CHE FARE? da VOLERELALUNA
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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CHE FARE? da VOLERELALUNA

Che fare?

Sinistra, è ora. Prima mossa: visione e valori

29-07-2024 – di: Fabrizio Barca e Andrea Morniroli

Le elezioni europee hanno confermato, al di là del dato numerico, l’egemonia della destra. Il loro esito, inoltre, ha assunto una rilevanza che va oltre il nuovo assetto dell’Europa. Lo senario politico ne esce, anche sul versante nazionale, profondamente segnato. All’analisi dei risultati abbiamo dedicato, nell’immediato, due ampie analisi di Marco Revelli (https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/13/elezioni-a-che-punto-e-la-notte/ e https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/19/europa-occidente-il-canto-stonato-delle-anatre-zoppe/e un primo intervento di Livio Pepino (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/06/17/dopo-le-europee-la-necessita-di-un-dibattito-senza-reticenze/teso a mettere sul tappeto alcune questioni aperte. La situazione interpella, peraltro, anche noi di Volere la Luna e i gruppi e movimenti che compongono il variegato arcipelago che ci ostiniamo a chiamare sinistra alternativa. Che fare? La domanda di sempre richiede oggi analisi particolarmente accurate e risposte all’altezza dei tempi bui che stiamo vivendo, in cui all’ormai consolidata vittoria del mercato si affiancano, in Italia, il consolidamento di una svolta autoritaria che non tollera dissenso e, sul piano internazionale, una guerra mondiale “a pezzi” che rischia di degenerare in guerra nucleare. Abbiamo, dunque, deciso di aprire, sul punto, un dibattito franco e – lo speriamo – capace di non fermarsi all’esistente e di individuare nuove modalità e nuove strade da percorrere. Le analisi e le proposte pubblicate rappresenteranno uno sforzo collettivo ma saranno tra loro assai diverse e impegneranno, per questo, solo i loro autori. Poi, a suo tempo, forti del confronto realizzato, proveremo a trarre delle conclusioni, magari in un’iniziativa di carattere nazionale su cui stiamo cominciando a ragionare. (la redazione)

Di fronte all’incontro fra neoliberismo e dinamica autoritaria e al precipitare delle cose, l’imperativo è riprendere il cammino della giustizia sociale, interrotto da tempo, e coniugarlo con la giustizia ambientale o ecologica. Per farlo servono tre mosse contemporanee: individuare, comunicare e convergere sulla visione e sui valoridi un modo migliore e più giusto di vivere; condividere e praticare ovunque possibile proposte radicali, che, con un rinnovato metodo democratico, consentano di cambiare rotta e muovere verso questa visione; rovesciare gradualmente ma progressivamente il senso comune prevalente che il neoliberismo e, ora, la dinamica autoritaria hanno sedimentato nella maggioranza delle persone, cambiando il significato delle parole (merito, libertà, uguaglianza, pubblico, lealtà), sdoganando ora il linguaggio bellico e bloccando alla radice ogni tentativo di cambiamento. Non si tratta, allora, solo di “opporsi” – cosa peraltro indispensabile – a governi e pratiche che, qui in Italia e altrove, uniscono neoliberismo e autoritarismo, ma di far toccare con mano l’alternativa che da anni anche gran parte di chi si definiva “di centro-sinistra” ha negato. E di costruire attorno a essa un blocco sociale. Possiamo farlo e possiamo compiere quelle tre mosse se siamo capaci di capire angosce e incertezze di tutte e tutti noi di fronte al turbinio delle trasformazioni climatiche, tecnologiche e geopolitiche e la rabbia di chi sta male e neppure intravede un futuro differente e migliore. Se scacciamo via il cinismo individualista in cui il neoliberismo ci ha avvinto, privatizzando persino la speranza. Se valorizziamo le intersezioni di pensieri pur diversi e di mille pratiche territoriali, anziché restare autoreferenziali in una logica di nobile testimonianza. Questo è il compito per la “sinistra”. Avendo il coraggio di tornare a usare questa parola. Ma dando più importanza a ciò che con essa intendiamo – i valori e la visione mobilitanti, appunto – che alla sua enunciazione. Orgogliosi, come lo è la destra, ma anche consapevoli che la parola in sé non è un “apriti Sesamo”, e che, anzi, in prima istanza allontana spesso i/le più giovani quando suona come un tratto identitario fine a sé stesso e collocato soprattutto nella memoria. Qui di seguito, utilizzando il patrimonio di analisi e di pragmatismo che il Forum Disuguaglianze Diversità (https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/) ha accumulato, sintetizziamo la diagnosi di “come siamo finiti dove siamo” – neoliberismo e dinamica autoritaria – per enunciare poi valori, proposte e nuovo senso comune che potrebbero aggregare le forze per rovesciare la rotta. Ma prima deve essere chiaro il punto di vista da cui proviamo a guardare le cose.

