79 ANNI DOPO LA CATASTROFE, A 90 SECONDI DALLA “MEZZANOTTE” da IL MANIFESTO
79 anni dopo la catastrofe, a 90 secondi da mezzanotte
L’atomo fuggente. Le commemorazioni a Hiroshima e Nagasaki, dove sono morte fra 150 e 220mila persone. Gli hibakusha (sopravvissuti) sono sempre meno. E la loro eredità del passato rischia di scomparire
Serena Console 09/08/2024
Un tonfo e poi l’esplosione del devastante fungo atomico. Settantanove anni fa cadeva l’annus horribilis dell’uso della bomba atomica per scopi bellici, il primo nella storia dell’umanità. Per gli Stati uniti, il lancio degli ordigni su Hiroshima e Nagasaki segna la vittoria nel secondo conflitto mondiale. Per il Giappone, la bomba Little Boy sganciata il 6 agosto 1945 su Hiroshima non solo distrugge la città giapponese, ma causa 74mila vittime, in gran parte civili. Gli Usa sganciano Fat Man, la seconda bomba atomica che devasta Nagasaki il 9 agosto. Si stima che i due ordigni abbiano ucciso da 150 a 220 mila persone.
IL 15 AGOSTO 1945 l’imperatore Hirohito annuncia la resa incondizionata del Giappone che segna l’epilogo del conflitto, dando vita a un nuovo assetto di rapporti diplomatici e una diversa concezione della guerra, quest’ultima espressa in una nuova Costituzione giapponese.
A distanza di 79 anni, Hiroshima e Nagasaki rappresentano ancora oggi un simbolo traumatico per i giapponesi, che ora guardano con preoccupazione i devastanti sviluppi dei due conflitti aperti in Ucraina e in Medio oriente, le minacce nucleari della Corea del Nord e l’assertività della Cina nell’Indo-pacifico.
OGGI, HIROSHIMA è una fiorente metropoli di 1,2 milioni di persone, ma le rovine di un edificio a cupola si ergono nel centro della città per ricordare gli orrori dell’attacco. La memoria non è affidata solo agli scheletri urbani. A distanza di quasi otto decenni, gli hibakusha, ovvero i sopravvissuti, rappresentano tutt’oggi la memoria collettiva di quella terribile parentesi dell’umanità intera. Con un’età media di 85 anni, gli hibakusha stanno diventando sempre meno. E la loro eredità del passato rischia di scomparire. La loro vita sembra essersi fermata a quel 6 e 9 agosto, ma il loro costante impegno giornaliero profuso nel raccontare il trauma, lo stigma sociale e persino il senso di colpa per essere sopravvissuti al bombardamento si traduce in un appello affinché le armi nucleari non vengano mai più utilizzate. Proprio mentre il mondo sta entrando in una nuova era nucleare.
Alla corsa agli armamenti partecipano sempre più paesi, tanto da portare nel 2023 la spesa militare globale a 2.240 miliardi, +6,8% dal 2022, secondo le stime diffuse dal Sipri di Stoccolma (aprile 2024). I più spendaccioni sono Stati uniti, Cina, Russia, India e Arabia Saudita, che stanno destinando centinaia di miliardi di dollari alla modernizzazione del loro arsenale.
LE CIFRE dell’istituto di Stoccolma sono preoccupanti: la spesa militare statunitense è aumentata dello 2,3%, raggiungendo i 916 miliardi di dollari nel 2023, pari al 37% della spesa militare globale e al 68% di quella totale della Nato. La Cina ha aumentato sensibilmente e per il 29esimo anno consecutivo la propria spesa militare con un +6,0%, pari a 296 miliardi di dollari, più del doppio rispetto al budget individuato dal Partito comunista cinese prima che Xi Jinping diventasse Segretario. La Russia ha aumentato la spesa del 24% rispetto al 2022 raggiungendo i 109 miliardi di dollari: con una spesa pari al 5,9% del Pil, equivalente al 16% del budget totale del governo russo, il 2023 ha segnato i livelli più alti registrati dalla dissoluzione dell’Unione sovietica.
