Quanto vale una laurea. Il nostro dibattito
28 febbraio 2018
Cari e care,
non so se avete letto ieri su Repubblica le proposte di Massimo Cacciari sull’Università. Ve ne riporto un pezzo:
«Puntare davvero su un modello competitivo; rendere reale l’autonomia delle sedi universitarie; permettere a ciascuna di elaborare proprie strategie dall’offerta didattica alla selezione del personale docente, alla definizione delle proprie vocazioni primarie, incentivandone cioè la specializzazione. Con l’eliminazione del valore legale del titolo di studio, i giovani si orienterebbero naturalmente a quelle sedi che sembrino garantire una formazione migliore ed essere in rapporto più forte col mondo produttivo. La proliferazione anarchica delle sedi nel corso dei passati decenni è essenzialmente il prodotto della mancata autonomia reale delle università, le quali, invece, nella situazione che la mia modesta proposta auspica, si troverebbero obbligate a cercare davvero i migliori, anche dal punto di vista delle capacità di ottenere per le proprie ricerche finanziamenti pubblici e privati. L’autonomia è l’uovo di Colombo; nessun potere centrale potrà mai stabilire chi merita e chi no, nessuna combinazione di Politica e Scienza. Lo Stato dovrà limitarsi a stabilire alcune regole precise in materia di diritto allo studio, obbligando gli Atenei a perseguirle».
Insomma: più competizione, più autonomia, eliminazione del valore legale del titolo di studio, rapporto più strutturale col mondo produttivo. Niente più e niente meno che il modello-Renzi. Questa sinistra (lo so è parola grossa!) non si smentisce mai. […] Un abbraccio
Tiziana Drago
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28 febbraio 2018
[…] Massimo Cacciari ha abbandonato diversi anni fa l’università pubblica (IUAV Venezia) per trasferirsi all’università privata S. Raffaele di Milano mi sembra quindi che esalti il modello della ditta privata in cui lui lavora; “ditte” che sono purtroppo in molti casi da anni finanziate dallo stesso Stato che lascia senza risorse le università pubbliche…
Anna Marson
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28 febbraio 2018
Ma l’articolo lo ha scritto un untorello di Confindustria? Che fine hanno fatto i miei vecchi compagni/maestri (Ohibò) di operaismo Tronti, Cacciari? […]
Grazie Tiziana, mi è cresciuta la bile
Piero Bevilacqua
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28 febbraio 2018
Cara Tiziana,
questa non è sinistra, ma una deriva liberista che si è impadronita anche dell’alta formazione tutta, andando alla ricerca di eccellenze, di privatizzazioni, creando disparità insopportabili tra le varie sedi universitarie ecc. ecc. Io sono di sinistra (perché tu no?) ma non mi sento affatto rappresentata dalle posizioni di Cacciari e ho sempre combattuto strenuamente contro l’abolizione del valore legale dei titoli di studio così come contro una malintesa autonomia universitaria che ha determinato, tra l’altro, disparità insopportabili nelle condizioni di lavoro dei docenti (parlo di orari e di retribuzioni, almeno quanto alla parte ‘premiale’) pur appartenenti a fasce identiche a livello nazionale. Nel silenzio assordante di tutti i sindacati.
Ma tutto, anche le scelte apparentemente più innocenti, è stato fatto per mandare al macero l’università e incentivare la crescita di un localismo (ah! Le chiamate ‘dirette’ dei tanti in possesso di abilitazione scientifica nazionale…) che permette di dare i posti a chi sia localmente più ‘buono’ e ossequioso nei confronti di chi ha il potere di sceglierlo o meno (dato che non c’è trippa per i gatti e che il turn over bloccato al 30% per anni ha desertificato le sedi e non permette di ‘chiamare’ o di chiedere un concorso per ogni ‘locale’ in possesso di abilitazione). Altro che “università” nell’accezione etimologica del termine! Altro che circolazione da una sede all’altra (con gli scambi e la crescita nella qualità della ricerca e della didattica che ciò comporta(va)!). Un tempo si criticava l’università dei baroni, oggi ci sono pochi (e sempre più sull’orlo della pensione) professori ordinari (parlare sempre di baroni, in particolare per le facoltà umanistiche, è davvero improprio) e tantissimi servi della gleba (leggi: professori a contratto locali o ricercatori in attesa di essere ‘premiati’ per diventare associati).
