EXSTINCTION, EVOLUZIONI E BUGIE VERDI da ANTROPOCENE
Extinction, evoluzione e bugie verdi
Howard Moss 08/08/2024
Per questo mese presentiamo tre libri recensiti da Howard Moss sulla rivista mensile inglese «Socialist Standard». Queste opere trattano temi a nostro avviso assai interessanti: una storia cooperativa della vita sulla Terra; un’analisi del processo di estinzione della biosfera da parte del sistema capitalistico; un esame dettagliato delle presunte “benefiche” politiche green.
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Esseri sociali
Selfish Genes to Social Beings. A Cooperative History of Life, di Jonathan Silvertown, Oxford University Press, 2024, pp. 236.
Questo è un libro notevole. Cerca di coprire, in un paio di centinaia di pagine, l’intera storia di quattro miliardi di anni della vita sulla Terra, quindi ovviamente non solo della vita umana. L’autore, specialista in ecologia evolutiva, fa del suo meglio, senza sottrarsi ai necessari tecnicismi biologici, per renderlo comprensibile al lettore comune, ai non specialisti.
Molecole, batteri, cellule, funghi e geni e il loro posto e contributo allo sviluppo e alla continuità della vita sono tutti studiati e spiegati sia nella loro semplicità che nella loro complessità. Il libro indossa con leggerezza le sue conoscenze specialistiche, intervallandole con battute e altri sprazzi di umorismo, in gran parte attraverso analogie con il comportamento umano di tutti i giorni (ad esempio, «gli insetti sono aerei di linea per i microbi, che viaggiano nell’intestino, e proprio come un aereo di linea, alcune parti del velivolo sono più ospitali per i passeggeri rispetto ad altre», oppure «Darwin non vuole che io suggerisca che la natura è un artista della truffa, ma chi può negare che abbia un malvagio senso dell’umorismo?»).
Il punto principale del libro, la conclusione tratta dalla sua scrupolosa ed esperta analisi scientifica, è espresso nel sottotitolo (Una storia cooperativa della vita), ossia l’idea che la vita, tutta la vita, è ed è sempre stata possibile solo attraverso la cooperazione e il lavoro di squadra tra i suoi vari elementi, e questo vale anche per la società e lo sviluppo umano. L’autore seppellisce, se non era già avvenuto, «lo stereotipo della natura dai denti e artigli rossi [di sangue]». In altre parole, dimostra in modo incontrovertibile che l’evoluzione non si spiega con la competizione, ma con la cooperazione che, come viene qui osservato e analizzato, è onnipresente in natura, non solo nei microbi, nelle piante e negli animali, ma anche negli esseri umani.
Quindi, pur riguardando in gran parte la vita pre-umana e non umana, questo studio ha cose importanti da dire sulla vita umana. Illustra il ruolo centrale che la cooperazione riveste – e ha sempre rivestito – nell’interazione umana e come questo si applichi anche alle circostanze più terribili e impegnative, ad esempio alle guerre e ai disastri. Alla base c’è il fatto che, nella maggior parte dei casi, la cooperazione piuttosto che l’egoismo o la competizione conferisce un vantaggio reciproco. Non che gli esseri umani non siano capaci di egoismo, di competizione spietata o di agire da soli, anzi è proprio questo tipo di comportamento – violenza, brutalità e simili – che tende a fare notizia. Ma il punto è che il comportamento cooperativo è molto più fondamentale e profondamente radicato nelle nostre vite – e in tutte le vite – indipendentemente da quanto le circostanze e il sistema socio-economico possano contrastarlo. Come dice l’autore, «la cooperazione sopravvive nonostante il conflitto».
