WELFARE E DECARBONIZZAZIONE. DESTINO OBBLIGATO da IL MANIFESTO
Welfare e decarbonizzazione. Destino obbligato
Cambiamento climatico Una transizione giusta si persegue attraverso un approccio eco-sociale, piegando le politiche sociali in modo che assumano la transizione nel proprio funzionamento e costruendo le politiche ambientali per avere ricadute sociali positive
Giovanni Carrosio 22/11/2024
Nonostante la resistenza di forze ostili che in questi mesi stanno rialzando la testa in modo preoccupante, la traiettoria della decarbonizzazione è segnata: la trasformazione energetica verso le fonti rinnovabili ha già avviato processi di discontinuità radicale dai quali non si tornerà più indietro. È in gioco però la velocità con la quale avviene la transizione, che può essere rallentata non solo dalle tensioni che si generano negli attuali rapporti di forza all’interno del mondo capitalistico e nelle interdipendenze della globalizzazione, ma anche dalle nuove disuguaglianze nella distribuzione dei costi e dei benefici e nelle possibilità di accesso all’energia che la transizione produce su alcune fasce di popolazione.
Non esistono soltanto nuovi rischi sociali come effetto diretto dei cambiamenti climatici, che possono essere acutizzati dalla inazione, ma anche come conseguenza delle politiche per la transizione, cieche rispetto ai divari sociali e territoriali e non orientate a un nuovo modello sociale più equo. Dentro questo quadro, il Forum Disuguaglianze e Diversità ha lanciato la proposta del welfare energetico-climatico: l’idea che le misure per il contrasto della crisi climatica, per la transizione ecologica e per la trasformazione energetica debbano favorire le fasce più deboli della popolazione, come condizione di giustizia in sé e come condizione sine qua non di una necessaria accelerazione della transizione. Perché questo sia possibile, la decarbonizzazione può essere fatta soltanto attraverso risparmio, efficienza e transizione alle rinnovabili, e non con la fantomatica neutralità tecnologica che rimette in campo nucleare e stoccaggio dell’anidride carbonica. È in questo triangolo, infatti, che è possibile costruire una transizione inclusiva.
Ma non basta. Una transizione giusta si persegue attraverso un approccio eco-sociale, piegando le politiche sociali in modo che assumano la transizione nel proprio funzionamento e costruendo le politiche ambientali per avere ricadute sociali positive. È un modo di intendere la transizione che cerca di integrare sociale e ambientale nel modo costitutivo con il quale si pensano le politiche, piuttosto che ricucire a valle, quando gli effetti negativi si sono già dispiegati e si può soltanto ormai compensare chi ne subisce i costi.
Concettualizzare la transizione dentro la categoria del welfare, inoltre, significa fare transitare l’energia da bene di consumo, merce, come avviene con il mercato libero, a diritto.
Diritto che non si può limitare all’accesso all’energia qualunque sia, ma deve essere accesso all’energia giusta, pulita e democratica, consumata razionalmente grazie alla disponibilità delle nuove tecnologie e alla rigenerazione dei luoghi di vita, adattati e riorganizzati affinché siano funzionali al risparmio e all’efficienza. Pensare a una serie di politiche pubbliche dentro la cornice del welfare, come la cosiddetta Direttiva Case Green, alla quale il governo dovrà rispondere attraverso un Piano di ristrutturazioni da elaborare entro il 2025, significa preoccuparci di come le classi sociali più vulnerabili possano efficientare le abitazioni, dotarsi di tecnologie efficienti e consumare energia da fonti rinnovabili: autoprodotta, prodotta insieme ad altri o acquistata sul mercato a un prezzo giusto.
E dobbiamo preoccuparci di come il contesto di vita delle persone venga trasformato ecologicamente per dare loro la possibilità di soddisfare i propri bisogni generando meno impatti ambientali. Per fare questo bisogna orientare la transizione luogo per luogo, costruendo politiche capaci di intrecciare il sostegno al reddito, la conversione tecnologica, la dotazione di infrastrutture sociali e di ricchezza comune, la costruzione di istituzioni a misura di bisogni. Un percorso complesso, che richiede maturazione culturale, superamento della settorializzazione delle politiche pubbliche, intelligenza collettiva per tradurre l’idea eco-sociale in proposte di policy concrete e percorribili.
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Forum Diversità e Disugliaglianze, Università di Trieste
Il sovranismo fossile e i suoi rimedi
Clima L’isolazionismo di Trump può essere un modello di sviluppo devastante. Il processo di transizione ecologica è la carta dell’Ue schiacciata tra Usa e Cina e senza materie prime
Livio De Santoli 22/11/2024
La risposta al Make America Great Again risiede anche nel rilancio di una solida e convinta strategia di decarbonizzazione, che oltretutto significherebbe anche contrastare i sovranisti di casa nostra. E sarebbe di chiarimento rispetto alle rinnovate pulsioni nostrane sul nucleare e alla retromarcia della Ue.
