STUDIARE L’OCCIDENTE. MA CONTRO CHI? da IL FATTO e IL MANIFESTO
Studiare l’occidente ma contro chi?
di Giuliano Garavini 25 Marzo 2025
Le linee guida di Valditara rilanciano un approccio in stile Guerra fredda sulla “civiltà occidentale”, modello che negli Usa vede l’attacco alle università. Obiettivo? Contrapporsi a Sud globale e minoranze
“Solo l’Occidente conosce la Storia”. La dichiarazione con cui si apre una sezione della bozza presentata al “dibattito pubblico” dalla commissione nominata dal ministro Valditara per definire le “Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e il Primo ciclo di istruzione”, va messa in relazione con il progetto conservatore che ha per baricentro gli Stati Uniti di Trump.
Continui rimandi all’Occidente costellano le linee guida abbozzate dalla sottocommissione “Storia”, coordinata da Ernesto Galli della Loggia. “La storia”, si legge nel testo, “costituisce il principale strumento tanto per conoscere come si è formata la nostra civiltà, per comprenderne le caratteristiche di fondo e i valori, che per inquadrare al tempo stesso le vicende della scena mondiale e i rapporti di questa con l’Occidente”. In un recente volume, pubblicato assieme alla coordinatrice scientifica della commissione, la pedagogista Loredana Perla, nonché in interviste e articoli, Galli della Loggia ha ribadito la necessità di una “grande narrazione” che privilegi la storia d’Italia, dell’Europa e dell’Occidente, rivendicando il carattere “ideologico” della riforma.
Vale la pena chiarire che il concetto di Occidente è un prodotto culturale e politico relativamente recente, entrato nel lessico comune dopo la carneficina della Prima guerra mondiale. I corsi sulla “Storia della civiltà occidentale” (ribattezzati colloquialmente “from Plato to Nato”) si diffusero nelle università americane nella seconda metà degli anni Cinquanta, in piena Guerra fredda, con il dichiarato intento di consolidare un’alleanza politica, culturale e militare tra le “nazioni libere” in contrapposizione all’Unione sovietica e al movimento comunista.
Tuttavia, la storia “from Plato to Nato” ha avuto vita breve, sostanzialmente quella di una generazione dal 1950 al 1970. Pur avendo attinto a sintesi pregevoli (si pensi alla History of Western Civilization di William McNeill, la cui prima edizione apparve assieme alla nascita della Nato nel 1949), questi corsi sono diventati obsoleti dopo l’emergere dei paesi del cosiddetto “Terzo mondo” a seguito della decolonizzazione, con i suoi riverberi di terzomondismo e anti-imperialismo diffusi nella generazione dei “sessantottini”, nonché per le pretese di ampi settori della classi dirigenti dell’Europa occidentale di elaborare un’identità differente rispetto a quella degli Usa. Dopo la fine della Guerra fredda intellettuali come Samuel Huntington, autore de Lo scontro delle civiltà, o Niall Ferguson, storico e saggista neoconservatore, hanno tentato di rilanciare il progetto di “civiltà occidentale”. Ferguson, in Civilization: The West and the Rest, apparso nel 2011 con il titolo Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, ha attribuito l’ascesa europea a sei “killer app” (competizione, scienza, proprietà privata, medicina, consumismo ed etica del lavoro). Sulle due sponde dell’Atlantico, prevaleva però una storiografia critica del colonialismo, aperta a misurare l’influenza di civiltà e popoli non europei nel plasmare le vicende delle stesse nazioni europee e un’attenzione, fin troppo dogmatica, verso le “minoranze svantaggiate”, anche a scapito dei sempre più rari insegnamenti e dipartimenti di “studi classici” e di storia europea.