Non credo che ci sarà lo spazio, il 16 marzo, per parlare di tutto ciò, dato che lo si dovrebbe fare da una parte in modo da illustrare bene questi meccanismi perversi, dall’altra in modo documentato (dati alla mano) per mostrare quanto l’università italiana sia stata desertificate e mortificata (pur continuando a formare ‘cervelli’ che all’estero sono apprezzati e pur producendo una ricerca di qualità benché meno finanziata che in altri paesi). Però qualche accenno varrà la pena di farlo. Cordialmente
Cristina Lavinio
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28 febbraio 2018
I sinistri
Il cinismo di Cacciari, reso furioso da un’acutezza indubbia, è perfetto nel mostrare lo scheletro del pensiero dominante sotto cui ci dibattiamo. Ciò che ci ostacola non è il troppo mercato, ma il poco. Come quei pallidi socialdemocratici odierni che pretendono di combattere il monopolio con la concorrenza, o gli economisti decorati che asseriscono di sconfiggere disoccupazione e povertà con il liberismo.
I lacci e lacciuoli che Cacciari raccomanda di tagliare senza indugi sono quelli ‘statalisti’: valore legale, controllo-assistenza(?), anarchia e irrazionalità degli assistiti, perché irrazionale e parassitario è ogni pretesa di controllo collettivo consapevole. Viceversa, razionale, efficiente e finalmente democratica è la logica impersonale(?) del mercato e del profitto. La coerenza del pensiero non bada alla verifica dei dati di fatto. Parlo delle cosiddette eccellenze. Non dico di ricordarci del vecchio Benjamin (“tutta la scienza e l’arte devono la loro esistenza non soltanto alla fatica dei geni che l’hanno create, ma anche all’anonima servitù dei loro contemporanei”), ma più modestamente che ogni eccellenza, certo apparizione miracolosa, è impossibile senza un tessuto ampio e ricco, non è un fungo solitario.
Si noterà che tutto il paradigma esposto da Cacciari poggia sull’autonomia, svelandone la vera genesi. Siccome la verità è sempre storica, io rimango convinto che nell’attuale fase riprendere in mano questa bandiera sia ambiguo e, infine, subalterno. Tanto più, come dicevo qualche tempo fa nelle nostre discussioni, che sono convinto della necessità generale, cioè politica, di nuove forme di centralizzazione, coordinamento.
Velio Abati
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28 febbraio 2018
Sapete meglio di me: il neoliberismo non è una spinta storica banale o di breve periodo. È in sintonia con l’aggressività umana, con la dura selezione, con una interpretazione del darwinismo, con narcisismi caratteriali, con asfissianti ma comode identità di ruolo; con profitti, con misantropia, con odio della cooperazione, con l’ingordigia del denaro. E insomma si tratta di una spinta storica molto difficile da contrastare.
Noi, piccole ginestre leopardiane, dobbiamo provarci, pena un nuovo diffuso conflitto armato e una ulteriore distruzione dell’ambiente.
Cacciari, se ne fotte. È uomo cinico.
Luigi Vavalà
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28 febbraio 2018
Cara Cristina,
il 16 marzo si parlerà sicuramente anche di questo. Il senso della nostra iniziativa è, tra le altre cose, proprio quello di abbattere insopportabili steccati tra scuola e università: anche perché unico, pur nelle specificità della sua applicazione, è il paradigma neoliberista che sottende il progetto di devastazione del sistema pubblico di formazione e ricerca. Del tutto ovvio (spero…) che io mi consideri “di sinistra”: il punto è che, allo stato attuale, credo ci sia un problema di rappresentanza parlamentare, dal momento che la cosiddetta sinistra ha da tempo introiettato l’orizzonte che avrebbe dovuto combattere.
Cari saluti,
Tiziana Drago
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28 febbraio 2018
Care e cari,
come contributo alla discussione vi invio [cfr. infra] questo vecchio articolo del 2012 sulla questione dell’abolizione del valore legale della laurea. Un tema per fortuna seppellito da qualche anno, il che mostra quanto sia nuovo e aggiornato il confindustriale Cacciari.