Per comprendere il contributo che la piccola Europa, e dell’ancor più piccola Italia, è chiamata ad offrire per non soccombere, occorre definire bene il quadro complessivo delle azioni per contrastare la deriva sovranista e isolazionista della futura presidenza Trump, e riferirsi senza pregiudizi ed ideologie a quanto accadrà nei prossimi quattro anni. Probabilmente la politica estera degli Usa non subirà consistenti variazioni rispetto al primo Trump, e forse neanche tanto rispetto alla presidenza Biden, anche se è previsto un inasprimento delle politiche commerciali e una ancor più radicale posizione nei confronti dell’immigrazione.
La vera partita si giocherà sul fronte del cambiamento climatico, e non è questione di rinuncia Usa agli accordi di Parigi del 2015, o di affermazioni di effetto quali: «Il cambiamento climatico non esiste». Invece, sarà proprio l’isolazionismo di Trump, conseguenza di un protezionismo interno che fa leva sulle proprie risorse di gas, che dovrebbe ispirare le azioni dell’Europa e dei suoi Stati membri. Sono due i punti da analizzare: le strategie energetiche dei prossimi venti anni e il sempre più scomposto, ma imponente, posizionamento dei petrostati produttori di petrolio, come la Cop 29 sta dimostrando.
Innanzitutto, veder affrontare senza convinzione il tema dell’energia da parte delle forze progressiste, così come anche di altri argomenti come la marginalizzazione dei diritti civili, la svalorizzazione del lavoro, il dominio del mercato e la privatizzazione dei servizi pubblici, lascia spazio alla confusione e all’astensionismo dilagante. O si vota chi si è intestato la battaglia dei ceti medi e dei consumatori con demagogia, o non si vota. Ma ora la tendenza all’isolazionismo americano si interseca con l’ideologia sovranista e questo può essere un modello di sviluppo devastante. Il processo di decarbonizzazione in questo caso avrebbe il merito di svelare le insidie di un autoprotezionismo negativo, dal punto di vista di una Europa schiacciata tra Usa e Cina, senza materie prime e senza strategie di uscita. Il capitalismo del fossile a proprio uso e consumo non aiuterà la disparità sociale, e continuerà ad avvantaggiare quote di popolazione rispetto ad altre.
Ancora più negativa, se possibile, è la posizione dei paesi produttori di petrolio, in netta contrapposizione con la decarbonizzazione, ovviamente, ma anche con le posizioni di Trump.
Peggiorati ulteriormente gli outlook della Cop28 di Dubai, la Cop29 non affronta minimamente il tema del phase-out delle fonti fossili, del sostegno finanziario per i paesi in via di sviluppo, e dell’eliminazione dei sussidi dannosi alle fonti fossili. La realtà per l’Opec sta nello scampato pericolo e di aver alzato la voce senza alcun impegno a reinvestire i profitti del fossile in tecnologie rinnovabili per accelerare la transizione.
I signori del petrolio hanno ottenuto la possibilità di perseverare nella finanza climatica guadagnando un ruolo decisivo nella transizione. Ma siamo sicuri che questa strategia, guadagnata con la forza all’interno delle ultime Cop, sia compatibile con quella degli Usa, che dalla Cop usciranno e che si pongono in alternativa (sui mercati sicuramente) ai produttori di petrolio? L’Europa non ha altra strada, deve dare corpo ad un progetto sostenibile di governance internazionale e di sovranità condivisa – che si ispiri su una Agenda 2030 magari rinnovata, ma ineludibile. L’Europa così riscoprirebbe il valore politico e culturale dei fondamenti dell’Europa stessa nella sua dimensione internazionale di lotta alle sovranità assolute.
Infine, mentre gli Usa hanno risorse proprie, basare la sicurezza energetica di un Paese come il nostro sul fossile è un errore antistorico, perché, oltre alla dipendenza dall’estero che non verrebbe eliminata, si continuerebbe a fare riferimento ad un mercato dell’energia sempre instabile, con costi dell’energia per l’Italia che sono tra i più alti del mondo. Inoltre, appare contraddittorio insistere in questo momento critico su tecnologie ed infrastrutture fossili o non consolidate, e ancora molto costose, come la cattura della CO2 e il nucleare. Che a questo punto rappresentano solo armi di distrazione di massa, a ben guardare l’affiatamento della strana coppia petrolio-nucleare.
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