8 MILIARDI: OVERBOOKED! NON “FACITE AMMUINA” da IL FATTO
Clima, l’aumento di 1,5°C è ormai un’illusione. Ora siamo nella fase della depressione caotica
Renzo Rosso 15 NOVEMBRE 2022
La Cop26 di Glasgow aveva chiesto di rafforzare i contributi nazionali alla riduzione delle emissioni. Nessun progresso c’è stato in tale direzione. E, con le guerre energetiche, la crescita di un solo grado e mezzo è ormai una illusione: una Terra più calda di due o tre gradi è una ipotesi non inverosimile. Dopo la “curiosa indifferenza” degli anni ’90, il “negazionismo consapevole” dei primi dieci anni del secolo e la “grancassa finanzcapitalista” degli anni ’10, la risposta alla crisi climatica è entrata nella fase della “depressione caotica”.
Trent’anni fa un dotto influencer mediatico mi disse: “Perdi tempo: l’effetto serra è già fuori moda. Non hai scritto proprio tu che già un secolo fa Arrhenius aveva spiegato questa bizzarria?”. In effetti, il manoscritto che costui mi aveva restituito con l’amichevole consiglio di cestinarlo narrava anche le intuizioni del premio Nobel 1903 per la chimica. Ma il libro intitolato Effetto serra, che pubblicai nel 1994 dopo varie peripezie, aveva un sottotitolo concreto: “Istruzioni per l’uso”. E, con il senno di cui sono piene le fosse, posso affermare che l’umanità non ha usato bene l’effetto serra.Vent’anni fa, un premio Nobel 2021 chiese aiuto alla revisione di un importante rapporto scientifico. Era la relazione finale che l’amministrazione Bush (figlio) aveva affidato a undici augusti scienziati e che altri tredici esperti di alto profilo erano chiamati a valutare, come si fa nei paesi rispettosi del sapere scientifico: Climate Change Science: an analysis of some key questions, National Academy of Sciences, 2001. Il rapporto non negava la circostanza che “i gas serra si stanno accumulando nell’atmosfera a causa delle attività umane, provocando l’aumento delle temperature dell’aria e degli oceani. E le temperature, infatti, sono in aumento”. Ma metteva soprattutto in luce l’incertezza delle stime. E dei conseguenti scenari.
Gli augusti scienziati non avevano torto. Più il modello è complicato e dettagliato, meno è capace di ridurre i margini di incertezza degli scenari climatici. E se l’incertezza è sovrana, il senso del messaggio al presidente che sanò la ferita dell’11 settembre invadendo l’Afghanistan diventa: “Insomma, prima di fare, meglio studiare e studiare meglio”. Un esplicito buffetto alla congregazione dell’Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change.
Nei primi vent’anni del millennio, gli studiosi hanno studiato e, ansiosi d’innescare il dominio del “fare”, hanno spalancato la porta alla soluzione finanziaria. Con la benedizione obamiana e il Nobel per la Pace 2007, condiviso in parti uguali tra Al Gore e l’Ipcc, nacque l’idea che solo l’economia poteva costringere il clima a più miti consigli. Una trovata indiscussa e indiscutibile, poiché l’economia è la religione del nuovo millennio. Le parole del più ardito economista del Novecento, John Maynard Keynes, avrebbero dovuto far riflettere: “Il lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti, nel lungo termine saremo tutti morti”. Nessuno però meditò sulle virtù della finanza, intenta soprattutto a massimizzare l’utile a breve. E sulle previsioni economiche, da sempre ben più aleatorie e fallaci degli scenari climatici.
Dopo le scorie nucleari, nulla è più persistente del riscaldamento globale per incremento dell’effetto serra. Gli oceani hanno accumulato finora nove decimi del calore extra generato dai gas di serra emessi dall’uomo, ma stanno lentamente rispondendo. E la risposta è affatto spiacevole, come iniziamo a sperimentare. La memoria del clima è lunga, mentre sono gli affari correnti a dettare l’agenda locale e mondiale, focalizzata sul breve periodo. E l’impero reticolare che bada solo agli affari correnti del pianeta celebra il rito della Cop, la periodica conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, così come la Chiesa nell’antichità radunava i suoi vescovi nel sinodo ecumenico.
