QUESTIONE ECOLOGICA E SOCIALE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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QUESTIONE ECOLOGICA E SOCIALE da IL MANIFESTO

La legge del senato sull’agricoltura biologica è un grande traguardo

Un primo passo. Il Green Deal 2050 comprende l’obiettivo di una superficie del 25% coltivata a biologico entro il 2030. Oggi la media europea è dell’8,5%, in Italia siamo al 15,5%

Piero Bevilacqua  23.07.2021

Tutti impegnati a coprire di scherno i preparati biodinamici, dopo il voto contrario della senatrice Cattaneo e la sua chiamata a difesa della scienza di colleghi e istituzioni, poco o nulla si è detto della Legge 988 che disciplina l’agricoltura biologica.

Un insieme di norme attese da anni che riorganizza l’intera materia, semplifica le procedure amministrative, introduce l’uso di un marchio nazionale che distingua i prodotti biologici realizzati con materie prime coltivate o allevate in Italia, stanzia fondi per la ricerca scientifica e per l’informazione sui prodotti biologici. E molto altro ancora. Si tratta dunque di un sostegno importante a un settore della nostra economia in forte espansione.

Oggi con circa 2 milioni di ettari siamo ai primi posti in Ue per superfice coltivata nel 2020 abbiamo venduto prodotti per oltre 4 miliardi di euro. Siamo i secondi esportatori al mondo dopo gli Usa, che ci distanziano di poco (2.981mln di euro contro i nostri 2.619) (Osservatorio Sana 2020, Prospettive di mercato e ruolo per il made in Italy, a cura di Nomisma).

La legge approvata al Senato si inscrive in realtà in una più vasta strategia europea del Green Deal Europa, primo continente a impatto climatico zero entro il 2050, di cui costituisce parte e tappa particolare un obiettivo di politica agricola, il raggiungimento di una superficie del 25% coltivata a biologico entro il 2030.

Oggi la media è dell’8,5% mentre noi siamo al 15,5%.

Per chi non lo sapesse, la riduzione dell’agricoltura industriale rientra nel più generale piano di transazione ecologica, perché essa contribuisce per almeno il 30% al riscaldamento globale. Nel giugno scorso la Corte dei conti dell’Ue ha espressamente rimproverato alla politica agricola di Bruxelles i ritardi nella riconversione dell’agricoltura industriale a fini di mitigazione climatica.

Dunque, di fatto, la posizione della senatrice Cattaneo e degli scienziati che la sostengono è avversa alla politica climatica dell’Ue e si pone perfino fuori dai timidi tentativi del piano di riconversione ecologica del governo italiano. E nell’opera di denigrazione dell’agricoltura biologica sono rimasti inosservati risvolti politici di estrema gravità.

Che cosa, infatti, si finisce coll’affermare quando si sostiene che in agricoltura biologica «si usano e autorizzano fitofarmaci a volte più pericolosi per l’uomo, per la fauna e per l’ambiente rispetto ai corrispondenti di sintesi»?

Ho già contestato a Cattaneo, sul piano storico e tecnico-scientifico, le critiche rivolte all’agricoltura biodinamica e biologica nel mio articolo su The Post internazionale (13 luglio), dopo averlo fatto più limitatamente sul manifesto (su cui si veda ora l’intervista ad Alessandro Piccolo, del 15/7) e su Micromega(18/6). Non è un caso che la Cattaneo debba dire «a volte», perché il ricorso a fitofarmaci, è l’estrema ratio, non la regola, come nell’agricoltura industriale.

Gli agricoltori biologici combattono parassiti e malattie con il lancio di insetti utili, arricchendo la biodiversità in azienda, utilizzando la strategia della confusione sessuale, ricorrendo agli strumenti alternativi offerti dalla ricerca scientifica, soprattutto da quella ontomologica, non affidandosi a pratiche superstiziose come cerca di far credere Cattaneo.

Non per nulla, negli articoli in cui si occupa di agricoltura biologica tira fuori la polemica contro il metodo Stamina – una pratica medica fallimentare – come se il tentativo di agronomi, scienziati, imprenditori di praticare un’agricoltura meno devastante per l’ambiente e produrre un cibo più sano sia da annoverare tra le tante pratiche truffaldine e antiscientifiche del nostro tempo. E cosa finisce col far credere quando sostiene che, rispetto a quelli convenzionali, i prodotti biologici «non hanno nulla di più se non il prezzo»?

Intanto chiediamo: ma davvero è la stessa cosa mangiare una pesca fatta maturare con gli ormoni (auxine), per rendere possibile la simultanea raccolta meccanica dei frutti, o una che matura sulla pianta in una azienda biologica? Gettare simile discredito su un ambito importante della nostra economia, significa, oltretutto, colpire il nostro made in Italy alimentare.

Che cosa devono pensare i nostri partner commerciali, centinaia di migliaia di consumatori in Italia e all’estero, se un autorevole membro del Senato italiano degrada questo ramo della nostra economia a una truffa? È l’intera immagine del nostro Paese ad essere colpita, perché l’Italia nel mondo è bellezza e cibo di qualità.