Occorre uno sguardo diverso: partire dai margini. Dobbiamo assumere il punto di vista del margine, del sempre più grande margine che si è prodotto nelle nostre società. I numeri della distribuzione di ricchezza inchiodano la realtà. La metà “meno ricca” della popolazione adulta dell’Italia (25 milioni di persone) ha visto polverizzare la propria già scarsa ricchezza, che in trenta anni è scesa da oltre il 10 a circa il 2,5% di quella del paese, mentre i 50mila adulti più ricchi l’hanno vista più che raddoppiare (dal 2 al 5%). I più vulnerabili, il 20% “meno ricco”, è passato in media da una “ricchezza zero” al debito, cioè a una ricchezza negativa (-2% del totale); il ceto medio-basso (fra il 20% e il 40% in graduatoria) si avvicina oggi in media a “ricchezza zero”. Ma questa è solo la parte “di mercato” delle ingiustizie sociali. Il resto delle ingiustizie è raccontato dal grave restringersi del servizio sanitario nazionale e dalla corrosione di tutti i servizi fondamentali del welfare universale. È raccontato da uno Stato che sembra declinare la responsabilità di garante dell’esigibilità dei diritti, piegandosi, al contrario, ad aziendalizzare la cura e la messa in produzione della sofferenza; al punto tale che oggi, la stessa proprietà pubblica di una prestazione non è di per sé sufficiente a garantire l’utilità pubblica di quella stessa prestazione. È raccontato da quelle popolazioni ampie, di aree urbane periferiche, ex-industriali, interne, che vedono ogni giorno sordità ai propri bisogni e aspirazioni. Sono le persone più fragili che difficilmente vengono intercettate da istituzioni e soggetti pubblici ben più attenti ai “centri” che ai “margini”; persone che in questi anni si sono sentite abbandonate. È raccontato dalla loro disuguaglianza di riconoscimento, che impatta su situazioni già gravemente compromesse, provocando rabbia, atteggiamenti di rifiuto verso ogni pubblica istituzione e la fascinazione che monta per l’opzione autoritaria. È raccontato dall’astensionismo alto e in crescita in tutte le tornate elettorali, con un crollo di partecipazione che in Italia, nelle votazioni politiche nazionali, arriva a 20 punti percentuali rispetto a inizio secolo.

Ecco, la costruzione dell’alternativa credibile deve partire da qui. Deve riconnettere questi margini ai punti di forza del paese, alla sua ancora mirabile forza imprenditoriale diffusa, alla ricerca di elevata qualità, ai movimenti culturali e artistici, alle testarde buone pratiche pubbliche, alle tante e inventive forme di auto-organizzazione, di movimento, di lavoro di cura che “con” quei margini lavorano, rammendando strappi, costruendo protagonismo, intrecciando lavoro sociale con la rigenerazione delle relazioni e dei luoghi e con la produzione di economie di prossimità. Deve partire dai margini, non solo perché questo è il “compito della Repubblica” scandito dall’articolo 3 della Costituzione, ma perché da questi luoghi viene una sfida di creatività: usare le nuove tecnologie, l’innovazione sociale per rispondere a “quella” domanda, a “quelle” diversità, grazie anche a “quei” saperi. Che sia questa la vera sfida intellettuale e politica lo capiamo proprio passando alla diagnosi della frana in atto.

