DETERIORAMENTO DELLA PACE GLOBALE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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DETERIORAMENTO DELLA PACE GLOBALE da IL MANIFESTO

Deterioramento della pace globale

NUOVA FINANZA PUBBLICA . La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari

Antonio De Lellis  05/08/2023

L’Institute for Economics & Peace (Iep) misura la pace in un mondo complesso. Dall’ultimo report (Gpi) 2023 si evince che l’impatto economico della violenza a livello globale nel 2022 è stato di 17,5 trilioni di dollari di acquisti. Questa cifra è equivalente al 12,9% del Pil mondiale o a 2.200 dollari a persona, in aumento del 6,6%rispetto all’anno precedente.

Questo è stato determinato principalmente da un aumento dell’impatto totale economico della spesa militare globale, che è aumentata del 16,8%, in termini assoluti. Gran parte dell’aumento è derivato dalla invasione russa dell’Ucraina e dalle relative spese militari dai paesi direttamente e indirettamente coinvolti nel conflitto. Per i dieci Paesi più colpiti dalla violenza, la media economica dell’impatto è stata pari al 34% del Pil.

Il rapporto Gpi 2023 esamina anche l’impatto economico di un ipotetico blocco cinese di Taiwan. Iep stima che un blocco avrebbe un impatto due volte più grande della crisi finanziaria globale, con il Pil globale in calo del 2,8% in un anno. L’economia cinese si ridurrebbe di una stima del sette%, mentre l’economia di Taiwan si contrarrebbe di quasi il 40%. Ci sarebbe una fuoriuscita significativa in qualsiasi settore che si basa su complessi di elettronica, poiché Taiwan produce oltre il 90% dei semiconduttori logici avanzati del mondo.

La necessità di una risposta sistemica per costruire la pace è urgente. Il conflitto si sta intensificando in diverse regioni e il divario tra i paesi più e meno pacifici continuano a farlo crescere, e anche se molte misure di militarizzazione sono migliorate negli ultimi quindici anni, la proliferazione di tecnologie militari avanzate più economiche, la crescente concorrenza geopolitica, e una sottostante corrente di instabilità politica in molti paesi significa che un continuo deterioramento della pace globale sembra probabile.

Nonostante questo quadro drammatico, le dichiarazioni politiche, anche della premier Meloni (12 luglio 2023), vanno nella direzione di considerare come altamente vantaggioso investire in armamenti. Secondo il dossier pubblicato da Sbilanciamoci nel marzo del 2023 a firma di Gianni Aliotti, l’idea che l’industria militare sia una trave portante del sistema economico e occupazionale è solo un mito, sfatato dai dati ufficiali del settore.

Negli ultimi dieci anni ciò che è aumentato è solo il fatturato – e i profitti, lievitati del 773% – mentre gli occupati sono calati del 16%. Il discorso pubblico nonviolento dovrebbe discendere sempre più dal mettere in evidenza che esiste una legge di tendenza generale, a partire dalla quale è possibile creare, in alternativa, le condizioni per la pace. Le disuguaglianze creano conflitti anche tra le oligarchie mondiali che sono alla base della guerra in Ucraina.

La nostra capacità di metterlo in evidenza ci condurrà fuori dalle secche di discussioni sterili che ci portano quasi sempre in un vicolo cieco. Ecco perché le fondamentali discussioni sull’invio di armi, pur tuttavia altro non sono che una deviazione dal tema principale: questo sistema capitalistico neoliberista è basato sulla guerra, contro i poveri che crea, contro l’ambiente che viene depredato, ma anche a livello delle stesse oligarchie debitrici e creditrici che attribuiscono a questo conflitto un significato da resa dei conti per la costruzione di un nuovo loro ordine mondiale, militare, economico e tecnocratico.

A noi questa lettura interessa per non dividerci, per prendere il largo e condurre i popoli laddove esistono germi nuovi di un mondo nonviolento, indipendente, non subordinato che basi i propri rapporti economici sulla parità, che elimini il ruolo della finanza speculativa e che rifondi la politica su questi presupposti. Questa economia di pace dovrà essere sempre più il centro delle nostre analisi.