C’è poi la corsa globale al riarmo nucleare, spinta della guerra in Ucraina. Nel 2023 il budget complessivo ha quasi raggiunto i 100 miliardi di dollari, pari a un aumento del 13% rispetto all’anno precedente. Gli Stati uniti e la Russia possiedono il 90% delle testate nucleari esistenti (circa 12.251, di cui circa 9.585 a disposizione nelle scorte militari per un potenziale utilizzo). A incrementare notevolmente il proprio arsenale nucleare è la Cina, passando, secondo le stime del Sipri, dalle 410 testate dell’inizio 2023 alle 500 di gennaio 2024.
NUMERI che hanno fatto partire la stoccata del sindaco di Hiroshima, Kazumi Matsui, che durante la cerimonia di commemorazione ha espresso la sua preoccupazione per il conflitto prolungato in Ucraina e le operazioni condotte da Israele nella Striscia di Gaza. Non a caso, mentre il primo cittadino avanzava una velata critica alla «tendenza ad affidarsi alle forze armate per risolvere i problemi internazionali» che mietono «la vita di innumerevoli persone innocenti», la telecamera della televisione pubblica giapponese ha inquadrato l’impassibile volto dell’ambasciatore israeliano: la sua presenza ha provocato la disapprovazione di ampie frange di attivisti che hanno accusato la scelta della municipalità di usare doppi standard, dal momento che la Russia e la Bielorussia sono state escluse dalla cerimonia negli ultimi tre anni a causa del conflitto in Ucraina.
LE PAROLE di Matsui non hanno risparmiato nemmeno il premier giapponese Fumio Kishida, che si è intestato la responsabilità di aumentare il bilancio nazionale per la Difesa al 2% del Pil (dall’attuale 1%) entro il 2027. Il primo cittadino di Hiroshima ha esortato il governo nipponico a partecipare, in qualità di osservatore, alla riunione degli stati firmatari del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari che si terrà a marzo, e aderire in tempi brevi. Questo perché il Giappone, pur essendo l’unico paese vittima di un attacco atomico, non ha ancora aderito al Trattato entrato in vigore nel 1970, sebbene continui a sostenere l’accordo sulla non proliferazione.
MA QUELLI del primo cittadino di Hiroshima (e poi di quello di Nagasaki, dove la commemorazione si tiene oggi) restano solo appelli a una maggiore consapevolezza sulle conseguenze del riarmo nucleare e militare. Il timore è che la deterrenza nucleare non farà altro che generare un conflitto atomico. Potrebbe essere solo questione di tempo. A indicarlo è il Doomsday Clock, l’orologio simbolico – nato nel 1947 per sensibilizzare l’umanità sui pericoli derivanti dalle nostre stesse invenzioni, come le armi nucleari e il cambiamento climatico – che indica, in minuti o secondi, quanto manca alla mezzanotte, cioè quanto resta da vivere al mondo intero. Da più di un anno è fermo alla stessa data e agli stessi secondi del gennaio 2023: il tempo che ci rimane, secondo il Bulletin’s Science and Security Board, è di 90 secondi all’arrivo dell’apocalisse.
Revisionismo atomico e illusione della deterrenza
L’ATOMO FUGGENTE. Sicurezza e proliferazione sono inconciliabili. Lo vediamo in particolare sul tema del nuclear sharing: trasferimento di testate sul territorio di stati alleati, come in Italia quelle Usa
Francesco Vignarca 09/08/2024
Quando in questi giorni pensiamo commossi alla devastazione di Hiroshima e Nagasaki a causa dei bombardamenti atomici il punto di partenza deve essere sicuramente il ricordo delle vittime. Ma senza retorica vuota: per dare senso a quel sacrifici servono azioni collettive e politiche che mettano concretamente al bando le armi più devastanti della storia.
Di questo pericolo, che i movimenti per il disarmo non hanno mai smesso di sottolineare a differenza di politici e analisti allineati alla violenza del potere, siamo ora tutti maggiormente consapevoli, ma ancora una volta sono solo i fautori del “disarmo umanitario” che intendono affrontarlo sul serio partendo da elementi di verità. Al contrario della finzione retorica utilizzata da chi costruisce architetture di guerra artificiali e strumentali.