Attrazione fatale: neoliberismo, dinamica autoritaria e governo della complessità. La diagnosi è presto riassunta. I principi del neoliberismo – determinismo tecnologico e negazione di un’alternativa; illimitata libera iniziativa d’impresa, fino al monopolio, anziché concorrenza; svalorizzazione e precarizzazione del lavoro come risposta all’entrata nel mercato di centinaia di milioni di lavoratrici e lavoratori, soprattutto in Asia, che uscivano dalla povertà; libertà di andarsene ma non di alzare la voce; “partecipazione” svilita e ridicolizzata; uno Stato senza missioni strategiche che asseconda le mosse delle imprese che contano o delle corporazioni più forti; ideologia della “proprietà intellettuale”; “merito” come accumulazione di patrimonio; “povertà” come colpa – hanno prodotto politiche nocive, l’inversione fosca dell’ultimo trentennio, le disuguaglianze, l’immiserimento e le poli-crisi, e non possono più promettere felicità. Ma gli effetti di quei principi sono ancora potenti. Primo, essendo penetrati nel senso comune, essi continuano a scoraggiarci da ogni cambiamento: abbiamo paura di coltivare sogni collettivi, per non essere ancora una volta delusi. Secondo, se la svalorizzazione e precarizzazione del lavoro ti hanno costretto a “svenderti” – diciamo, almeno un quarto delle forze di lavoro del paese – come puoi credere nelle istituzioni democratiche e impegnarti dentro di esse? Terzo, quei principi, per sorreggere lo squilibrio sociale prodotto hanno bisogno di strumenti coercitivi, autoritari e di disgregazione sociale in una moltitudine di corporazioni. Ecco, allora, profilarsi per diverse strade l’incontro fra neoliberismo e autoritarismo corporativo, di cui l’attuale governo dell’Italia è limpida espressione. Ma c’è di più. La dinamica autoritaria in atto in tutto il mondo ha un altro fondamento che va compreso. Essa rappresenta, infatti, anche una risposta possibile all’aumento della complessità, che corrode l’efficacia di standard, norme e regole nel decidere cosa fare quando l’incertezza si dipana in circostanze impreviste e imprevedibili. L’accelerazione e incertezza del cambiamento tecnologico; l’aumento iperbolico della quantità di dati di cui “si potrebbe e dovrebbe tener conto” nel decidere; la sacrosanta sensibilità di molte e molti all’impatto di ogni decisione in termini di genere, origini etniche, ambiente; l’aumento del numero di persone che hanno istruzione e consapevolezza per voler contare sulle scelte pubbliche; l’alterazione geopolitica indotta dal rapido ritorno della Cina sullo scenario mondiale: tutto ciò corrode la capacità di stabilire in anticipo, con standard, norme e regole, cosa fare quando date circostanze si presentano. Quelle circostanze non sono spesso neppure immaginabili. E allora divengono centrali gli altri due “strumenti per decidere” in condizioni di incertezza sistemica. Da una parte la concentrazione di un potere residuale di controllo e decisione nelle imprese, specie in grandi corporations, e negli Stati. Dall’altra, l’affidamento delle decisioni a processi di sperimentalismo democratico, dove a forti missioni strategiche nazionali e sovra-nazionali corrispondono spazi pubblici di confronto acceso, aperto, informato e ragionevole per attuare quelle missioni a misura delle persone nei luoghi. Se questa seconda opzione è respinta, come è respinta e boicottata da anni dalle classi dirigenti conservatrici di “centro-qualcosa”, l’opzione autoritaria resta la sola strada per affrontare la complessità.

Come prendersela allora con quella parte crescente della popolazione che decide di essere indifferente a istituzioni che “mettono pezze” come se il mondo non fosse cambiato? O con chi, di fronte a ciò, chiede espressamente autoritarismo corporativo? Non lo fa certo per inseguire un sogno. Ma per sapere che “almeno qualcuno/a è in comando” e poi sapere anche chi disprezzare quando andrà tutto a gambe all’aria. E intanto, magari, ricevere: prebende; la giustificazione morale per sfruttare il lavoro di altre e altri e non pagare le tasse; la “protezione” dalla diversità; o magari anche l’avvilente soddisfazione di vedere qualcuno trattato peggio, nella scala del degrado, migranti in testa. Per fare cambiare idea a tutte queste persone bisogna offrire loro valori, visione e proposte ma anche spazi dove esse possano sentire di contare nel prendere decisioni, si tratti di scuola, consultori, trasporto pubblico o trasformazione energetica. Secondo l’indagine Eurobarometro dell’autunno 2023, il 55% degli Italiani è convinto che la propria voce non conti nel proprio paese. È una percentuale enorme rispetto al già elevato 36% della media dei paesi UE: come sorprendersi del tracollo nella nostra partecipazione al voto?