Vendere più armi. Nuova legge, vecchia storia

EXPORT MILITARE. Il governo Meloni motiva la modifica della legge 185 con la necessità di riportare l’export sotto l’ala della politica, sottraendolo a una decisione solo burocratica. Ma è già così

Francesco Vignarca  05/08/2023

Il parlamento discuterà il disegno di legge del governo che riforma la storica legge 185 del 1990 sulle modalità dell’export militare italiano. E noi, organizzazioni della società civile, lo contrasteremo. L’obiettivo è chiaro: un ulteriore sostegno all’industria militare.

Quello che il governo propone sono la creazione di un Comitato interministeriale (che valuti il rilascio di licenze di esportazione al posto dell’attuale Uama, l’Unità per l’autorizzazione in materia di armamento) e la riduzione delle tempistiche di rilascio delle licenze. Interventi che l’industria militare chiede da due o tre anni.

Non è una questione legata al solo governo Meloni o alla presenza di un ministro come Crosetto: se oggi l’industria militare vive una congiuntura favorevole, è da qualche anno – e da qualche governo – che si prepara il terreno, con gran parte delle forze politiche favorevoli al cosiddetto government to government, ovvero alla firma di contratti di vendita tra governi che poi si traducono direttamente in commesse militari per le aziende.

È una lunga marcia, che oggi arriva al cuore della questione: quello dell’export. Perché qui non si tratta solo di spese militari, di quanto cioè l’Italia spende per le armi; qui si tratta della destinazione delle nostre armi. Dalle analisi compiute come Rete Pace e Disarmo, sappiamo che negli ultimi anni le autorizzazioni alla vendita hanno riguardato sempre più spesso i paesi del Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente.

La legge 185 del 1990 era riuscita a «spostare» l’invio delle armi italiane, dietro a svariati scandali negli anni ’70 e ’80, da destinatari problematici a paesi alleati, Nato e Ue. Ora avviene il contrario ed avviene perché la 185 è stata già erosa. Ma non erosa del tutto, da cui la necessità governativa di una riforma per facilitare ulteriormente l’export di armi. Una necessità che nasce proprio dalle vittorie della società civile, riuscita negli ultimi anni a far votare al parlamento prima la sospensione e poi il blocco dell’invio di bombe e missili ad Arabia saudita ed Emirati arabi. I meccanismi previsti dalla legge 185 erano stati semplicemente applicati. E questo ha creato la fibrillazione: l’invio delle armi poteva essere davvero bloccato.

La motivazione della riforma data dal governo è la necessità di riportare sotto una decisione politica quello che adesso dipenderebbe da una decisione burocratica. In realtà la decisione politica c’è già: è la linea di indirizzo con cui il governo può intervenire, oltre alla relazione continuativa con l’Uama attraverso riunioni periodiche interministeriali e le indicazioni della difesa, degli esteri, dello sviluppo economico e della stessa presidenza del consiglio. Tanto che proprio in questi anni si è registrato un aumento dell’export militare in termini di quantità e di qualità: è cresciuto il numero dei paesi acquirenti e sono cresciute le autorizzazioni perché i governi hanno fatto una scelta politica.

Attenzione però: la legge 185 è avanzata e innovativa nella sua capacità di controllo, ma liberarsene non basterà. Negli ultimi trent’anni l’Italia ha aderito alla Posizione comune europea del 2008 e al Trattato sul commercio delle Armi (Att) del 2013, nato dalle pressioni della società civile e con norme ancora più stringenti.

Il Comitato interministeriale immaginato dal nuovo disegno di legge può dare indirizzi politici ma non può essere quello che nella pratica verificherà che le richieste di licenze siano congrue ai criteri previsti. Violazioni della legge nazionale e internazionale – che vieta la vendita di armi a paesi in conflitto o paesi che violano i diritti umani – non possono essere superate schermandosi dietro «l’indirizzo politico».

Questo governo tenta a livello nazionale di superare la legge 185, ma non può andare oltre i criteri cui l’Italia ha scelto liberamente di aderire a livello internazionale. Per questo il tentativo di riforma puntella la sua strategia: non solo valutazioni politiche, ma anche economiche e di posizionamento della nostra industria. Ovvero favorire gli affari armati permetterebbe lo sviluppo e garantirebbe posti di lavoro, lo stesso discorso che una certa politica fece quando riuscimmo a bloccare l’invio di armi che sauditi ed emirati sganciavano poi sullo Yemen. Affari e vantaggio economico, ancora una volta, verrebbero prima dei diritti umani e della legge internazionale.

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