La complessità delle scienze e l’universalità possibile della politica
di Piero Bevilacqua*
Intanto una premessa chiarificatrice sui termini utilizzati nel titolo di questa comunicazione. Perché uso la parola sapere, distinta da scienza? Non sto ricorrendo a un sinonimo per eliminare una cacofonia da ripetizione. Nel mio vocabolario la scienza è un fenomeno storicamente determinato dell’età contemporanea: con la sua ricerca istituzionalizzata, divisa in discipline, con le sue procedure universalmente riconosciute, i suoi protocolli, le sue finalità eminentemente tecniche, la sua dipendenza dai poteri dominanti[1], la sua incorporazione nella macchina della produzione capitalistica. A quest’ultimo proposito sappiamo, almeno dai tempi di Marx, che «l’invenzione diventa un’attività economica e l’applicazione della scienza nella produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa»[2].
I saperi, ovviamente, possono essere anche scienza, quanto a universalità di criteri di procedura e di validazione, ma essi sono contaminati da conoscenze e finalità extra-scientifiche. Oggi i saperi che si occupano della biodiversità, ad esempio, e che utilizzano il patrimonio conoscitivo di discipline tradizionali come la biologia o la zoologia, rappresentano, forme di conoscenze che osservano non solo i singoli fenomeni, ma le loro reciproche relazioni e lo spazio specifico in cui essi si svolgono. E non danno vita necessariamente a tecnologie, a farmaci o a qualunque altro prodotto mercificabile. Essi sono incomprensibili, al di fuori di un impulso di carattere non scientifico, proveniente dalla reazione morale e politica all’avanzare delle monoculture agricole e alla riduzione delle specie viventi sulla Terra. Il testo di Vandana Shiva, Monoculture della mente ne costituisce una testimonianza significativa[3].
Resta da aggiungere che i saperi sono spesso esterni alle istituzioni dominanti, hanno talora a che fare con le sapienze locali tramandate oralmente. È questo il caso dei contadini. Essi hanno elaborato e tramandato un sapere che per diecimila anni ha permesso all’umanità di nutrirsi e di sopravvivere. Una massa di conoscenze empiriche e di concezioni olistiche, su cui è sorta la scienza agronomica nell’800. Per il tratto più lungo della sua storia l’umanità si è retta sui saperi, e questi sopravvivono e hanno la loro larga e spesso invisibile influenza, anche nella nostra epoca e nelle società dominate dalla scienza. Si pensi a quanto sapere orienta la nostra vita quotidiana, il lavoro domestico femminile, ecc.
Dunque, scienza e saperi. Simili, ma diversi. Una diversità che vogliamo marcare per ragioni non scientifiche, ma morali e politiche. Sempre, è con nuove parole che ci si separa da un passato che si vuol superare.
Ora, il Novecento ormai concluso squaderna alo nostro sguardo storico uno spettacolo di grande interesse. Esso mostra, ad esempio, come alcuni principi e caratteri fondativi della scienza moderna pervengano alla loro estrema conclusione. Ma ci mostra, anche, al tempo stesso, come dall’interno del corpo della scienza dominante si facciano strada saperi che addirittura colpiscono alla radice il suo principio ed il suo fine originario.
Questo è senza dubbio il caso della fisica. La Big science della prima parte del secolo. Questa disciplina che, com’è noto, con Galilei, fonda la scienza moderna, conosce nel Novecento l’esito più estremo del riduzionismo che ne segna l’atto di nascita. Ricordo per brevità quanto dice Edgar Morin a questo proposito, ne La natura della natura: «La fisica occidentale non ha solamente disincantato l’universo, essa l’ha desolato», cioè le ha sottratto la vita riducendola a rapporti matematici fra corpi. [4]
Ebbene, esattamente questa scienza, che nel secolo scorso ha puntato a indagare le strutture prime della materia, a smontare la complessità del vivente e a ridurlo nei suoi elementi ultimi e costitutivi, è sfociata in un risultato tecnico di gigantesca distruttività. I fisici della prima metà del ‘900 hanno creato la bomba atomica. Hanno cioé finalizzato il sapere della scienza per un compito totalitario di morte. La bomba atomica, come ricordava Ivan Illich, non è un’arma qualsiasi da usare contro un nemico in guerra: è un progetto di genocidio. [5]
Al tempo stesso, la fisica, seguendo questo sentiero riduzionistico della conoscenza e di ulteriore dominio sulla natura, si consegnava a poteri esterni, poteri illiberali e di guerra. Come ha ricordato Karl Jaspers, nel suo saggio La bomba atomica e il destino dell’uomo, riferendosi a quanto accadde negli USA negli anni ’40, «quella che era una organizzazione, in un primo tempo libera, di scienziati impegnati col massimo spirito di sacrificio, per la libertà degli uomini, subito sempre più divenne una impresa militarmente controllata»[6]. Crediamo di poter concludere che mai nella storia dell’umanità si era verificato un così totale rovesciamento dei fini della conoscenza.