Fermento sociale e produttivo e visione/valori di sinistra. Attenzione. Il paese è vivo e creativo. Non c’è solo rabbia. In moltissimi e moltissime non si sono arresi. “Non arrendersi” a volte significa chiudersi nella sfera personale, famigliare o micro-comunitaria, ma senza cedere alle sirene del neoliberismo o dell’autoritarismo corporativo. Sono persone che un tempo avremmo detto “oneste”, che nel pubblico, nel privato e nel sociale perseguono percorsi di vita coerenti con valori di solidarietà, impegno produttivo e sociale, reciprocità con le altre persone e rispetto dell’ecosistema, e così facendo concorrono a tenere vivo il paese. Ma altre e altri vanno oltre. Nel fermento sociale e produttivo del paese, nel mutualismo di tante reti, nella resistenza di tante cooperative sociali, nell’abnegazione di tanti impiegati pubblici, nell’impegno di tante sindacaliste e sindacalisti, di tanti imprenditori e imprenditrici che sperimentano soluzioni socialmente e ambientalmente giuste, nelle forme dell’auto organizzazione sociale, si manifesta anche un intenzionale impegno “politico”: la sperimentazione di soluzioni innovative, l’aspirazione a modificare il proprio contesto sociale e magari di portare a livello di sistema quanto appreso. Ma il sistema, le istituzioni, i partiti, gran parte dei corpi intermedi non li ascoltano. Ecco, questi sono i mondi con cui molte alleanze, e fra queste il ForumDD, lavorano ogni giorno costruendo ponti fra i saperi della ricerca e del fare, perseguendo con loro un impatto di sistema. Sono i mondi che hanno tenuti vivi i valori scritti nella Costituzione e poi messi a terra nel travagliato ma straordinario progresso sociale, civile ed economico, dell’Italia fino, e soprattutto negli, anni ’70. E che hanno progressivamente adattato questi valori alla contemporaneità, al maturare delle nostre consapevolezze, al cambiamento tecnologico, all’accresciuta complessità. Sono i valori che definiscono ciò che oggi possiamo chiamare “sinistra”. Scorriamo, allora, questi valori che per noi significano “sinistra”, sintetizzandoli sotto cinque titoli. Con tutti i sacrosanti dubbi che si possono (e devono) sollevare e la possibilità di elaborare certo una sintesi migliore, pensiamo che questi valori siano comuni ai molti e diversi rivoli, movimenti e organizzazioni che percorrono il nostro e altri paesi.

1. Costruire dispositivi che valorizzino la “reciprocità”Centralità della persona, un punto di partenza per la sinistra, significa prima di tutto lavorare affinché la componente che è in noi di reciprocità fra persone e di relazione armonica con la natura sia riconosciuta, indagata e promossa, allontanandoci sia dal riduzionismo neoliberista, che narra la nostra specie come mossa solo dall’egoismo, sia dalla deriva iper-illuminista, che ci immagina capaci di prevedere e costruire il futuro in modo quasi deterministico. In realtà, siamo intrisi anche di un istinto ad avvertire come nostri dolori e gioie di altre a altri. Il tema è dotarci di dispositivi che ci rendano possibile e ci spingano a valorizzare questa parte di noi, senza nascondere nel cinismo la nostra paura di non riuscirci o di non essere corrisposte/i. E, poi, nel fare questo, dobbiamo ricordarci che siamo in grado di prevedere solo in modo assai impreciso l’effetto delle nostre azioni e che i processi di cambiamento non sono lineari e dunque che sempre dobbiamo attrezzarci a intercettare in tempo l’imprevisto e adattarci a esso, e che per farlo serve “fare comunità”, di nuovo attivare reciprocità. Su questo piano, essere di sinistra vuol dire, allora, esplorare sempre nuove modalità di esprimere e tutelare questa reciprocità, e significa anche impegnarsi in un comunitarismo aperto (o cosmopolitismo parziale), ricercare rapporti con altre simili aspirazioni ed esperienze per costruire attorno a ciò i mattoni di una nuova sorellanza/fratellanza, ossia di un nuovo internazionalismo, requisito di pace.

