SIGNORI E SERVI: IL RITORNO DELLA SOCIETÀ FEUDALE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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SIGNORI E SERVI: IL RITORNO DELLA SOCIETÀ FEUDALE da IL MANIFESTO

Signori e servi: il ritorno della società feudale

Usa Non più egemonia ma dominio. La risposta di Trump al collasso della globalizzazione è la legge del più forte. Quella dei movimenti e della Chiesa è invece l’universalismo

Massimo De Carolis  27/04/2025

Per quanto possano sembrare imprevedibili e caotiche, le mosse dell’amministrazione Trump hanno mostrato finora almeno un filo conduttore: la tendenza a legare in un nodo sempre più serrato rapporti commerciali e forza militare, affari e bombe. La raffica di dazi ha trasformato l’interdipendenza commerciale in un campo di battaglia, radicalizzando una tendenza a weaponize l’economia mondiale.

Tendenza che era già una costante nella politica americana degli ultimi decenni, quale che fosse il presidente in carica. L’attuale amministrazione ne esaspera i toni e, nello stesso tempo, li accompagna con un messaggio a metà tra il cinico e il rassicurante: che non c’è guerra che non possa risolversi in un accordo mercantile, purché le parti in campo si pieghino al calcolo realistico dei rapporti di forza. E che non c’è quindi nemico che non possa trasformarsi in partner commerciale, quali che siano i crimini contro l’umanità di cui può essersi reso responsabile.

Si attutiscono così, almeno in teoria, le inimicizie assolute del passato. Anche però i vecchi legami di amicizia ne risultano profondamente ridimensionati, come l’Europa sta imparando a proprie spese. Il nuovo quadro non prevede infatti più alleati o amici, ma solo vassalli ai quali elargire protezione a prezzo di usura, in cambio di fedeltà e obbedienza illimitate.

Si può capire che le nazioni europee siano turbate da un mercantilismo a mano armata che le sta relegando a un ruolo di secondo piano, schiacciate tra potenze di dimensioni continentali. Finora però le loro contro-mosse non sembrano ispirate al desiderio di modificare più di tanto il quadro. Alzare drasticamente la spesa militare, accanirsi contro profughi e migranti, posizionarsi in prima linea nell’estrazione e nel saccheggio delle risorse, sono tutte misure che danno per scontata la simbiosi tra forza militare e arricchimento predatorio. E che riducono la coesistenza a una catena di rapporti di dominio, in cui il più debole è costretto alla sottomissione e all’obbedienza. L’Occidente sembra così riportato di colpo al Leviatano di Hobbes, che si concludeva evocando «la mutua relazione tra protezione e obbedienza, di cui natura umana e leggi divine richiedono l’inviolabile osservanza». Eppure, potrebbe rivelarsi un madornale errore confondere il realismo che animava la modernità nascente con il cinismo del suo attuale declino.

Protezione e obbedienza, nelle teorie politiche moderne, non erano invocate per legittimare la legge del più forte ma, al contrario, per annunciarne l’inevitabile trapasso. L’idea era che la violenza distruttiva degli antagonismi feudali non potesse risolversi che nell’emergenza di un potere sovrano, capace di istituire un Commonwealth di cui tutti fossero membri a pari titolo. Ci si aspettava perciò che i rapporti di dominio lasciassero il posto all’ordine civile non per un’esigenza morale, ma perché spinti a questo risultato dal loro stesso automatismo.

Una visione analoga ha ispirato la modernizzazione anche in ambito economico. L’istituzione del mercato era concepita come condizione perché l’egoismo dei singoli fosse spinto da sé stesso a cementare la cooperazione e la prosperità collettiva. Che il progresso economico e civile dovesse abbattere le barriere feudali tra servi e signori era dato per scontato. Solo che il compito non era affidato a un qualche sussulto morale, ma alla logica interna della concorrenza, filtrata dagli automatismi del mercato.

A tenere unito l’Occidente era insomma la convinzione che la forza del sovrano e il calcolo mercantile concorressero, in fondo, ad attutire la brutalità del dominio, sublimandola in relazioni contrattuali, prevedibili e «civili». Una fede discutibile e spesso smentita dai fatti, ma che ha sancito per secoli l’egemonia occidentale. Una sua eco sbiadita aleggiava persino nel programma neoliberale di un «nuovo ordine globale», affidato a pari titolo a mercati e carri armati.

Pur basandosi invece sugli stessi mercati e carri armati, la simbiosi attuale tra politica e affari propone una narrazione del tutto ribaltata, che annuncia una vera e propria rifeudalizzazione dei rapporti sociali. Non si pretende più che i rapporti di dominio si trasfigurino da soli in forme di cooperazione ma si cerca, al contrario, di risolvere ogni cooperazione in relazioni verticali di comando e obbedienza, dominatori e vassalli, signori e servi. Venendo meno così ogni terreno condiviso, il sistema-mondo non è più spinto (fosse anche con la forza) a raccogliersi intorno a un nucleo egemonico. A imporsi, al contrario, è una specie di dominio senza egemonia, che minaccia di disintegrare non solo l’ordine globale, ma ogni genere di corpo collettivo – le alleanze, i mercati, le nazioni – e che spinge ogni singolo attore a concentrarsi sul proprio interesse di parte, rinunciando a ogni cura del mondo nel suo insieme.

Che una risposta tanto ottusa al collasso della globalizzazione non possa che avere effetti devastanti è così evidente, da porre sul tappeto l’urgenza di un nuovo universalismo, una nuova capacità di farsi carico dell’unità del mondo nella sua totalità. Da una tale esigenza è nato il dialogo, del tutto inaspettato, fra l’attivismo dei movimenti e l’universalismo della Chiesa, su temi come la protezione dei migranti, la pace e la difesa della terra come casa comune dell’umanità. Un dialogo che si spera possa rafforzarsi negli anni futuri. E al quale, al momento, le autorità economiche e politiche dell’Occidente sembrano, senza eccezioni, irrimediabilmente sorde.

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