CRISI CLIMATICA E DISASTRI TERRITORIALI da IL FATTO
Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata
Alberto Ziparo 17/10/2022
L’ultimo report IPCC/UNEP sui cambiamenti climatici lo aveva previsto: gli effetti catastrofici della crisi ambientale sono entrati pesantemente nel nostro quotidiano, e lo stiamo sperimentando soprattutto sotto forma di ondate di calore accompagnate da incendi, o di temporali con “bombe d’acqua” che innescano disastri franosi e alluvionali.
Certo, si sapeva che l’ipercementificazione del nostro Paese avrebbe causato sofferenze particolari al suo territorio. E si conoscevano anche i principali fattori di rischio, in questo caso soprattutto idro-geologico ma anche sismico, di incendi, inquinamenti od obsolescenza e inadeguatezza del patrimonio costruito. Il risanamento e la riqualificazione di un territorio troppo “consumato” dovevano figurare tra i primi punti di qualsiasi programma di mitigazione della crisi ambientale: se le grandi politiche di contenimento degli inquinanti e dei fattori di alterazione eco-climatica richiedono strategie globali, le ricadute sui territori attengono alle politiche locali, comunali o d’area vasta, regionali e nazionali.
Con la formulazione del Green Deal, l’Europa ha dettato le linee programmatiche per la transizione ecologica, quindi predisposto, con il NGEU e i relativi Recovery Plans, le azioni progettuali e gli interventi necessari a supportarla.
Con il suo PNRR l’Italia dispone – tra prestiti e fondi trasferiti – di oltre 200 miliardi di euro da utilizzare in tal senso. Appare quindi ovvio che, a parte il contributo nazionale alle grandi politiche cui si è accennato sopra, una quota rilevante degli investimenti doveva essere destinata a mitigare gli effetti territoriali della crisi ambientale, con azioni di risanamento, riqualificazione e restauro del territorio.
La copertura finanziaria di tali azioni poteva anche essere non troppo problematica: qualche anno fa, difatti, il MISE – non certo un’organizzazione ambientalista o un centro di ricerca di ecologia radicale – aveva quantificato in un importo di poco inferiore al totale messo a disposizione dal PNRR, 190 miliardi di euro, l’investimento necessario a una prima messa in sicurezza dei territori nazionali rispetto ai rischi ricordati, sempre più enfatizzati dall’acuirsi di una crisi ecologica che ha ormai carattere di emergenza.
Lo stesso MISE, per attuare il programma necessario, proponeva un progetto poliennale (decennale o anche ventennale) da avviare però immediatamente. Pena l’esasperazione degli effetti catastrofici sul territorio che già si registravano, ma che erano chiaramente destinati a intensificarsi con tempi di ritorno sempre più ravvicinati.
Nel 2015 l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, anche in base a queste previsioni MISE, lanciò il programma “Casa Italia” per il risanamento e la messa in sicurezza del territorio abitativo e urbanizzato. Se ne parlò solo per qualche mese: probabilmente si decise di non farne più nulla quando il premier e il suo entourage vennero a sapere che si trattava di una serie di piccole azioni di risanamento (rinaturalizzazione, riterritorializzazione, ripristino ecosistemico, disimpermeabilizzazione, consolidamento delle alberature, messa in sicurezza della fauna, ecc.) e non di un numero esorbitante di grandi opere di altrettanto grande impatto mediatico e finanziario.
A sei anni di distanza e con una pandemia (più o meno) alle spalle, il PNRR rappresentava dunque una grande occasione per avviare un progetto di risanamento tanto ampio quanto urgente.
In realtà, a fronte degli oltre 200 miliardi disponibili in totale, e degli oltre 61 espressamente destinati alla “transizione ecologica”, le risorse investite in programmi di risanamento territoriale ammontano a meno di 4,5 miliardi di euro, poco più del 2% dell’importo complessivo. I disastri, le alluvioni, gli allagamenti, le frane, gli incendi, i crolli, che pure non sono mancati proprio mentre i dirigenti ministeriali competenti scrivevano il piano, non hanno spostato nulla a favore di azioni che, più che necessarie, erano urgentissime. La maggior parte delle risorse del PNRR si è usata invece per “dare una mano di verde” a operazioni vecchie, già obsolete ma gestite da grandi imprese e grandi interessi finanziari, che anziché contrastare finiranno per accentuare ulteriormente l’attuale stato di crisi.
Così, a fronte dei (comparativamente) pochi spiccioli spesi per risanare il territorio, abbiamo 31 miliardi per Alta Velocità e Grandi Opere; che diventano quasi 80 con il Collegato Infrastrutture – stesse agevolazioni procedurali e finanziare del Recovery – con cui si recupera gran parte delle opere previste dalla (già definita “criminogena”) Legge-Obiettivo di berlusconiana memoria.
D’altra parte le contraddizioni del PNRR non si fermano a questo: p.es., la più parte delle risorse investite per la “transizione energetica” serve in realtà ad alimentare una sorta di “transizione intrafossile” dal carbone e dal petrolio al gas naturale. Mossa che si è rivelata quanto mai avveduta con lo scoppio della guerra in Ucraina e i conseguenti tagli del gas russo. I quali a loro volta, piuttosto che rappresentare un incentivo a una reale conversione alle rinnovabili, sono usati per giustificare nuove trivellazioni, escavazioni, realizzazioni di opere già in partenza obsolete (leggasi metanodotto per Foligno) che accentueranno la nostra dipendenza anziché attenuarla. Mentre per le energie alternative continuano a presentarsi “problemi autorizzativi”.
Questi peraltro sarebbero facilmente superabili se operatori pubblici e privati, abbandonando la logica affaristica dei “grandi impianti”, si limitassero a seguire le direttive dei Piani paesaggistici, che spesso dicono esattamente dove e in che quantità si possono realizzare pannelli fotovoltaici o aerogeneratori. O se si incentivassero autentiche comunità energetiche che, ab initio, progettino gli insediamenti secondo i caratteri ecosistemici e culturali dei luoghi.
C’è oggi tutto un fiorire di attori locali che curano, tutelano e valorizzano i territori portando avanti “dal basso” opzioni di sostenibilità sociale ed ecologica, a volte anche in contrasto con le grandi istituzioni finanziarie e programmatiche. È una realtà produttiva che vale diversi miliardi di euro l’anno, e che promuove azioni che vanno dalle comunità energetiche alla conversione bio-ecologica dell’agricoltura, dall’eco-turismo esperienziale alla produzione di beni immateriali (conoscenza, educazione, ricerca…), dal recupero del patrimonio territoriale alla sua reimmissione in circuiti di produzione di valore. È a questi attori che potevano e dovevano essere destinate le risorse che il PNRR decentra alle Regioni: la transizione ecologica vera ha bisogno della loro forza visionaria.
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