di relativa salute poterono prendere la via di casa.

Erano liberi, dopo oltre un decennio di persecuzioni e dopo i quattro terribili anni in cui la morsa dello sterminio si era stretta sull’Europa nera – una manciata di salvati emersa da un oceano di dolore ferocemente burocratico, iniziato selvaggiamente nel 1941 e messo a punto nella conferenza di Wannsee del 20 gennaio del 1942.

Gli altri campi di sterminio erano stati già smantellati, evacuati o liberati quando l’Armata Rossa arrivò infine ad Auschwitz, trovando 514.843 capi di vestiario e di biancheria da uomo, donna e bambino caricati su sette vagoni e oltre un milione di abiti e altri oggetti nel Canada I; il male si scorge anche in questi dettagli.

Per i sopravvissuti come Levi iniziò un’altra storia. Da gennaio del 1945 cominciò l’odissea che li avrebbe riportati alle loro case, o in quello che ne restava.

Lui, ed è proprio quello che racconta ne La tregua, si trovò incagliato in un itinerario labirintico in Europa centro–orientale per poi arrivare a Torino, lacero e gonfio, il 19 ottobre.

In quelle prime settimane si infranse la sua radicata timidezza e iniziò a parlare con tutti: non sarebbe stato facile farsi ascoltare, perché molti, moltissimi, avrebbero preferito dimenticare, e ricostruire.

Per di più Levi e i reduci ebrei non erano certo i soli italiani ad attraversare l’Europa in questo stato, in quei mesi. Erano pochi tra i tanti che tornavano dall’inferno tedesco, soprattutto – numericamente – militari internati, lavoratori civili e oppositori politici.

«Tornano a piedi, si aggrappano ai treni e agli autocarri, vanno a piccole tappe, mendicano, dormono come possono, marciano come sonnambuli verso il Brennero, verso Tarvisio, verso i settemila comuni italiani», recita L’Epoca del 23 maggio.

In quel momento si sapeva assai poco del crimine appena compiuto, le immagini degli orrori dei Lager ancora non avevano diffusione degna di nota e anche la stampa faceva una gran confusione tra i campi di sterminio destinati alla «soluzione finale» e i luoghi in cui avveniva l’annientamento attraverso il lavoro come Mauthausen, liberato dagli americani il 5 maggio.

Noi, oggi, però sappiamo.

Non che sia stato facile per i deportati politici, il dopoguerra. Ma ai nostri, di occhi, si impone l’immenso striscione che accoglie i 22 soldati statunitensi al loro ingresso nel Lager austriaco – «Los españoles antifascistas saludan a las fuerzas liberadoras» –, a mostrare una consapevolezza delle ragioni per cui si era finiti nella cosmopolita galassia concentrazionaria, mostrata con orgoglio proprio da chi aveva combattuto i fascismi per un decennio, se non di più.

Per chi invece si era trovato nella morsa della persecuzione per il solo fatto di esistere, spesso, fu molto più dura indagare il perché di un male politico così radicale e immondo.

«Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è, ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere»Primo Levi al suo traduttore tedesco, 1960

«Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è, ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere», avrebbe scritto nel 1960 Levi al suo traduttore, il partigiano tedesco Heinz Riedt.

E tutta la vita ci avrebbe messi in guardia: «Al termine della catena» c’è sempre il Lager, l’annientamento, lo sterminio. Così è, la storia dell’umanità.

Quella vergogna oggi ancora esiste, ed è anzi persino più funerea: perché c’è stata Auschwitz nel cuore della “nostra” Europa e perché da allora si è detto, prima timidamente, poi convintamente e poi addirittura istituzionalmente: «Mai più».

Ma gli ottant’anni trascorsi da allora, con l’elenco interminabile di orrori che va da Hiroshima all’Algeria, dal Vietnam al Ruanda, dalla Jugoslavia all’Afghanistan, dalla Siria a Gaza, sembrano dirci, con Levi, che siamo ancora lì, e che la nostra volontà, che sia «buona», «nulla» o «scarsa», «non abbia valso a difesa».

Articolo da 1945, l’anno più grande, supplemento speciale del manifesto (acquistalo qui)

Memoria ritrovata, un’urgenza narrativa

Itinerari critici Un percorso di letture intorno al racconto dell’orrore dei lager. A 80 anni dalla liberazione di Auschwitz, alcuni quesiti che porta con sé la fine dell’era del testimone.