2. Mirare all’uguaglianza intesa come la libertà sostanziale di ogni diversa persona di vivere la vita a cui aspira. Ciò che chiamiamo anche giustizia sociale e ambientaleL’opportunità da rendere uguale per ognuna e ognuno di noi non è solo quella di accedere al mercato. È piuttosto l’opportunità di essere libero/a di raggiungere nella vita i risultati che si ha ragione di apprezzare. “Libertà sostanziale sostenibile”, la chiama Amartya Sen, con Martha Nussbaum ispiratore di questa impostazione, avendo attenzione a rimarcare che tale libertà deve includere la possibilità di accrescere (certo, di non ridurre) la stessa libertà delle future generazioni. È una libertà che riguarda tutte le dimensioni di vita, nella diversa importanza che esse hanno per ciascuna e ciascuno di noi; che non è sottomessa a una logica competitiva; che abbraccia sia il risultato effettivamente raggiunto, sia la libertà che abbiamo di mirare a quel risultato se lo desideriamo. E poi quell’opportunità responsabilizza ognuno e ognuna di noi, ossia è anche un dovere. Lo rende chiaro la nostra Costituzione all’articolo 3, quando dopo avere definito l’obiettivo come «il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione dei lavoratori», ne fa anche un dovere per ognuna e ognuno di noi, essendo «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli» a quelle opportunità.

3. Perseguire in ogni contesto un riequilibrio di poteri che tenga conto delle intersezioni fra molteplici subalternità, e contrastare sistematicamente la concentrazione del controllo e della conoscenza. Strumento primario di giustizia sociale e ambientale è il riequilibrio di potere, il solo modo per affrontare e sanare in modo intersezionale le molteplici subalternità che si intersecano e compongono nella società: la subalternità di classe, di chi controlla solo il proprio lavoro (e non anche il capitale, materiale e immateriale, di cui il lavoro ha bisogno per essere produttivo); di genere, ossia delle donne e della comunità LGBTQIA+ in un contesto che resta patriarcale; dei gruppi etnici minoritari o di recente migrazione, discriminati in nome di supposte omogeneità identitarie; ambientale, ossia dell’intero ecosistema che è soggetto all’estrazione insostenibile di valore da parte della specie che l’evoluzione culturale ha reso temporaneamente più potente. Riequilibrare potere implica contrastare la concentrazione del controllo su due fronti: attraverso la promozione della concorrenza dei mercati e la sistematica rimozione di barriere monopolistiche; e dando priorità al principio della conoscenza come bene primario comune dell’umanità e alla costruzione di dispositivi che garantiscano a tutti e tutte i benefici derivanti dalla ricerca e che ci consentano di combinare saperi e di condividere dati per fini di utilità sociale. Sono, queste, condizioni indispensabili sia di maggiore uguaglianza, sia di una sostenibile coesistenza pacifica. E, proprio al fine di quest’ultimo obiettivo, è decisivo promuovere la cooperazione fra Stati nazionali attorno alla garanzia universale di diritti fondamentali e alla fissazione di regole del gioco economico e politico.