L’autore non è naturalmente l’unico a proporre argomentazioni di questo tipo e non tarda a riconoscere la schiera di pensatori e scrittori che, negli ultimi 20-30 anni, hanno contribuito a mettere a tacere la versione secolare ampiamente diffusa del peccato originale, ossia l’idea che gli esseri umani siano essenzialmente malvagi e machiavellici e che debbano essere tenuti sotto controllo da un’autorità superiore. Come dice lui stesso, «gli scrittori su questo argomento si sono superati nel tentativo di descrivere quanto siamo cooperativi, e ci sono pochi dubbi che i superlativi siano giustificati». Tra i “superlativi” citati ci sono «super-cooperatori» e «specie ultra-sociali», fornendo nelle note e nell’elenco delle “ulteriori letture” i riferimenti alle opere in cui compaiono. Per sottolineare questo aspetto, fa notare che «siamo quotidianamente premurosi nei confronti di persone che non abbiamo mai visto prima e che forse non vedremo mai più» e, se siamo particolarmente infastiditi quando qualcuno è sconsiderato, è perché «è stata infranta una norma»; quindi «il comportamento antisociale rappresenta l’eccezione che dimostra l’esistenza di una regola a favore del sociale». L’altro elemento che sottolinea, nella tipica interazione umana, è «avere una buona reputazione», considerata «importante per attirare i cooperatori e acquisire i benefici, motivo per cui siamo così intensamente interessati a ciò che gli altri pensano di noi».
Nonostante l’intensa attenzione alla cooperazione e alla naturale tendenza umana a quella che chiama «comunità di interessi», l’autore è attento a non assumere alcuna posizione politica esplicita. Tuttavia è difficile non intuire, qualora glielo si chiedesse, che vedrebbe di buon occhio l’idea di un sistema di cooperazione volontaria nella produzione e nella distribuzione, e di una società senza denaro e senza salario, organizzata sulla base del principio «da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni». Dopotutto, egli dedica (un po’ improbabilmente nel contesto) un breve capitolo di questo libro (Un fiume di luce incandescente) all’anarchico e naturalista russo Peter Kropotkin e alla sua opinione che «la giustizia per le masse potrebbe arrivare solo abolendo del tutto lo Stato e sostituendolo con la cooperazione organizzata spontaneamente».[1]
Note
[1] N.d.T. A tale proposito si ricorda il famoso libro in cui PëtrAlekseevič Kropotkin sostiene sostanzialmente la stessa tesi di Silvertown, Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione, trad. it. Elèuthera, 2020.
Fonte: Socialist Standard N° 1439 luglio 2024
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Una storia abbastanza radicale?
Extinction. A Radical History, di Ashley Dawson,OR Books, 2022, pp. 171.
In questa edizione ampliata di un libro pubblicato la prima volta nel 2016, Ashley Dawson fornisce un’analisi eccellente e accessibile di come gli esseri umani abbiano teso a usare e abusare della biosfera nel corso della loro storia e di come, in particolare, questa tendenza si sia accelerata e abbia raggiunto un punto critico negli ultimi 200 anni. L’autore ci illustra in modo convincente come, in questo ultimo periodo, il sistema capitalistico, con la sua incessante spinta alla crescita economica e al profitto, si sia rapidamente impadronito del pianeta, devastando sempre più sia la flora che la fauna, senza pensare a uno sviluppo equilibrato o alla sopravvivenza del mondo naturale. Il risultato, sostiene l’autore, è che il processo di estinzione è stato accelerato al punto che potrebbe essere impossibile impedirlo. Un esempio emblematico che cita è il catastrofico crollo della popolazione di insetti nel mondo economicamente avanzato degli ultimi decenni, che sta avendo effetti disastrosi per la sopravvivenza degli animali nel loro complesso e per l’intero ambiente naturale. Un altro è il dimezzamento del numero di animali selvatici nel mondo nel corso degli ultimi quarant’anni, la cui eliminazione si aggira ormai al ritmo di un centinaio di specie al giorno. «Considerata in termini puramente quantitativi», come afferma l’autore, «la vita su questo pianeta è liquidata a ritmi senza precedenti». L’autore non lascia dubbi su come la ricerca di una crescita continua da parte del capitalismo stia spogliando «il mondo dalla sua diversità e fecondità… minacciando così l’ambiente planetario nel suo complesso».