Una novità recente è rappresentata dall’emergere del “nuovo conservatorismo” che ha sospinto la campagna elettorale di Donald Trump verso il secondo mandato. Questo movimento culturale e politico si è rafforzato nella feconda contaminazione con il conservatorismo europeo, di cui Fratelli d’Italia è componente importante. Figura carismatica di quella che definisce una “contro-rivoluzione culturale conservatrice” (nel 2023 ha pubblicato il suo manifesto La rivoluzione culturale americana. Come la sinistra radicale ha conquistato tutto) è Christopher Rufo, secondo il New York Times “il più importante attivista della politica americana dai tempi di Ralf Nader”. Rufo, un passato nella sinistra radicale, ha contribuito a spingere il Trump II ad attaccare frontalmente le istituzioni educative del Paese. Trump ha firmato un decreto per sciogliere il ministero dell’Istruzione e sforbiciato i finanziamenti federali alle università, partendo dai 400 milioni di dollari alla Columbia University, uno degli epicentri delle proteste studentesche contro il massacro dei palestinesi a Gaza. Rufo si è scagliato contro le politiche di “discriminazione positiva” (affermative action) che avrebbero imposto selezioni basate su criteri di razza e genere, nonché contro la “critical race theory”, i cui esponenti più radicali promuoverebbero “la redistribuzione di terra e ricchezza su basi razziali”. I nuovi conservatori mettono in discussione l’intero impianto della legislazione sui diritti civili degli anni Sessanta che nessun presidente repubblicano prima di Trump avrebbe avuto il coraggio di scalfire. Rufo considera vitale introdurre criteri selettivi puramente meritocratici (“un sistema spartano indifferente al colore”) e smontare le istituzioni che supportano il “woke”, le “teorie gender” e il “marxismo razziale”. Una specifica attenzione è riservata alle università. “Un mio obiettivo di medio o lungo termine”, dice Rufo al NYT, “è adottare una formula di finanziamento del governo federale che le metta addosso un terrore esistenziale, portandole a dire ‘a meno che non cambiamo quel che stiamo facendo, non potremmo pareggiare il bilancio per il prossimo anno”. Columbia, dopo i tagli, ha infatti modificato in senso restrittivo le norme sulla gestione delle proteste studentesche e “commissariato” il Dipartimento di studi mediorientali, noto nel mondo anche perché vi aveva insegnato il palestinese Edward Said, autore di Orientalism, uno dei testi chiave degli studi post-colonali. In parallelo, con il supporto del governatore della Florida DeSantis, Rufo ha inaugurato un nuovo modello di università, il New College, che promette di incoraggiare nelle discipline umanistiche “un impegno condiviso a una cultura del dibattito civile che tenda verso il vero, il bene e il bello, che costituiscono la grande tradizione della Civiltà occidentale”.
La guerra all’ordinamento scolastico e universitario americano, pur elitario e fortemente diseguale, viene portata dal nuovo conservatorismo in nome del decentramento e di ulteriori privatizzazioni, e si combina con il rilancio di un discorso sull’Occidente. Se questo ha confini geografici mutevoli come lo sono gli umori della diplomazia internazionale, estendendosi dal Canada al Giappone, per inglobare l’Australia e l’Argentina di Milei (ma non il Brasile di Lula), ha il vantaggio di poter essere plasmato in un progetto politico reazionario.
Alla fine degli anni cinquanta il progetto era quello della lotta al comunismo internazionale. Oggi il progetto sembra, nella sua dimensione esterna, quello di contrapporsi al Sud globale (in primo luogo alla Cina), proprio nel momento in cui i BRICS hanno superato i Paesi del G7 per prodotto interno lordo, e la Cina non solo è la principale potenza industriale del pianeta, ma sfonda la frontiera tecnologica, dall’intelligenza artificiale alle rinnovabili. Nella sua dimensione interna, il “progetto Occidente” incarna invece una battaglia sociale e culturale contro quelle componenti della società, cresciute anche assieme a flussi migratori mal governati, che vedono nella critica alla natura coloniale dell’espansionismo europeo un elemento chiave della propria identità – e non si ritrovano in definizioni che stigmatizzano come “antisemita” chiunque critichi lo stato di Israele e i crimini contro l’umanità perpetrati dalla sua attuale leadership. Un Occidente contro il Sud, sia fuori che dentro le stesse società occidentali.
Se dunque la riforma dell’insegnamento della storia dovrà valorizzare, alla luce delle ricerche più recenti, l’evoluzione storica dell’Italia e dell’Europa, inquadrandole, come sostiene la commissione, nelle “vicende della storia mondiale”, è opportuno che ciò avvenga tenendosi debitamente alla larga da riferimenti ad un progetto così ideologicamente connotato e divisivo come quello di Occidente.
Socrate alle Ardeatine, ovvero di cosa parliamo dicendo «Occidente»
La parola Occidente Abbiamo sviluppato una tecnica della narrazione storica. Anziché dimenticare la Shoah, per esempio, la ricordiamo ossessivamente e ritualmente. Ma oscuriamo le procedure e il quadro mentale che l’ha resa possibile, relegando gli orrori nell’inumanità della «barbarie». Siamo sempre vittime, mai perpetratori
Alessandro Portelli 25/03/2025
La sera del 23 marzo 1944, l’Obersturmbannführer Herbert Kappler va in ufficio. Va in archivio, prende i registri, torna alla scrivania, si siede, e fa un elenco di nomi. Sono gesti normali che generazioni di burocrati e pubblici impiegati hanno ripetuto uguali. Con questi gesti ordinari comincia strage delle Fosse Ardeatine.
Non facciamoci ingannare quando nella lapidi affisse sui nostri muri leggiamo «la barbarie nazista». I barbari fanno cose barbare, ma per fare le Fosse Ardeatine c’è voluto lo stato moderno, la burocrazia, gli uffici, la scrittura; per fare la Shoah ci sono voluti i treni, l’industria chimica, persino i primi computer. C’è voluto il paese più civile d’Europa, il paese di Bach, Beethoven e Kant. Sono stragi civili, europee e occidentali fino al midollo.