Piero Bevilacqua
QUANTO VALE UNA LAUREA
Il presidente del Consiglio e il suo governo hanno dunque deciso di rinviare la decisione di abolire il valore legale della laurea universitaria. Non trattandosi di una materia che rivesta particolare urgenza c’è tutto il tempo per decidere con ponderazione ed anche per aprire una consultazione nel Paese. Mi sembra una scelta saggia, espressione, forse, di quella saggezza che Asor Rosa ha ricostruito analiticamente sul “manifesto” (19 gennaio 2012) come pilastro di questo esecutivo e dell’operazione politica generale su cui si reggono oggi le sorti dell’Italia. Potrei anche aggiungere che la scelta inaugura un apprezzabile stile di coinvolgimento democratico degli italiani, che oggi vorremmo esteso ad altre questioni: per esempio ai problemi della Val di Susa, al conflitto sul TAV, a cui sinora si è risposto con la militarizzazione del territorio e con la criminalizzazione di una intera popolazione.
Ma non sono sicuro di poter essere così magnanimo, per le ragioni che dirò alla fine. Debbo, peraltro, aggiungere che se si fosse proceduto immediatamente all’abolizione del valore legale, il governo avrebbe compiuto un atto di imperdonabile arroganza. E avrebbe ricevuto un contraccolpo di non trascurabile ampiezza. Come avrebbe potuto, dopo tutto quello che è successo, con il precedente esecutivo? Rammento che il governo Berlusconi, non ha soltanto, per quasi quattro anni, coperto di vergogna e di disonore il nostro paese, ma ha inferto colpi micidiali, i più gravi in tutta la storia della Repubblica, all’intero sistema dell’istruzione. Ha gettato letteralmente sul lastrico la scuola pubblica, dalle elementari alle superiori, ha ridotto nelle condizioni forse più precarie della sua storia recente l’Università.
Oggi gli studenti italiani hanno sempre meno borse di studio per poter frequentare i corsi, pagano le tasse più elevate d’Europa dopo quelle del Regno Unito e dell’Olanda, ricevendo servizi sempre più scadenti per assenza cronica di personale amministrativo, spazi collettivi, orari delle biblioteche, rarefazione dei docenti. Al tempo stesso migliaia di giovani con in tasca la laurea con lode, dottorato, master vari, conseguiti talora anche all’estero, non sanno dove sbattere la testa, sono gettati nella più grave angoscia che una persona possa subire: la consapevolezza di avere alle spalle anni e anni di studi, di possedere saperi, idee, energie volontà di essere utile al proprio paese e non sapere che cosa fare un giorno dopo l’altro. E a questa condizione, a tale drammatica situazione, nella sua prima uscita sui problemi dell’Università, il governo avrebbe davvero potuto rispondere con la grave decisione di abolire valore legale alla laurea?
Ma entriamo nel merito della questione. Le argomentazioni più serie a favore dell’abolizione non reggono alla prova. Sostengono i fautori di tale scelta, che nei concorsi pubblici il voto di laurea altera la corretta valutazione dei candidati, premiando spesso gli immeritevoli che hanno strappato a buon mercato, in qualche Università di serie b, un alto voto. L’abolizione del valore legale metterebbe tutti in condizioni di parità. A questa apparentemente giudiziosa obiezione si possono tranquillamente fornire più risposte. Intanto, quello sollevato, è un problema che riguarda le norme sull’accesso alle professioni, le modalità con cui vengono valutati curricula, titoli, nei diversi concorsi. È lì che caso mai bisogna intervenire se si vuole essere più certi di premiare il merito, ma il valore legale della laurea non c’entra affatto. D’altronde, una cosa è la formazione universitaria, un’altra cosa sono le professioni. Per esempio, per l’accesso dei laureati all’insegnamento scolastico i legislatori italiani hanno di volta in volta varato dispositivi di “abilitazione” alla professione, che si aggiungevano alla semplice laurea e fornivano un vantaggio concorsuale a chi la conseguiva. D’altra parte, nei concorsi pubblici si valuta la prova a cui i candidati sono sottoposti, non è certo il voto di laurea, da solo, a decidere della selezione. E le norme variano comunque da professione a professione. Gli abolizionisti ritengono invece che senza il condizionamento della laurea la valutazione sarebbe più libera, meno condizionata e premierebbe di più il merito.