La scelta cruciale che, secondo l’autore, ci troviamo ad affrontare, è quella, come precisa, fra «trasformazione politica radicale o aggravamento dell’estinzione di massa». Ma in cosa consiste questa trasformazione? Non consiste, ci dice, nel cosiddetto “capitalismo verde”, con cui il sistema attuale cerca di riformarsi attraverso misure di “conservazione” di un tipo o dell’altro. Tali misure, ci dice, «non potranno mai essere più di una misera fasciatura su una ferita aperta». In questo senso si allinea con l’argomentazione incisiva contro le riforme “deep green” [verdi profonde] che si trova nella recente pubblicazione Bright Green Lies, in cui si legge che: «Invece di un movimento per salvare il pianeta, abbiamo un movimento per continuare la sua distruzione» [N.d.T. Si veda la recensione successiva]. E poiché, prosegue, nulla nella natura umana impedisce alle persone di cooperare per creare una società basata su «una connessione e un impegno sociale genuini», possiamo trasformare la società in modo da eliminare la pressione del capitalismo sulle persone (sia lavoratori che capitalisti) che competono tra loro, esercitando così una pressione impossibile sull’ambiente. L’autore si sofferma anche su come l’incessante corsa all’accumulazione e all’espansione, che vede i capitalisti e i loro paesi contrapporsi l’uno all’altro per produrre merci a non finire, non solo porti alla rovina dell’ambiente, ma anche a conflitti militari senza fine e alla distruzione fisica e allo sfollamento delle persone («il regno di morte del capitale», come lo definisce l’autore).
Fin qui tutto bene e incontrovertibile. Ma ciò che deve essere messo in discussione è il contenuto effettivo della «trasformazione politica radicale» che viene proposta. Dopo aver scartato l’idea di un programma di conservazione all’interno del capitalismo per salvare l’ambiente, l’autore invoca «un programma di decrescita per il Nord globale» al fine di un beneficio, in qualche modo, per i lavoratori dei paesi più poveri del mondo capitalista (“il Sud globale”). La sfortunata implicazione è che i lavoratori dei paesi capitalisti avanzati stiano già abbastanza bene. E c’è anche la prescrizione che «i ricchi dei paesi del Sud globale devono ridurre i loro consumi». Ma non ci viene detto come tutto questo avverrà. Presumibilmente, non attraverso un’azione politica democratica della maggioranza dei lavoratori del mondo, per trasformare il sistema di mercato, denaro e salari in un sistema diverso di cooperazione volontaria per la produzione, la distribuzione e il libero accesso a tutti i beni e servizi a livello globale, cosa che non viene mai menzionata. L’autore raccomanda invece una «tassa sulle transazioni finanziarie del tipo proposto da James Tobin» (una “Robin Hood tax”), che, si afferma, «genererebbe miliardi di dollari per aiutare le persone a conservare i punti vitali della diversità globale». E, naturalmente, c’è la vecchia castagna di coloro che sostengono la riforma del capitalismo: il reddito di base universale (qui chiamato «reddito universale garantito»). Sono tutte riflessioni condivisibili, ma, dopo un attacco a tutto campo, pienamente giustificato e mirabilmente argomentato, al capitalismo e al suo funzionamento, ciò che abbiamo, in effetti, non è una proposta per rinunciare al sistema di mercato (che è il capitalismo), ma maniere per cercare di farlo funzionare in modo diverso, più favorevole. E questo dopo che ci è stato assicurato che il capitalismo non può essere riformato, poiché la sua stessa natura è antitetica al benessere umano e ambientale, e deve essere eliminata.
Proprio alla fine di questo libro, nel riflettere su quale tipo di fine desideriamo abbia il capitalismo, l’autore afferma: «Il capitalismo non è eterno; è un sistema economico specifico fondato su un insieme di assetti economici e valori sociali storicamente particolari». Tutto ciò, come molto altro in questo libro, è innegabile, ma se ci dev’essere una fine del capitalismo, come speriamo ardentemente, non può avvenire attraverso riforme o riorganizzazioni – per quanto ben intenzionate – dei suoi dettagli o della sua organizzazione. Bisogna eliminarlo, al 100%.