In questi giorni, il ministero per l’istruzione e il merito richiede di insegnare agli studenti di tutte le scuole della Repubblica che «Solo l’Occidente conosce la storia». Come ha detto un professore dal palco di una grande manifestazione a piazza del Popolo, «In Europa abbiamo Socrate, Spinoza, Hegel e Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?» (certo che sì. Qualche filosofo ci sarà pure stato in Cina; il Sundiata è un grande poema epico del Mali; e qualche anno fa un prezioso libro di Francesco Gabrieli si intitolava Storici arabi delle Crociate. Ma non è nemmeno questo il punto). Manipolando una frase di Marc Bloch (e, sospetto, con qualche mal digerito residuo di Morte e pianto rituale di Ernesto de Martino), le linee guida redatte dalla commissione presieduta da Ernesto Galli della Loggia spiegano questa eccezionalità della nostra cultura col fatto che «Il cristianesimo è una religione di storici. È nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione». Solo noi pensiamo alla storia come un progresso verso un fine, dalle tenebre alla salvezza.
Proviamo a cambiare il punto di vista. Proprio di questo infatti parla l’ultimo libro di Amitav Ghosh, scrittore indiano che la cultura dell’Occidente la conosce bene. Si chiama Fumo e ceneri, risale al 2023, quindi prima delle linee guida di Valditara e della Loggia, e spiega in modo assai convincente come la prosperità dell’Occidente si sia basata in larga misura sul commercio dell’oppio. A pagina 47 (non ho ancora la traduzione italiana, ritraduco dall’originale) leggiamo: «Un altro concetto dell’Illuminismo che ha svolto un ruolo importante nel dare forma all’immagine che l’Occidente ha di sé, la Storia come una narrativa di progresso che si evolve verso certi fini trascendenti fondata su una concezione del tempo, e della storia, come una narrativa di ininterrotto Progresso ascensionale». Grazie a questa concezione, continua Ghosh, l’Occidente ha potuto raccontare la propria storia come un percorso progressivo di liberazione ed emancipazione, in cui «le storie intrecciate di genocidio e schiavitù erano oscurate o presentate come deplorevoli deviazioni da questa narrazione», e ha potuto legittimare il suo dominio con la superiorità della propria cultura tralasciando quanto fosse fondato su schiavitù, colonialismo, commercio della droga (dalla coltivazione dell’oppio imposta dalla Gran Bretagna ai contadini indiani alla sua importazione imposta alla Cina con le ottocentesche guerre dell’oppio). Queste cose sono «relegate nell’irrilevanza semplicemente perché non rientrano nella narrazione del Progresso».
In realtà, abbiamo sviluppato anche un’altra tecnica della narrazione storica. Anziché dimenticare le Fosse Ardeatine e la Shoah, per esempio, le ricordiamo ossessivamente e ritualmente, ma oscuriamo la tecnologia, l’organizzazione, le procedure, il quadro mentale che le hanno rese possibili, e ci scarichiamo di questi orrori relegandoli nell’inumanità della «barbarie» o della «belva nazista». Siamo sempre vittime, mai perpetratori.
Grazie a questa concezione della storia, l’Occidente illuminato ha potuto spiegare il fatto che gran parte del genere umano non avesse la stessa storia progressiva collocandolo fuori dell’umanità stessa. Dopo tutto, quando parliamo di Occidente non parliamo di geografia (Dakar è molto più a occidente di Roma) ma di razza: l’Occidente di cui parliamo coincide sostanzialmente con la razza bianca.
Come ci ricorda il critico afroamericano Henry Louis Gates, secondo Hume gli africani non erano umani alla stessa stregua di come lo siamo noi; secondo Kant esisteva una diretta relazione fra «stupidità» e «nerità» («uno dei tanti esempi», commenta Gates, «dell’innata capacità dei filosofi europei di concepire l’umanità in termini ideali (bianchi, maschi) e disprezzare, aborrire, colonizzare o sfruttare esseri umani non ’ideali’».) e ancora nel 1813 Hegel ribadiva l’innata inferiorità degli africani. Più tardi, i nazisti ribadivano l’innata inferiorità dei latini e noi latini ribadivamo l’innata inferiorità degli slavi.
Ora, io so benissimo che anche «gli altri» hanno i loro orrori e i loro crimini (per capirsi: il 7 ottobre è un atto barbarico; Gaza è un massacro moderno, tecnologico e civilizzato), e non mi vergogno affatto di appartenere a questo benedetto Occidente in cui sono casualmente nato. Ma vorrei che questa identità che mi appartiene non venisse declinata in termini di etnocentrismo e suprematismo; vorrei che, quando ci illuminiamo di Imperativo Categorico, di Mozart e di Beatles, non ci scordassimo del Congo belga, degli Herero e di Debra Libanòs (e di Gaza).
Va bene ricordarci di Hegel come gloria dell’Europa e dell’Occidente, ma forse potremmo ricordarci anche che la cultura che ha generato Hegel (e che Hegel ha contribuito a formare) ha prodotto anche Auschwitz . Sì, «solo l’Occidente» è stato capace di immaginare la Shoah e di realizzarla. Insegniamo anche questo, ai ragazzi delle scuole della Repubblica, quando celebriamo gli anniversari.
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