Ma è davvero così? Faccio notare che un giovane uscito dall’Università italiana ha svolto – a seconda della Facoltà – almeno tra 30 e 50 esami per conseguire la laurea. È stato cioè sottoposto alla valutazione di decine e decine di professori di diversi insegnamenti e ha subito il filtro legale di almeno due commissioni di lauree, se ha conseguito triennale e specialistica. Dunque ha superato innumerevoli “piccoli concorsi”. Non c’è merito alla fine di una tale carriera? Perché queste numerose verifiche di formazione e preparazione non dovrebbero avere più per noi una validità legale, utile per valutare il merito di un candidato? Noi ci affidiamo alle cure di un medico perché ha vinto il tale concorso o perché sappiamo che è passato per lunghi studi e ha superato prove e verifiche accademiche lunghe e ripetute? Gli abolizionisti, ribattono: ma perché una laurea conseguita in una Università marginale deve avere lo stesso valore di una guadagnata in un ateneo di antico e riconosciuto prestigio?
La risposta è, innanzi tutto, che le Università realmente marginali sono davvero poche nel nostro paese. Oggi, che si emarginano quelle telematiche, lo sono ancor meno. Dobbiamo allora colpire e svalutare l’intero sistema universitario italiano? E come se a una persona che zoppica da un piede si prescrivesse il taglio di tutte e due le gambe. Ma quello che gli abolizionisti e in generale i “riformatori neoliberisti,” ispiratori spesso di queste amenità, non considerano è che le Università italiane non sono state create semplicemente per consentire ai cittadini di accedere ai concorsi, ma incarnano un percorso di formazione. Sono un patrimonio pubblico, che si è consolidato nel tempo, che è fatto della storia delle varie discipline scientifiche, delle diverse scuole accademiche, dei saperi, delle norme e dottrine destinate a formare le classi dirigenti del paese. Le università, da noi, più che altrove, sono la sede storica delle diverse comunità scientifiche. In questo grande collettivo di studi si sono formati e si vanno formando non solo dei professionisti, ma il corpo intellettuale della nazione, con la sua identità e i suoi valori condivisi.
Qui risiede la legalità, nel senso più alto, dei saperi che il nostro paese produce con la sua straordinaria e creativa operosità. Che senso ha, dunque, smembrare questo patrimonio in cui una parte estesa degli italiani riconosce le sue conquiste più alte? Che senso ha svalutare un lascito straordinario del nostro passato, ingiustamente vilipeso negli ultimi tempi per episodi certamente gravi di corruzione, ma che solo il moralismo indiscriminato e il neoliberismo interessato hanno potuto trasformare in una generale svilimento del nostro sistema formativo?
Ma ostinatamente si perora la necessità di creare una “pluralità di agenzie di accreditamento e di certificazioni a livello nazionale dei percorsi formativi”, come si continua a dire. Si vogliono giurie esterne a quelle già esistenti. Queste garantirebbero il riconoscimento del merito. Molti dirigenti di Confindutria spingono in tale direzione, e così alcuni economisti, mai paghi dei fallimenti sotto cui sono state seppellite le loro misere dottrine. Davvero, in Italia, questa sarebbe una soluzione desiderabile? In Italia, paese di antica e lacerante frammentazione? Paese storicamente alle prese con i più gravi problemi di legalità civile di tutto l’Occidente? Si abolisce valore a un titolo garantito da un lungo processo pubblico e lo si mette in mano agli interessi dei privati? Qual è la ratio, se non la superstizione neoliberista, che non vuol vedere l’infinita serie di fallimenti di cui ha costellato la recente storia del mondo? In realtà si vuole continuare a colpire tutto ciò che è pubblico, deregolamentare tutto ciò che è fissato in norme di valore collettivo, come si fa in altri campi: dai contratti nazionali del lavoro agli articoli della Costituzione. Credo che all’intelligenza dei lettori del Manifesto posso risparmiare ogni mio commento. Aggiungo solo che è con passi come questi, demolendo un presidio pubblico come la laurea, che si tende a piegare tutte le relazioni a logiche contrattualistiche private, a rapporti dare/avere, e si avanza verso il dissolvimento del tessuto culturale del paese come comunità nazionale.