La realtà sottaciuta è che le armi nucleari sono l’architrave del militarismo e il simbolo di un mondo fondato su prevaricazione e “legge del più forte”, non certo su diritto e regole di uguaglianza. Ad inizio 2022 molti esperti sono arrivati a stimare al 50% la probabilità di utilizzo di testate nucleari in Ucraina da parte della Russia. Di recente abbiamo visto le più o meno velate minacce israeliane nel contesto della distruzione di Gaza. Oggi forse il rischio si è abbassato, ma siamo comunque ad una situazione di tensione mai vista dall’apice della Guerra Fredda.
La riduzione del rischio di guerra nucleare dovrebbe essere un obiettivo globale fondamentale: l’unico modo per essere veramente al sicuro dalle armi nucleari è eliminarle del tutto, come richiesto dal Trattato sulla proibizione delle armi nucleari ottenuto proprio grazie al lavoro della società civile e degli Stati che ne hanno compreso l’enorme impatto umanitario. Il mondo in cui viviamo privilegia però scelte politiche reali lontane dalle dichiarazioni retoriche di disarmo: gli arsenali aumentano in numero e vengono modernizzati, e la spesa militare ad essi collegata aumenta. Non si può dunque credere a un percorso di “disarmo un buona fede” (lo chiederebbe il Trattato di Non Proliferazione TNP) ripetuto in maniera vuota da tutti i Paesi (Italia compresa) che continuano a non voler sentire parlare di una proibizione completa delle armi nucleari. Siamo dunque ben lontani dalla Dichiarazione di inizio 2022 diffusa dai cinque Paesi ufficialmente con tali ordigni: “Una guerra nucleare non dovrei mai essere combattuta perché non potrebbe mai essere vinta”.
Quel proposito è stato dimenticato nei fatti, se nella dichiarazione dell’ultimo Summit NATO di Washington di metà luglio si ribadisce che: “La deterrenza nucleare è la pietra angolare della sicurezza dell’Alleanza”. Tanto è vero che i suoi membri hanno confermato il loro impegno “ad adottare tutte le misure necessarie per garantire la credibilità, l’efficacia, la sicurezza della missione di deterrenza nucleare dell’Alleanza, anche modernizzando le sue capacità nucleari, rafforzando la sua capacità di pianificazione nucleare”. Come tutto questo si possa conciliare con gli obblighi di disarmo del TNP o con la richiesta ad altre potenze di riduzione delle minacce resta un mistero. Ancora una volta sono i fatti, non le parole, su cui occorre misurare le situazioni e le prospettive: quasi con una coazione a ripetere si cerca di difendere sicurezza e “democrazia” con un approccio di pura forza coercitiva non lontano da quello messo in campo dal crimine organizzato (d’altronde fu il generale Smedley Butler a sottolineare che la guerra e la sua preparazione sono “come la mafia”).
Lo vediamo in particolare sul tema del “nuclear sharing” (cioè il trasferimento di testate nucleari sul territorio di Stati alleati, come avviene in Italia con quelle statunitensi): quello fatto dagli altri è pericolosissimo e minaccioso, quello fatto in prima persona è difensivo e responsabile…
E lo abbiamo visto anche nella recente PrepCom del Trattato di Non Proliferazione: i membri NATO hanno continuato a ripetere incessantemente che la condivisione del nucleare è sempre stata accettata e che solo di recente qualcuno si è opposto ad essa. Un falso storico evidente, tanto è vero in passato che addirittura non tutti i membri NATO hanno accettato non solo la condivisione nucleare, ma anche qualsiasi tipo di dottrina nucleare. Le tensioni globali degli ultimi anni hanno obliterato tutto questo dibattito, portandoci in una situazione surreale per cui il continuo ripetere fino alla nausea che “la NATO è un’alleanza nucleare e che le armi nucleari sono importanti per la sicurezza” sembra aver spazzato via qualsiasi idea di decisione indipendente, per arrivare ad un mantra collettivo capace solo di recitare roboticamente frasi fatte. Una situazione che si può assimilare alla definizione di gaslighting: si continuano a presentare false informazioni con l’intento di negare responsabilità e disorientare le vittime di quelle scelte, cioè tutti noi che rischiamo la catastrofe nucleare. Approccio non limitato al solo Occidente: nella storia revisionista dell’invasione e dell’occupazione dell’Ucraina dispiegata dalla Russia in vari interventi anche nella recente PrepCom si sostiene essenzialmente che la stessa Ucraina ad essere responsabile di tutti i crimini di guerra che i russi stanno commettendo contro la popolazione civile. Il punto, ancora una volta, è che i governi fortemente militarizzati ricorrono con frequenza ad una falsificazione della realtà che incolpa le vittime, uno strumento di controllo essenzialmente patriarcale per giustificare un dominio violento su altri Stati.