Guido Caldiron  26/01/2025

L’ottantesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio del 1945 ad opera dei soldati dell’Armata rossa, coincide per molti versi con l’annunciato tramonto dell’«era del testimone», vale a dire dell’epoca efficacemente definita in questi termini dalla storica francese Annette Wieviorka oltre trent’anni fa, nella quale i superstiti della Shoah, attraverso i loro racconti e testimonianze, si sono incaricati di rinnovare la consapevolezza dell’Occidente intorno alla più grande tragedia che si sia mai compiuta sul suolo europeo e in seno alla stessa cultura del Vecchio continente. Un ruolo determinante, quello dei testimoni, nel rinnovare l’attenzione intorno allo sterminio degli ebrei d’Europa, ma anche nel contribuire a porre nuovi interrogativi sul rapporto tra storia e memoria: interrogativi che oggi, con la inevitabile scomparsa di molti tra loro, acquistano una ulteriore e nuova urgenza.

UNO DEGLI ELEMENTI che emerge in questa fase ha, non a caso, a che fare con l’intreccio tra testimonianza, ricerca storica e forma narrativa: un quesito che non riguarda certo il «cosa», quanto piuttosto il «come» raccontarlo. In sintesi, come rispondere alla sfida che il trascorrere del tempo pone non solo alla possibilità di incontrare personalmente i sopravvissuti, ma anche al modo di avvicinare, specie i più giovani, alla comprensione reale e profonda di tragedie cui le celebrazioni ufficiali offrono fortunatamente una indiscussa visibilità, ma talvolta non altrettanta partecipazione e capacità di indurre l’interlocutore a porsi quesiti che lo interroghino profondamente.

Non suoni perciò «sacrilego», come avrebbe scritto Primo Levi, o peggio superfluo, valutare alcune delle forme attraverso le quali si compie, e si sia compiuta fin qui, questa ineludibile e feconda trasmissione della memoria. Ad offrire uno spunto di grande interesse è, come spesso accade per il suo lavoro, lo storico Sergio Luzzatto, attualmente in carica all’Università del Connecticut. Nel suo recente Primo Levi e i suoi compagni. Tra storia e letteratura (Donzelli, pp. 164, euro 24), Luzzatto muove da una considerazione inversa a quella che qui si propone, proponendo da storico una ricerca che riconduca le figure che compaiono nelle opere di Levi, ad iniziare dai compagni del Kommando chimico di Auschwitz-Monowitz di Se questo è un uomo, alla loro dimensione storica, ai loro veri nomi come alle loro successive vicende biografiche.

Nello svolgere questa preziosa, e inedita opera di indagine, lo storico ribadisce come nella traiettoria di Primo Levi, «la stagione della testimonianza storica e quella della scrittura letteraria» non possano in realtà essere nettamente separate: Levi avrebbe probabilmente potuto diventare uno scrittore in ogni caso, i suoi romanzi sono al centro della storia letteraria italiana del Novecento, ma la tragica esperienza della deportazione ne hanno fatto anche uno dei principali testimoni, se non «il testimone» per eccellenza, dell’orrore della Shoah. Se l’importanza di questo libro di Luzzatto rimanda all’evidenziare il profilo storico delle opere di Levi, nondimeno mette l’accento su quelle determinanti caratteristiche letterarie, da tutti ovviamente riconosciute e celebrate, che nella sua figura videro coincidere il grande scrittore con una figura per molti versi antesignana di quell’era del testimone che oggi volge al termine.

L’INTRECCIO TRA SCRITTURA e testimonianza, tra memoria ritrovata e capacità di trasmissione di un’eredità inquieta e irrisolta, attraversa del resto come un’urgenza cui rispondere con precisione, anche molte delle opere proposte in occasione dell’anniversario della liberazione di Auschwitz. Al punto che forse non a caso ad introdurre il testo più recente di Frediano Sessi, tra i maggiori studiosi italiani della Shoah, è una frase di Tzvetan Todorov dedicate a celebri figure letterarie create da autori del calibro di Wilde, Rilke, Cvetaeva: «Una volta trasformata in parole, questa esistenza cessa di appartenere a un essere in carne e ossa e si avvicina a quella di un personaggio letterario; gli individui menzionati dallo storico sono paragonabili agli eroi di un romanzo».

In Quando imparammo la paura (Marsilio, pp. 206, euro 17), Sessi ricostruisce la storia di Laura Geiringer, a partire dal Memoriale che l’ebrea triestina scrisse per raccontare la propria deportazione ad Auschwitz-Birkenau a vent’anni, sullo stesso convoglio di Primo Levi, e le atrocità che lì aveva subito; sopravvissuta a stento, l’unica della sua famiglia, sarebbe morta nel 1951, senza essersi mai del tutto rimessa fisicamente dai giorni del lager: per molti versi, Laura Geiringer non aveva mai lasciato davvero Auschwitz. Anche per questo, come scrive lo stesso Frediano Sessi, raccontare la sua storia «rappresenta un’urgenza morale. Ricostruire ogni vita di coloro che nei Lager o al ritorno sono scomparsi resta pur sempre l’unico modo per rendere giustizia alle vittime, guardare al futuro e scagliare un atto d’accusa contro chi ha pensato e realizzato le tappe che hanno condotto allo sterminio degli ebrei d’Europa». Si tratta di «dare corpo e voce ad ogni nome», ribadisce Sessi, restituendo per questa via, come il già citato Primo Levi aveva sottolineato fin dall’inizio, l’umanità a coloro cui i nazisti l’avevano voluta sottrarre.