Devo, tuttavia, concludere con un chiarimento. Tutte le considerazioni sin qui svolte si sono rese necessarie perché ho dovuto stare al gioco e prendere sul serio anche alcune fandonie neoliberali, che non meriterebbero alcun commento. Ma quel che occorre dire, e avrei dovuto dirlo subito, è che la questione del valore legale della laurea è solo e semplicemente una astutissima manovra diversiva del governo. Nulla di più. Altro che saggezza, caro Asor, qui si tratta di astuzia raffinata. Con l’aggiunta di tanta professionalità. Il professor Monti e alcuni suoi ministri hanno studiato marketing o comunque ne sono esperti. Oggi l’Università, ha un disperato bisogno di soldi, di personale tecnico e amministrativo, di nuovi docenti e ricercatori, di Dottorati, di borse di studio. E che cosa orchestra il governo? Tira fuori un coniglio bianco dal cappello per incantare la folla, per dare in pasto ai furori contrapposti questo bel tema e distrarli per un po’ dai problemi in cui annaspa l’intero sistema formativo nazionale. Non ci caschiamo. Il ministro Profumo non si faccia illusioni. Metteremo le questioni reali dell’Università al centro dell’attenzione e non sarà facile farci distrarre con qualche trovata pubblicitaria.
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28 febbraio 2018
Carissimi,
purtroppo il tema non è seppellito… Ancora una volta, la scuola offre un’esemplare cartina al tornasole. Il valore legale del titolo di studio a scuola è già stato abolito di fatto. Non è più necessario abolirlo per legge, cosa che scatenerebbe un fastidioso (e inutile) polverone. Lo hanno abolito di fatto e l’opinione pubblica neanche se n’è accorta. Sono geniali. Il numero chiuso all’università, con i test fatti ad aprile, due mesi prima della maturità. La certificazione delle competenze ad opera di agenzie esterne. La valutazione Invalsi obbligatoria fuori dall’Esame di Stato.
Ma, attenzione, tutto questo sta arrivando anche all’Università. Le competenze (con relative certificazioni esterne) incalzano. Cacciari è stantio solo perché ancora straparla, e non ha capito che il metodo da usare è quello del ‘punteruolo rosso’, cioè lo svuotamento dall’interno mentre nessuno se ne accorge.
Anna Angelucci
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28 febbraio 2018
Verissimo, purtroppo!
All’Università sono arrivati i TECO (corrispondenti all’INVALSI): per ora non sono obbligatori, ma i primi della classe (cosiddetti Atenei di eccellenza) si offrono di buon grado.
Io in questi giorni sto combattendo come posso sul fronte “certificazioni di competenze” per la conoscenza del latino e del greco: sostanzialmente, alcune agenzie (di affidabilità scientifica nulla) stanno contattando le Università per proporre pacchetti di test da “somministrare” agli studenti, che certifichino la competenza linguistica nelle lingue antiche (come fossero lingue moderne, parlate), con tanto di B1, B2, ecc. È il ricorso a un Antico pensato come ludico e familiare, depotenziato di tutta la salutare distanza da noi e di tutta la sua carica straniante. Se passa questa cosa, siamo alla catastrofe! Ma pare che i latinisti abbiano già ceduto alle lusinghe della certificazione… Ho risposto che la certificazione la fornisce già la scuola secondaria: se l’università accoglie la certificazione depotenzia ulteriormente la funzione educativa della scuola. Mi è stato risposto che solo così gli antichisti possono competere (sigh!) con l’inglese…
Un saluto sconsolato,
Tiziana Drago
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28 febbraio 2018
Cara Tiziana,
[…] sono d’accordo con quanto dici, solo che – vedendo il programma del convegno del 16 marzo – mi sembra che la presenza di interventi specifici sull’Università sia molto minoritaria (eppure, ripeto, anche solo per informare, ci sarebbe molto da dire; e ci sarebbe da illustrare meglio le connessioni dell’unico disegno perverso che vuole liquidare scuola e università STATALI -dire ‘pubbliche’ non basta più- e far considerare irrilevante qualunque formazione che non sia immediatamente finalizzata al ‘mercato del lavoro’). Da anni, occupandomi di scuola pur essendo all’università, ho tentato in varie sedi di parlare delle connessioni, ma ho sempre trovato sordità speculari: agli insegnanti viene spesso l’orticaria a sentir parlare di Università e, viceversa, molti, troppi universitari non sanno nulla di scuola o, peggio, guardano alla scuola dall’alto in basso. Per cui è sempre difficile trovare (o anche solo vedere) convergenze.