Tornando sul campo occidentale (che ci interessa da vicino in quanto riguarda la democrazia anche nella nostra Italia) è importante ricordare che le armi nucleari non sono menzionate nel Trattato del Nord Atlantico e che la definizione della NATO come “alleanza nucleare” è un fenomeno relativamente recente, risalente solo al 2010. Ma è ormai profondamente radicata nel pensiero strategico dell’Alleanza tanto da trasformarsi (con il meccanismo che abbiamo appena visto) nella frase ripetuta come un vuoto luogo comune: “finché esisteranno le armi nucleari, la NATO rimarrà un’alleanza nucleare”. Senza che nessun esponente politico ragioni su cosa significhi una presa di posizione del genere, che di fatto chiude la porta a qualsiasi riflessione creativa sui modi per raggiungere quello che sarebbe invece il vero obiettivo dichiarato dell’Alleanza: creare “un ambiente di sicurezza per un mondo senza armi nucleari”. Un obiettivo essenziale, non solo per la NATO, ma per l’intera Umanità! Dunque sarebbe importante ascoltare la voce di decine di ex-leader di Paesi dell’Alleanza che alcune settimane fa, in vista del Vertice di Washington, hanno sottolineato: “Se la NATO vuole rafforzare la propria sicurezza in un mondo sempre più incerto e oscurato dalla minaccia di un conflitto nucleare, deve smettere di aggrapparsi alla dottrina nucleare e cambiare approccio. Un primo passo sarebbe quello di porre fine al dispiegamento di armi nucleari americane in altri Paesi della NATO. Questo non indebolirebbe di una virgola l’alleanza, ma invierebbe il segnale che l’alleanza è seriamente intenzionata a ridurre i rischi nucleari e a smorzare le tensioni nucleari con la Russia”.
Al cuore di tutta questa pericolosa nuova stagione di riarmo nucleare c’è la falsa percezione di sicurezza data dalla teoria (o meglio dal feticcio) della “deterrenza”: banalizzazione mistificatoria così estrema da non far cogliere che non garantisce per nulla sicurezza, ma al contrario porta maggiore rischio. Come ho provato a spiegare ed articolare nel mio saggio “Disarmo nucleare”, la deterrenza è una teoria non dimostrata, che secondo i suoi sostenitori ha impedito il conflitto nucleare ma che, in realtà, ci ha portato molto vicini ad esso in più di un’occasione. Più un rischio che una salvezza, insomma.
Anche perché questa teoria pericolosa e non confermata (il suo primo “fallimento” porterebbe ad una guerra nucleare…) viene consegnata con un atto di pura fede a politici dei quali è davvero difficile potersi fidare. Chi non ha provato un brivido pensando a Trump che entra di nuovo in possesso della valigetta con i codici di lancio? Perché a differenza di molte altre decisioni di governo, nella dottrina nucleare degli Stati Uniti non esiste un meccanismo di sicurezza per frenare le azioni potenzialmente impulsive di un presidente in questo campo.
Il processo di gestione di tale arsenale è progettato su criteri di velocità, al fine di garantire che il Presidente pro-tempore abbia la capacità di rispondere rapidamente in pochi minuti a un attacco strategico in arrivo sugli Stati Uniti o su uno dei suoi alleati. Non c’è alcun obbligo di consultare il Segretario della Difesa, i Capi di Stato Maggiore o i consiglieri per la Sicurezza nazionale, nessuno dei quali avrebbe comunque un potere di veto formale sulle decisioni del Presidente. Questo lascia il destino di milioni di persone appeso ai capricci di un singolo individuo, ed è lecito pensare che avvenga più o meno così (anzi, con meno controlli) in ciascuno degli altri 8 Stati dotati di armi nucleari.
Non possiamo più permetterlo, per il bene e la sopravvivenza dell’Umanità.
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Coordinatore Campagne della Rete Pace Disarmo, autore del saggio “Disarmo nucleare” edito da Altreconomia
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