Eppure è stata questa stessa scienza, la fisica, nel corso del ‘900, a sfociare nella negazione delle sue cadute riduzionistiche, a scavare un altro sentiero accanto a quello strumentale e distruttivo, a porsi di fronte il grande mare della complessità. «La fisica, animata dall’ossessione mitologica dell’unità prima – ha scritto ancora Morin ne La vita della vita – scoprì in principio la molecole, poi l’atomo, poi ancora la particella. Nella sua ricerca dell’elementare, essa trovò di volta in volta il combinato, il complicato, il complesso e, nella particella, la maggior complessità logica che si possa immaginare»[7].
Com’è noto, è stato, fra tanti, un fisico eterodosso, Fritjof Capra a riflettere genialmente su questa tarda evoluzione della fisica contemporanea. Uno sviluppo che ha portato una scienza eminentemente riduzionistica a scoprirsi profondamente affine al pensiero mistico orientale: vale a dire a riconoscere «l’unità e l’interdipendenza di tutti i fenomeni e la natura intrinsecamente dinamica dell’universo»[8]. «La meccanica quantistica rivela – ha scritto Capra nel Tao della fisica – un’essenziale interconnessione dell’universo e ci fa capire che non possiamo scomporre il mondo in unità elementari con esistenza indipendente. Quando studiamo la materia in profondità, scopriamo che essa è composta da particelle, ma queste non sono i “mattoni fondamentali” nel senso di Democrito e di Newton. Sono soltanto idealizzazioni, utili da un punto di vista pratico, ma prive di significato fondamentale»[9].
L’ecologia come sapere olistico
Ma nel Novecento, soprattutto nella seconda metà del secolo, fiorisce e potremmo dire esplode una conquista sostanzialmente dimenticata del pieno Ottocento: l’ecologia. La «scienza delle relazioni – come scriveva il suo pioneristico fondatore, Ernst Haeckel, nel 1866 – fra le cose viventi e il loro ambiente»[10]. È questo elementare principio fondativo che ha rivoluzionato e sta rivoluzionando i saperi della nostra epoca.
Esso contraddice infatti alla radice il principio su cui si è retta l’intera scienza moderna: vale a dire la separazione e l’isolamento dell’oggetto dal suo ambiente, per essere studiato nella sua intima e solitaria struttura. L’ecologia ha invece mostrato che tale separazione e isolamento portano a conoscenze parziali, riduttive, esemplificatrici. Esse finiscono con l’occultare i condizionamenti, gli influssi, le determinazioni che il tutto interrelato ha sulle singole parti.
Certo, come mostra tanto la storia del sapere scientifico che la storia della società industriale, il riduzionismo della scienza, e la sua finalizzazione in tecnica, sono stati coronati da un enorme successo. Essi hanno costituito la stoffa stessa della nostra epoca, interamente fondata su un progetto di dominio assoluto sulla natura. Ma è stato esattamente tale dominio e le alterazioni prodotte, le minacce che esso ha fatto intravedere all’orizzonte, che hanno fatto emergere dal campo stesso della scienza dominante percorsi nuovi della ricerca e del pensiero.
L’osservatore della realtà esterna ha dovuto accorgersi che egli era fatto della stessa materia della realtà osservata, il dominatore ha dovuto constatare che il dominio gravava anche su di lui, frammento della natura assoggettata. Il secondo Novecento ha potuto infatti assistere a un sotterraneo mutamento di paradigma scientifico, indotto dalla constatazione, per dirla ancora con parole di Morin, che «L’asservimento della natura da parte dell’uomo ha trasformato la natura dell’asservimento»[11]. Perché «il controllo dell’ecosistema sulle società umane aumenta nella misura in cui aumenta il controllo cui esso è soggetto (…). Più l’uomo possiede la natura, e più la natura lo possiede»[12].
Gli uomini non potevano, dunque , e non possono sottrarsi né col pensiero né con l’agire pratico alle infinite e spesso ancora ignote relazioni che li legano al loro ambiente, che li imprigionano nella maglia invisibile, complessa e sfuggente della biosfera. Essi appaiono sempre più legati e condizionati al mondo infinitamente piccolo dei virus e dei batteri, protagonisti, come ormai sappiamo, nella lunga vicenda della storia umana[13]. E come abbiamo imparato a sperimentare negli ultimi anni con le pandemie che dal mondo animale si diffondono nelle società umane globalizzate. Ma questa, per la verità, era una conoscenza che la scienza medica aveva cominciato a far propria almeno a partire da Pasteur.