Un caro saluto
Cristina Lavinio
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1 marzo 2018
Grazie a Piero Bevilacqua per aver richiamato a tutti che l’abolizione del valore legale del titolo di studio è un evergreen della destra. Cacciari non fa più discorsi di sinistra da molto tempo e, come giustamente osserva Anna Marson, nel caso in questione fa pubblicità alla ditta. La sua modesta ricetta presuppone un modello educativo di tipo anglosassone cui manca un elemento fondamentale: la competizione vera, quella determinata dalla competizione sulle risorse, un modello che l’Italia non sarà mai in grado di fare proprio. La cosiddetta autonomia degli atenei vige dal 1991 e non ha prodotto i miracoli che avrebbe dovuto generare. Ha soltanto determinato un’ingessatura degli organici, esasperando i difetti di un sistema molto autoreferenziale e poco trasparente, come molta parte della pubblica amministrazione. Il definanziamento ha fatto il resto. Per chi non l’avesse letto vi giro, l’articolo di Settis che è apparso sul Fatto. Cristina Lavinio ha ragione nel sostenere che in genere gli universitari considerano la scuola con una certa sufficienza, ma anche in quel mondo qualcosa sta cambiando. Nessuno avrebbe mai pensato che si potesse arrivare ad uno sciopero. La piattaforma di “sbloccoscatti” non ha solo rivendicazioni economiche. Per il futuro sarei ottimista. […]
Buona giornata.
Lucinia Speciale
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1 marzo 2018
La STORIA nel suo dispiegarsi, spiega.
GIOCO DI SPECCHI: Alla mancanza di coesione tipica delle società primitive si supplisce con una centralizzazione del potere gerarchico, basata su una grande Bugia (la prima False Flag della storia): un indecente inciucio tra re e sciamani, che si legittimano a vicenda. Questa situazione rimane stabile fino allo sbugiardamento della chiesa da parte di Galileo, dal cambio di politica sociale del potere temporale a causa della controriforma e della rivoluzione industriale, e del pensiero illuminista.
In Inghilterra tra il XVII ed il XIX secolo si recintano, le terre demaniali, fruite liberamente dalla comunità (acquatico, legnatico, pascolatico, erbatico), a favore dei proprietari terrieri della borghesia, creando una massa di lavoratori disoccupati, la manodopera a basso costo che sarà quindi impiegata nel nuovo ciclo produttivo industriale. Questa volta si ricorre alla copertura di intellettuali e filosofi per convincere i sudditi ad accettare il nuovo paradigma liberista. Smith, non solo criticò le posizioni mercantiliste, ma sostenne che il singolo, perseguendo liberamente il proprio personale interesse, opera in modo utile all’intera società come se fosse indotto a ciò da una «mano invisibile». P
ur affermando la necessità di un intervento dello Stato in alcuni settori, quali l’istruzione primaria, sostenne che, in generale, è preferibile la ricerca privata dell’interesse personale a regolamentazioni quali premi alle esportazioni o restrizioni alle importazioni. Ancora esempi: si utilizzò il Barocco come copertura della Controriforma; il Romanticismo, e l’Idealismo (che nega ogni libertà personale), come copertura del concetto di storia, concetto di nazione che supera quello di popolo (che era un concetto illuministico… popolo = persone che vogliono stare insieme; nazione = persone che devono stare insieme). La vera realtà della società in cui viviamo è data, secondo Marx, dai conflitti socio-economici, che vedono sempre contrapposte una classe dominante (quella che controlla i mezzi di produzione) e una classe oppressa: ed è questa struttura economica a determinare tutte le altre manifestazioni umane, incluse le idee, che nel loro complesso costituiscono la sovrastruttura ideologica. Per Marx l’ideologia è una rappresentazione capovolta della realtà sociale, il cui scopo è elaborare le illusioni della classe dominante su sé stessa e nascondere i suoi interessi particolari dietro la maschera di ideali universali. Giudicare un’epoca o una classe sociale dalle sue idee ‒ ossia dai sistemi filosofici, morali, politici e giuridici che elabora ‒ equivale a giudicare un individuo da ciò che dice o pensa di essere e non da ciò che è realmente.