E allora come può l’Accademia dei Georgofili, come può un fisico del rango di Giorgio Parisi, che presiede l’Accademia dei Lincei, come possono tante istituzioni scientifiche sostenere, dietro la Cattaneo, una campagna tanto evidentemente infondata, ingiusta, dannosa per il Paese?

Perché economia e clima sono due facce della stessa medaglia

Paolo Cacciari  23.07.2021

Neanche a farlo apposta, il disastro in Germania è giunto il giorno dopo che il vicepresidente della Commissione Ue, responsabile per il clima, Timmermans, aveva presentato al Consiglio e al Parlamento le sue proposte. Insufficienti (per gli scienziati del clima) a contrastare il riscaldamento globale.

Così il pacchetto di misure battezzato Fit for 55 (come tagliare il 55% delle emissioni climalteranti entro il 2030), ha coinciso con la depressione Bernd, le catastrofiche alluvioni tra Germania, Belgio, Francia e Olanda. Ma neppure queste hanno spento il fuoco incrociato dei lobbisti dei combustibili fossili, degli industriali dell’auto e di molti governi (tra cui l’Italia con le dichiarazioni bipartisan dei ministri Cingolani, Giorgetti e Di Maio) contrari alle misure delle Ue.

Dopo la ingloriosa dipartita del campione negazionista The Donald, le preoccupazioni dei politici sono ora volte alla possibilità che le nuove misure verdi (tipo le tasse sulle emissioni) possano portare degli aumenti dei prezzi dell’energia, dei materiali da costruzione, dei fertilizzanti, dell’alluminio e di materie prime che a cascata si riverserebbero sui generi di prima necessità mettendo in difficoltà famiglie e imprese tanto da scatenare rivolte sociali in stile gilet gialli. Ricordate il loro slogan? «Voi pensate alla fine del mondo, noi alla fine del mese».

Ma ora, che i tempi della catastrofe ecologica (comprese le pandemie endemiche di origine zoonotica) e quelli della sicurezza quotidiana della vita delle persone si sono talmente accorciati da sovrapporsi (pensiamo alle case bruciate in California o alla metropolitana di Zhengzhou), bisognerebbe, una buona volta, avere il coraggio e la forza di uscire dal dilemma economia o vita, lavoro o salute, Pil o Natura. Anche accettando di entrare nella logica del calcolo costi/benefici, andrebbero correttamente conteggiati i danni di un modello di sviluppo suicida, che, per di più, non colpisce tutti allo stesso modo. Ma questa verità, presa come pretesto per non cambiare nulla, nella bocca di chi ha responsabilità di governo, suona come falsa e offensiva. Altra giustificazione farlocca che circola tra politici e commentatori: l’Europa contribuisce «solo» per l’8% delle emissioni di gas serra.

Ma si tace sulla responsabilità storica accumulata nel tempo dagli stati della Ue (secondi solo agli Stati Uniti) e sul fatto che il Pil della Ue è pur sempre il 20% di quello mondiale. Inoltre, nel conto del bilancio delle emissioni andrebbero inserite le merci che consumiamo noi, ma che sono fabbricate in altre parti del mondo. A Napoli, nel G20 sull’ambiente in questi giorni e soprattutto a fine anno a Glasgow nella Cop 26 si dovrà discutere proprio di «giustizia ambientale» e sugli strumenti per realizzarla.

Ben venga quindi, a scala planetaria e all’interno dell’Europa, una discussione sulla equa distribuzione dei «costi» della necessaria riconversione economica, degli apparati energetici ed industriali, dei sistemi logistici e infrastrutturali, dell’uso del suolo e delle filiere agroalimentari, dell’edilizia e così via, reinventando un’economia capace di futuro. Ottima l’idea di un «fondo sociale» per la transizione energetica proposto dal commissario Gentiloni.

Suggeriamo: meglio ancora un reddito di cittadinanza universale incondizionato (finanziato dai profitti di quelle multinazionali che dalla digitalizzazione, dai farmaci, dalla green economy stanno facendo affari a palate) che metta al riparo permanentemente chi è sotto ricatto occupazionale. Sicurezza ambientale ed economica sono due facce di una stessa politica.

Questione ecologica e questione sociale non vanno disgiunte. Ma non si tratta di «mediare» e trovare «una via di mezzo» meno peggio: un po’ di alluvionati e un po’ di ammortizzatori sociali.

L’unico modo per uscire dalla catastrofe ecologica e umana è rispettare un semplice principio logico e scientifico: è l’organizzazione sociale ed economica che deve adeguarsi alle leggi geo-bio-fisiche e termodinamiche che regolano la vita sulla Terra. Se le attività umane non rientrano urgentemente nei confini della capacità di carico della biosfera, i disastri ambientali, semplicemente, si sommeranno a quelli sociali.

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