Ma non è solo questo. Non è certa questa la novità che fa epoca. Con drammatica sorpresa, solo negli ultimi decenni gli uomini si sono accorti di essere inscindibilmente legati all’ infinitamente grande. La scoperta che le attività umane, i nostri fumi e scarichi, i nostri allevamenti alterano addirittura l’atmosfera, il cielo lontano che sta sopra di noi, provocando il riscaldamento del clima, illumina sinistramente l’esito potenzialmente catastrofico del nostro dominio. Uno dei maggiori studiosi del global warming, del riscaldamento globale, Nicholas Stern, ha definito il fenomeno «il più grave ed esteso caso di fallimento del mercato che si sia mai verificato»[14]. Ben detto. Ma non è soltanto questo. Esso costituisce la rivelazione drammatica dei limiti conoscitivi su cui la scienza moderna ha edificato la gigantesca macchina di dominio tecnico sul mondo vivente. È una sorta di bilancio, un conto che la natura immaginata come lontana e infinita presenta ai manipolatori ignari e maldestri che l’hanno violata.
Nel Novecento, un altro ramo della scienza – che negli ultimi decenni sembra aver sostituito la fisica nel ruolo di Big science – la biologia, si è inoltrata nel sentiero della scomposizione del vivente nei suoi costituenti primi e fondamentali. Non senza grandi successi, sia conoscitivi che tecnici. È sufficiente pensare alle scoperte della genetica, a partire dalla decodificazione della doppia elica del DNA da parte di Krick e Watson, nel 1953, o agli indubbi progressi realizzati in campo medico e biotecnologico. Negli ultimi decenni non pochi scienziati hanno addirittura creduto – seguendo le sirene di un meccanicismo che sopravvive ad almeno 4 secoli di storia della scienza – che tramite i geni si potessero definitivamente stabilire i caratteri degli organismi, predire l’evoluzione degli individui. Ma si sono dovuti rassegnare al fatto che gran parte dei geni non sono invarianti, non replicano i caratteri dell’informazione ereditata, ma sono fenotipi, sono cioé soggetti all’alterazione e modificazione dell’ambiente, variano nel tempo e dunque sono intimamente connessi algli andamenti imprevedibili della storia individuale[15].
Anche in questo caso, dunque, il riduzionismo ha dovuto cedere alla complessità, l’uno al molteplice, l’ “astratto” al contesto, l’isolato alle connessioni. L’infinitamente piccolo si è nuovamente mostrato indissolubilmente legato all’infinitamente grande, lo condiziona e ne è condizionato.
Ha ricordato Marcello Buiatti nel suo saggio sulla Biodiversità: «Quando parliamo di biodiversità (…) parliamo della diversità fra molecole all’interno di una cellula, fra cellule in un organismo, fra organismi che fanno parte di una popolazione (insieme di organismi di una stessa specie), specie diverse appartenenti ad un ecosistema, ecosistemi che compongono la biosfera. La vita cioé è un insieme di componenti tutti più o meno collegati fra di loro e quindi non indipendenti ma che inevitabilmente si influenzano l’un l’altro»[16].
Una minacciosa involuzione
Lo scenario del Novecento mostra tuttavia percorsi di rovesciamento della direzione della ricerca anche in altri campi. In ambiti poco sospettabili di caduta nell’ illusione riduzionistica che da sempre accompagna e spesso porta fuori strada le ambizioni e i sentieri della ricerca. È il caso di una scienza sociale nata in Europa nel XVIII secolo e che ha celebrato i suoi trionfi e le sue perniciose illusioni nel XX secolo[17]. Mi riferisco all’economia, nata da una costola della filosofia morale e diventata, alla fine del suo percorso, una tecnologia della crescita. Un sapere della complessità, delle relazioni tra i fenomeni produttivi e le classi sociali, tra la divisione del lavoro e i mercati, tra il centro e la periferia, tra la ricchezza e la pubblica felicità, si è ridotta a una sofisticata macchina volta ad un unico fine: l’incremento del Prodotto interno Lord, il sacro Graal della nostra epoca. O per meglio dire, la crescita dei beni e servizi disponibili senza alcun riguardo per quel che accade alle connessioni che legano la società, alle relazioni fra gli individui, al benessere delle persone, alla loro vita intima e alla spiritualità collettiva. E naturalmente senza riguardo – ma questo era un peccato originale anche dell’economia politica sin dai suoi esordi settecenteschi[18] – per la distruzione di risorse non rinnovabili che produce, per gli effetti negativi che ha sull’intero mondo vivente, per le alterazioni e i danni che genera dentro la placenta che tutti ci contiene, cioé l’atmosfera.