Nell’introduzione all’importante memoir che l’ex deportato politico Wieslaw Kielar pubblicò in Polonia nel 1972, Anus mundi, e che ora è proposto per la prima volta ai lettori italiani da Giuntina (traduzione di Alessandro Pugliese, pp. 420, euro 22), Wlodek Goldkorn aggiunge un tassello alla riflessione che stiamo cercando di compiere: «La memoria non è altro che le storie che vengono raccontate». Nel caso specifico, Kielar, scomparso nel 1990, racconta in questo libro che fa luce sul sistema concentrazionario nazista, la sua esperienza di deportato che sarebbe passato da Auschwitz, dove arrivò nel giugno del 1940, pochi giorni dopo l’apertura del campo, ad altri lager e sotto-campi di lavoro che alimentavano con lo sfruttamento schiavistico dei prigionieri l’economia di guerra del Terzo Reich e i proventi della grande industria.

Alle domande che accompagnano la sfida che l’imperativo morale della memoria pone a chi voglia leggere con chiarezza nel tragico passato d’Europa, come utilizzare quel ricordo dolente per scorgere le minacce attuali che si profilano all’orizzonte, si può rispondere con diversi strumenti. Alle storie dei sopravvissuti, a memoir e ricostruzioni che si muovono tra il piano storico e quello più strettamente narrativo, si aggiungono romanzi e racconti che pur traendo ispirazione da eventi reali ne offrono una lettura tutta interna alla dimensione letteraria. È il caso di La promessa, della scrittrice francese Marie de Lattre, pubblicato in occasione del Giorno della Memoria dall’editore Clichy (traduzione di Sara Arena, pp. 208, euro 19,50).

Nel caso di de Lattre, ad ispirare il romanzo è la rivelazione da parte del padre che sia i suoi genitori, Ismak et Frieda Kogan, ebrei russi arrivati in Francia negli anni Venti, che la coppia che l’aveva adottato dopo la loro cattura, erano stati deportati ad Auschwitz dopo essere passati per Drancy, alle porte di Parigi, il campo istituito dalle autorità francesi che collaboravano con i nazisti. Solo i de Lattre sopravvissero, onorando fino alla fine la promessa che i quattro si erano fatti a vicenda di vegliare su quel bambino che tanto avevano amato: Jacques, il padre della scrittrice. Rielaborando in termini narrativi una vicenda familiare che evoca però un contesto che interessò e spesso travolse molti francesi tra gli anni Quaranta del Novecento e l’immediato secondo dopoguerra, La promessa interroga i fondamenti della trasmissione della memoria, il rapporto e la riconciliazione tra le generazioni, l’istinto di sopravvivenza e la violenza che può nascere all’ombra del silenzio. Per molti versi, in questo caso non si tratta soltanto di restituire un profilo a lungo negato a identità e vite travolte dalla storia, ma di fare della memoria uno strumento narrativo a se stante, in grado di raccontare ma al tempo stesso di porre senza sosta domande ai lettori.

INFINE, L’IMPORTANTE VOLUME della storica Laura Fontana, consulente scientifica del Mémorial de la Shoah di Parigi, introduce ad una considerazione per molti versi inedita, che ha come oggetto il modo in cui lo sterminio degli ebrei d’Europa ha lasciato dietro di sé una traccia indelebile costituita da milioni di fotografie, «tra singoli scatti, reportage ufficiali e album privati, realizzate dai soggetti che hanno preso parte, subito o assistito o assistito alla tragedia». In Fotografare la Shoah (Einaudi, pp. 442, euro 32), Fontana riflette sul contributo che questa vasta messe di immagini può oggi offrirci nel tentativo di comprendere i diversi aspetti di quella tragedia. Consapevoli, come scrive la storica, che si è trattato di «un processo segnato da varie forme di prevaricazione e violenza che può essere raccontato con l’aiuto di tanti tasselli luminosi, le fotografie che si sono conservate, che squarciano l’oscurità e fanno intravedere alcuni frammenti, lasciando alla nostra immaginazione quello che i documenti di archivio non mostrano».

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