La Cop27 egiziana somiglia al secondo Concilio di Nicea (anno 787) che vietò ai vescovi di raccogliere oro o denaro. Secondo coloro che hanno messo il futuro del clima nelle mani della finanza, “il sistema finanziario deve superare i vincoli interni ed esterni per diventare un fattore critico di trasformazione in tutti i settori, rendendo i mercati finanziari più efficienti”. Una grida che suona come il divieto di Nicea in quanto a efficacia, efficienza, durevolezza.Nel 1992, gli studiosi servirono sul piatto dei politici tre opzioni: mitigare, adattarsi, nulla fare. La terza è stata l’opzione regina, dapprima perseguita con l’indifferenza, poi consapevolmente, quindi creativamente. E, in questo ventennio post-pandemico molto si dice ma nulla si fa; anzi, si fa solo ammuina. Un attivismo finalizzato a mantenere vivo il modello di consumi che ha prodotto sì benessere e ricchezza, distribuita e soprattutto concentrata, ma primo responsabile degli abusi dell’effetto serra. Tacendo, per esempio, che le guerre vaporizzano qualunque timido tentativo di mitigazione, come dimostrava una ricerca pubblicata nel 2019: Costi nascosti del carbonio della “guerra ovunque”: logistica, ecologia geopolitica e impronta di carbonio dell’esercito americano (Belcher & Alii, Hidden carbon costs of the “everywhere war”: Logistics, geopolitical ecology, and the carbon boot-print of the US military, Transactions of the Institute of British Geographers, giugno 2019).
“Pessimismo e fastidio”, biascicava Rufus Nocera dei Cavalli Marci, un iconico gruppo comico di fine millennio. Una battuta perfetta, sintesi dell’umore che producono le notizie sulla Cop27: depressione caotica. Possiamo prevedere dove ci porterà il carbon boot-print con la stessa certezza con cui sappiamo prevedere l’effetto di un battito d’ali di farfalla, l’archetipo del caos secondo Edward Lorenz. Non possiamo ragionevolmente escludere che produrrà un tornado. Dove, non si sa.
Siamo otto miliardi: se nessuno farà il primo passo per fermarsi, ci penserà la natura
Ferdinando Boero 15 NOVEMBRE 2022
E quindi siamo otto miliardi. Molti commentatori mi dicono: ma che ne sa uno zoologo di… e poi mettono qualunque argomento di cui mi occupi in questo blog.
Gli zoologi studiano gli animali e ogni nostra attività è il prodotto di decisioni prese dagli esemplari di una specie animale: Homo sapiens! Abbiamo davvero deciso di diventare otto miliardi? Ovviamente no. Ne L’origine delle Specie, Charles Darwin, uno zoologo…, enuncia una legge universale: tutte le specie tendono ad aumentare di numero. Inclusa la nostra, aggiungo io. È la legge della crescita, ben nota agli economisti. Darwin, però, ne identifica un’altra: anche se tutte le specie tendono ad aumentare di numero, non tutte possono farlo. Il motivo è semplice: il pianeta non può offrire risorse sufficienti a un numero illimitato di individui di qualsiasi specie. Alla legge della crescita si affianca quella del limite. Pesi e contrappesi. Noi, come tutti i viventi, aumentiamo di numero con i processi riproduttivi. Questa tendenza è interna alle specie e noi non facciamo eccezione. La legge del limite, invece, è sconosciuta alle specie: il limite è imposto dall’esterno (dall’ambiente che le sostiene).Nessuna specie sopravvive senza avere rapporti con altre specie e con l’ambiente circostante. Dall’ambiente noi ricaviamo risorse (beni) come il cibo, i materiali con cui realizziamo i nostri manufatti, i combustibili… tutto. E non basta. L’ambiente ci offre anche servizi essenziali, tipo la qualità dell’aria che respiriamo, oppure dell’acqua che beviamo e che irriga i campi. Pensate al nostro stile di vita: ci sono cose che potremmo realizzare senza dipendere dal resto della natura? Magari nel breve termine potremmo anche, ma nel lungo termine no.