L’involuzione grave che ha subito questa disciplina scientifica nella seconda metà del Novecento, mostra in maniera paradigmatica – non diversamente da quanto è accaduto alla fisica con la creazione della bomba atomica – come essa possa trasformarsi in uno strumento di distruzione della biosfera. Messa al servizio di una macchina che divora immani risorse e mette a sacco gli habitat dell’intero pianeta, essa si è trasformata in un dispositivo meccanico di autoperpetuazione del proprio agente. Ma la sua metamorfosi ha contagiato altri ambiti dell’umano pensare. Il suo stato attuale, la riduzione del sapere economico in una tecnologia della crescita, coinvolge e immiserisce oggi uno dei saperi più antichi dell’umanità – non meno antico dell’economia- elaborato sin da quando gli uomini si sono uniti in società. Un sapere delle connessioni, profondamente olistico, creato per gestire la diversità e la complessità della vita organizzata degli uomini: la politica.
La subordinazione della politica alla tecnologia della crescita è responsabile in larghissima parte dell’irrilevanza in cui oggi annaspa questo antico sapere. E costituisce forse uno dei nodi fondamentali che spiegano gli equilibri fragili e precari in cui l’umanità sembra precipitata negli ultimi decenni. Equilibri ambientali ed equilibri sociali al tempo stesso. La politica è oggi sempre più unilateralmente irretita, nelle sue forme dominanti, dal delirio riduzionistico dell’economicismo: la peste ideologica dell ‘età contemporanea[19]. E rischia di trascinarci nella rovina se non riusciamo a ridarle autonomia, a farla somigliare a quella che Morin chiama, ricordando il nostro Gianbattista Vico, la «prima scienza nuova», vale a dire l’ecologia, un sapere delle connessioni e delle interrelazioni che legano le infinite varietà del vivente in un tutto che muta nel tempo.
* Relazione dal titolo Novecento diviso: tra riduzionismo tecnico-scientifico e sapere delle connessioni tenuta a Napoli nel corso del Colloquium Internazionale Ciripit (2-3 dicembre 2010) su La dimora della saggezza: l’ecosofia tra filosofia interculturale e pensiero della complessità. Omaggio a Raimon Panikkar.
Note al testo
[1] Rimando al vasto affresco di F. Capra, Il punto di svolta. E al contributo di M. Cini, Un paradiso perduto. Dall’universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano, 2004
[2] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Presentazione, traduzione e note di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol.I, p. 399.
[3] V. Shiva, Monoculture della mente. Biodiversità,biotecnologia e agricoltura “scientifica”, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
[4] E. Morin, La méthode. Tome I. La Nature de la Nature, Edition Seuil, Paris, 1977, p. 365.
[5] I. Illich, Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace,economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, Red, Como, 1992, p. 28
[6] K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, Milano, 1960, p.289.
[7] E. Morin, Il metodo. 2. La vita della vita (1980), Raffaello Cortina Editore, Milano, p. 116.
[8] F. Capra, Il Tao della fisica (1975), Adelphi, Milano, 2009, p. 27.
[9] Ibidem, p. 156.
[10] P. Bevilacqua, La terra è finita.Breve storia dell’ambiente, Laterza, Roma-Bari, 2006, p.138; C. Modonesi e G.Tamino (a cura di), Biodiversità e beni comuni, Introduzione di M. Capanna, Jaca Book, Milano, 2009, p. 23.
[11] E. Morin, Il pensiero ecologico, Hopeful Monster, Firenze, 1988, p. 94.
[12] Ibidem, p. 95.
[13] J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Introduzione di L. e F. Cavalli Sforza, Einaudi, Torino, 2006, p. 149 e ss.
[14] N. Stern, Clima è vera emergenza. Il rapporto Stern: cambiare è possibile, Introduzione di C. Carraro, Brioschi, Milano, 2008, p. 22.
[15] Cfr. B. Commoner, Replicazione del DNA: il tallone d’Achille della genetica molecolare; E.Gagliasso Luoni, Riduzionismi: il metodo e i valori, in C. Modenesi, S. Masini, I. Verga, Il gene invadente. Riduzionismo, brevettabilità e governance dell’innovazione biotech, Introduzione di M. Capanna, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006, p. 51 e ss. e p. 111 e ss.
[16] M. Buiatti, La biodiversità, il Mulino, Bologna, 2007, p. 8.
[17] Sul carattere per così dire inventato dell’economia, come disciplina scientifica, che si è ritagliata uno spazio autonomo tra i fenomeni sociali, S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
[18] Per la rimozione della natura nel processo economico già in Smith, Ricardo e in parte nello stesso Marx, cfr. H. Immler, Natur in der ökonomischen Theorie, Westdeutscher Verlag, Opladen, 1985, p. 138; e il commento di chi scrive in P. Bevilacqua, Demetra e Clio.Uomini e ambiente nella storia, Donzelli, Roma, 2001, p. 118 e ss.
[19] Su questi aspetti rimandiamo, anche per la bibliografia specifica utilizzata, a P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari, 2008, e Id., Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 94 e ss.
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