Fonte: Socialist Standard N° 1426 giugno 2023.
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Bugie verdi
Bright Green Lies. How the Environmental Movement Lost Its Way and What We Can Do About It, di Derrick Jensen, Lierre Keith e Max Wilbert, Monkfish Publishing, pp. 473.
«Invece di un movimento per salvare il pianeta, abbiamo un movimento per continuare a distruggerlo».
La citazione sopra riportata riassume il tema di questo libro che getta il suo sguardo, sia dal punto di vista politico che ecologico, molto indietro nel passato e si proietta in modo affascinante nel futuro. È sicuramente una lettura imperdibile, un potente, eloquente e stimolante atto d’accusa nei confronti della società capitalistica industriale, in realtà di tutte le società umane gerarchiche che si sono sviluppate negli ultimi 10-12.000 anni. Spiega, in termini convincenti – offrendo prove inconfutabili – come, dall’avvento dell’agricoltura stanziale e della produzione in eccesso, delle gerarchie oppressive, degli insediamenti urbani e del militarismo che ne sono derivati, la Terra sia stata massicciamente e sempre più depredata in nome dell’eccezionalismo umano. Ora siamo giunti alla fine del gioco, insistono gli autori, a meno che non subentri una coscienza immediata e diffusa di ciò che l’umanità sta facendo in nome della crescita economica, e che porti all’azione. Eppure questo, come afferma il titolo del libro, non fa parte dell’attuale agenda “verde”, che viene vista [dagli autori] come non meno dannosa dell’uso dei combustibili fossili nel continuare a estrarre dall’ambiente risorse che non può permettersi di perdere e nel distruggere, nel processo, il tessuto geologico della Terra e le sue creature e organismi viventi non umani.
Gli autori portano una massa di prove schiaccianti per dimostrare che anche le politiche e le azioni più proclamatamente “verdi” non potranno mai essere altro che un contentino al mantra della crescita del capitalismo industrializzato, che vede la Terra solo come un obiettivo da mercificare, per produrre beni da vendere sul mercato. I due gruppi di lavoro smontano sistematicamente – e in molti casi in modo sprezzante – le argomentazioni addotte per porre rimedio a questa situazione da guru del “deep green”, come Naomi Klein, Lester Brown e Mark Jacobson (quest’ultimo presentato come «qualcuno che lavora duramente per distruggere il pianeta al fine di salvarlo»). E, nella descrizione, mostrano una impressionante conoscenza, sia generale che dettagliata, del perché tutti i numerosi tentativi di attività apparentemente rispettose dell’ambiente siano tutt’altro e servano solo ad aumentare ulteriormente il cambiamento climatico e la distruzione dell’ambiente. Sotto lil loro sguardo, nessuna delle politiche “verdi”, ampiamente presentate come benefiche, sfugge a un’analisi dettagliata e schiacciante. Così il loro libro, nelle sue varie sezioni, smonta e condanna come “menzogne” le virtù proclamate, tra le altre “soluzioni” verdi, dei pannelli solari, delle turbine eoliche, dell’immagazzinamento di energia verde, del riciclaggio, delle luci a LED, delle auto elettriche, dell’energia idroelettrica, della biomassa (descritta come «tagliare e bruciare le foreste») e dell’energia geotermica.
In tutti questi casi, la loro argomentazione fondamentale, sostenuta da abbondanti prove e analisi, è che la complessa infrastruttura necessaria per creare, gestire e mantenere tutte queste attività e tecnologie “rinnovabili” si basa in realtà sui combustibili fossili che comportano uno sfruttamento selvaggio delle fragili risorse della Terra, sia biologiche che geologiche, almeno pari a quello che avviene con i sistemi di produzione “non verdi”. In altre parole, queste tecnologie “verdi” continueranno a portare avanti quella che definiscono «l’orgia della distruzione planetaria». Continueranno a fare a pezzi la Terra per procurarsi i materiali per i loro progetti, continueranno a distruggere fino all’oblio le strutture naturali del pianeta formatesi nel corso di milioni di anni, continueranno a far esplodere montagne, a trasformare le foreste in miniere e ad avvelenare l’acqua, l’aria, il suolo, la fauna selvatica e la popolazione umana. Questi sono tutti, secondo le parole degli autori, «assalti contro il mondo vivente» che causano «devastazione su scala industriale», e tutte le affermazioni relative alla salvezza dell’ambiente attraverso il loro utilizzo vengono liquidate come «vernice verde», come «ciliegina sulla torta» dei fatti e delle prove disponibili.