Quanto più il numero di individui di una specie aumenta, tanto più questa specie utilizza i beni e i servizi della natura. E qui interviene il concetto di “rinnovabile”. Se consumiamo più di quello che la natura produce, le risorse finiscono. E se roviniamo la qualità dei servizi (ad esempio inquinando l’aria e l’acqua) la nostra vita diventa miserabile.
Abbiamo imparato a spremere la natura con l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, e ora il passaggio da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori avviene anche in mare, con l’acquacoltura. Stiamo antropizzando il pianeta, contribuendo a renderlo inospitale per la nostra specie. Le tecnologie ci possono aiutare, possiamo curare le malattie, vivere più a lungo, produrre cibo in modo efficiente, ma sappiamo bene che la crescita infinita del nostro numero e della nostra economia non è possibile, visto che il pianeta è “finito”, anche se la porzione che si rinnova (le rinnovabili) può sostenerci indefinitamente, a patto che non la sfruttiamo troppo, oltre le sue capacità di rinnovamento.
Nessuna specie, quindi, decide di smettere di crescere. È il resto della natura a fermarla. Di solito le risorse finiscono (fame) e inizia la competizione tra chi cerca di appropriarsene (guerre), per non parlare di malattie mortali che diminuiscono la pressione della specie sulla natura, riducendo il numero di individui.
DAL BLOG DI FERDINANDO BOERO
L’economia globalizzata ha come risultato il cambiamento globale. Fa parte del gioco della natura
Ma noi siamo intelligenti, in teoria. Potremmo decidere di limitare le nascite, e sappiamo anche come farlo. Ho scritto un post recentissimo sull’argomento e a quello rimando, consigliando anche di leggere i commenti.
La politica è il prodotto di azioni miranti a proteggere le risorse per una determinata porzione della popolazione. I confini degli stati sono “marcature” del territorio che dicono: qui è mio, tu non ci devi venire. Non per niente ho scritto un libro intitolato Ecco perché i cani fanno la pipì sulle ruote delle macchine. Ogni cane cerca di delimitare il suo “stato” marcandone i confini, per tenere lontani gli intrusi. Vi viene in mente l’attuale crisi dei migranti e le dispute tra Italia e Francia? Avete indovinato. E i migranti vengono qui perché fuggono da situazioni invivibili. I nostri giovani fuggono per motivi analoghi, anche se le aspettative sono molto maggiori. Presto non ci saranno più posti dove “fuggire”.
Sono stati elaborati modelli matematici che predicono l’anno in cui ci fermeremo, e il numero massimo che raggiungeremo. Ma poniamo che il numero massimo sia otto miliardi, invece che dieci: come fermarci? Potremmo ucciderci tra noi, morire di fame o di malattie, come fanno tutti gli animali. Oppure potremmo ridurre la fertilità, contravvenendo alla legge della crescita e imponendo dall’interno la legge del limite che, per natura, agisce dall’esterno. Saremo tanto intelligenti da andare contro la natura che ci impone la crescita, per restare in armonia con la natura che ci impone il limite? Le altre specie non lo capiscono. E noi? Le parole che dovrebbero definire questa “decisione” della specie sono equilibrio, stabilità, armonia.
Pare che lo abbiano capito tutti, ma nessuno vuole fare il primo passo e se un paese dovesse farlo (noi lo stiamo facendo, visto che abbiamo smesso di crescere) ecco che arrivano i fautori della legge della crescita: gli altri crescono, e noi chi siamo? I più scemi? Cresciamo anche noi. D’altronde tutte le specie si comportano così e, da zoologo, non posso che constatare che non siamo diversi da loro. Ci fermerà la natura.
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