4. Adottare e praticare il metodo del confronto acceso, aperto, informato e ragionevole per prendere decisioni in presenza di differenze di interessi e di giudizi moraliCondividere i valori fin qui richiamati non vuol certo dire imporli, semmai vuol dire dare spazio a valori diversi. E poi, anche dentro ai valori di sinistra possono ben emergere giudizi morali diversi, caso per caso. E, ancora, diversi sono comunque gli interessi. E tutto questo si accentua nella complessità accresciuta che abbiamo prima descritto. Ecco, allora, che in questo coacervo di punti di vista, diventa decisivo avere un metodo per prendere decisioni. Essere di sinistra vuol dire credere che questo metodo sia il pubblico confronto, principio fondante della democrazia. Come ci insegnano i successi e le sconfitte e seguendo ancora Sen, questo confronto deve essere acceso, aperto, informato e ragionevole. Acceso, nel senso che ogni persona, ogni diversità, deve avere l’opportunità e lo sprone a dire la sua, nei modi che ritiene appropriati; aperto, nel senso che ogni valore o sapere locale deve poter essere messo a repentaglio da valori alternativi e da saperi esterni o globali; informato, nel senso che ogni opinione deve fare riferimento a informazioni e dati verificabili; ragionevole, per rimarcare che le argomentazione di ciascuna persona non devono solo essere internamente coerenti, ma devono essere formulate in un modo consapevole dei valori e interessi diversi delle altre persone. È un metodo che recupera a un tempo il conflitto, come mezzo fondamentale della democrazia, e il compromesso, come ricerca di un’intersezione possibile fra interessi e giudizi diversi. E che può sfruttare in modo positivo le opportunità di relazione e comunicazione aperte dalla transizione digitale.

5. Vivere con intelligenza nel capitalismo, sfruttando la sua malleabilità per adattarlo all’utilità sociale (art. 41 Costituzione) e per sviluppare e sperimentare accanto ad esso i rapporti non-capitalistici di produzione di cui il mondo, l’Italia, sono ricchiCon riguardo al capitalismo, essere di sinistra vuol dire avere ben presente che si tratta, come per il patriarcato, di un modo storicamente determinato, non uno stato di natura, e che la sua caratteristica e forza è di essere malleabile: sa adattarsi a tassi di profitto anche assai limitati, “soddisfacenti”, secondo ciò che è socialmente condiviso in ogni dato momento storico; e a sistemi di governo dell’impresa assai diversi – “i capitalismi”, al plurale – prevedendo specifici dispositivi per il ruolo dei molteplici soggetti che partecipano o sono toccati dal processo produttivo. Si tratta, allora, di sfruttare questi tratti del capitalismo. Possiamo farlo promuovendo in ogni modo il principio di “utilità sociale” come vincolo e dunque indirizzo della libera iniziativa privata (come da art. 41 della Costituzione Italiana, la cui modifica ha ora reso esplicito che sociale include ambientale). E possiamo sviluppare all’interno del capitalismo rapporti non-capitalistici di produzione, così come, di nuovo, la nostra Costituzione prefigura, dove la ricchezza non è più metro di valore, il controllo del capitale cessa di essere la leva dell’innovazione e l’impatto sull’ecosistema e sulla società non è un vincolo ma parte dell’obiettivo.

È guardando a questi valori e alle esperienze concrete che li esprimono che vediamo le tessere di un’alternativa, di una visione che si affaccia qui sulla terra. Anziani e anziane mescolate con giovani in nuovi agglomerati abitativi segnati dalla comunanza e dal reciproco aiuto. Comunità energetiche orgogliose del loro impatto zero sull’ambiente e dove ogni persona contribuisce per quanto può. Operatori e operatrici che con i loro enti o servizi pubblici interpretano il loro lavoro non solo come mera gestione dell’esistente ma come luogo per immaginare e costruire insieme alle persone con cui lavorano un’alternativa al modello neoliberista, per fare spazio nel mondo a chi ne è stato privato. Reti di pazienti che condividono dati sulla salute piegando il digitale al benessere proprio e di altri. Lavoratrici e lavoratori di filiere produttive territoriali, coesi, al di là dei propri diversi rapporti contrattuali, nel partecipare alle scelte strategiche delle imprese e del territorio. Cooperative che in modo ostinato usano il loro essere impresa per garantire qualità del lavoro e per reinvestire utili nel benessere collettivo delle comunità in cui operano. E così proseguendo, in ogni dimensione di vita.

Gli autori sono i coordinatori del Forum Disuguaglianze e Diversità. L’articolo è la prima parte di un contributo più ampio, la cui seconda parte sarà pubblicata nei prossimi giorni. Il testo utilizza e sviluppa l’articolo “Guardare al mondo con occhi mai indossati prima”, Italianieuropei, 1/2024.

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