Il punto, sostengono, è che, per quanto i “bright greens” [i “verdi brillanti”] possano essere sinceramente preoccupati per l’ambiente, la realtà di ciò che propongono e possono fare non potrà mai equivalere a qualcosa di più di un “greenwashing”, dato che l’attuale sistema di produzione industriale non può, per sua natura, fare altro che subordinare la vera cura della Terra e della sua flora e fauna agli imperativi della crescita e della produzione per il profitto. La sua priorità è «alimentare l’economia piuttosto che salvare il mondo reale». I tentativi di suggerire il contrario sono, insistono gli autori, “fantasie verdi”, né più né meno che illusioni che forniscono conforto a scapito della realtà. Tutto ciò si riassume nella loro frase: «Non è il nostro modo di vivere che ha bisogno di essere salvato: è il pianeta che deve essere salvato dal nostro modo di vivere».
Quindi, finiremo all’inferno su un carretto, comunque vada? Beh, più o meno, secondo questo libro, se non fosse che verso la fine c’è un capitolo intitolato Reali soluzioni, in cui gli autori suggeriscono come potremmo invertire o almeno mitigare parte del crescente disordine che hanno così faticosamente e appassionatamente descritto in dettaglio. Il problema è che questa è la parte meno soddisfacente e meno convincente del libro. Infatti, ciò che hanno da offrire sono soprattutto appelli ai singoli o ai gruppi affinché si uniscano in forme di azione ambientale («trovate qualcosa che amate e difendetelo. Un ruscello, un gruppo di alberi, un uccello canoro prossimo all’estinzione»), o un appello a «movimenti di massa… usando ogni tattica: pressione politica, sfide legali, boicottaggi economici, disobbedienza civile e qualsiasi altra cosa si renda necessaria», o, soprattutto, appelli ai governi affinché adottino varie politiche che frenino sia la crescita industriale che quella demografica (ad esempio, «i governi devono smettere di sovvenzionare attività distruttive dal punto di vista ambientale e sociale»). Questo, dopo aver inizialmente riconosciuto che i governi sono parte integrante del problema nel loro ruolo di gestione e sostegno del sistema di crescita/mercato che porta proprio ai problemi che essi detestano e pertanto non vogliono e non possono «agire contro la logica del profitto». O forse, nonostante l’affermazione, in qualche modo non ne sono pienamente convinti e pensano che possa andare, in qualche modo, diversamente, forse allo stesso modo in cui i “verdi brillanti” che criticano non vogliono credere che il sistema del profitto non ammetta alternative alla crescita economica e allo sfruttamento sfrenato dell’ambiente terrestre. Forse, in fondo, Jensen, Keith e Wilbert pensano, o almeno sperano, che i governi possano in qualche modo essere neutrali e avere il potere di regolare a loro piacimento il sistema di produzione fondato sul profitto e il mercato.
La realtà è che il capitalismo, con la sua mercificazione di ogni cosa, come questo libro ci informa in modo così acuto, ha seriamente danneggiato e forse sta per distruggere completamente l’ambiente naturale. Ma il modo per evitare che ciò continui e invertire la rotta, se necessario, non è quello di modificare il modo in cui viviamo e lavoriamo oggi, bensì di creare un movimento politico democratico che esprima la volontà della maggioranza della popolazione mondiale di organizzare collettivamente una società senza leader e senza Stato, che riconosca la necessità di produrre e distribuire in modo sostenibile e che sia sensibile non solo alle esigenze della specie umana, ma anche all’intero ambiente di cui facciamo parte, compresa la sua geologia, la sua flora e la sua fauna.
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