Mentire, inoltre, – come ha sostenuto Kant – comporta, trattare gli altri come strumenti, e quindi mancare di rispetto nei confronti degli esseri umani, violando così i requisiti minimi della convivenza sociale. La bugia mina il vincolo basato sulla fiducia reciproca tra i governati, e tra questi ultimi e i governanti. È proprio questo vincolo morale – non giuridico- formale – ad essere in crisi oggi, laddove la menzogna sembra aver compromesso quella dimensione culturale, ossia etica, propria degli esseri umani, e la loro politicità, ovvero la capacità di vivere con i propri simili. La Bugia come instrumentum regni.
La posizione del senso comune sostiene che la libertà sia l’assenza di ogni vincolo eccetto uno: la libertà dell’altro. Questa, che sembra essere la concezione più ampia possibile, nasconde in realtà un’enorme serie di limiti. Potremmo dire che si basa, in qualche modo, su un paradosso: per spiegare cos’è la libertà individuale si ricorre al concetto di libertà sociale. I rapporti umani sono, dunque, rapporti necessariamente vincolati e limitati dalla relazionalità stessa. Questa libertà è, di fatto, quella di soddisfare i propri bisogni: cosa mangiare, bere, come vestirsi, dove abitare. A queste si possono aggiungere una serie di libertà che definirei “passive”, in quanto non richiedono una vera e propria azione sul mondo: libertà di culto, di pensiero ecc.
Queste, che sembrano essere concessioni, mentre rappresentano l’essenza dell’essere umano, sono libertà fasulle. Come si può pretendere la libertà di mangiare, bere, vestirsi quando il sistema economico, e quindi le cause materiali, non forniscono i mezzi per il compimento di questa libertà attraverso l’azione? Se non vengono forniti i mezzi necessari ad una emancipazione culturale, come si può pretendere che vi sia libertà di pensiero? Per di più, la libertà di pensiero è vincolata in quanto, una sua diffusione, potrebbe nuocere o, comunque, confliggere con la libertà dell’altro.
Questa libertà negativa (negativa in quanto si limita a negare la presenza di vincoli) solo oggi, nel senso comune, inizia a suscitare, proprio grazie a Marx, qualche perplessità. Si inizia a comprendere che queste libertà negative del liberalismo restano una misera cosa se non sono integrate da diritti di altro tipo, diritti democratici, sociali ed economici, che la cittadinanza è monca se non si arricchisce di tutte queste altre dimensioni. L’idea di libertà negativa è quella espressa nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, presa come modello negli stati liberali degli anni successivi, che consiste in una dimensione individualista di protezione, sicurezza e incentrata sulla proprietà privata: la libertà è intesa come libertà da qualcosa o qualcuno, è libertà dallo Stato, dalle altre persone, libertà come assenza di impedimento; vi è libertà negativa se ognuno può disporre di se stesso e delle sue proprietà con il minimo di interferenze da parte degli altri individui. L’idea di libertà negativa giustifica la tesi dello Stato minimo, secondo cui lo Stato non deve assolutamente interferire sulla regolazione delle proprietà, sulla redistribuzione della ricchezza ecc.
Francesco Trane
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1 marzo 2018
Care amiche,
in un’intervista con un’antropologa femminista italo-palestinese, Ruba Salih, leggo questa notizia che cade opportunamente sul nostro dibattito:
«Da giorni le università britanniche sono in sciopero. Quali le ragioni?
È il più grande sciopero della storia accademica britannica contro il progetto di far dipendere le pensioni dall’andamento del mercato: si profila un dimezzamento della pensione. Ciò significa che chi non viene da famiglie benestanti sarà escluso dal mondo accademico. È un attacco generalizzato alla cultura, giustificato con la bugia del deficit. Ma se gli studenti pagano in media 9mila sterline l’anno, gli atenei licenziano, ristrutturano e non reinvestono in borse di studio o programmi educativi. Al contrario raddoppiano gli stipendi dei manager e investono nel settore immobiliare. Nulla di nuovo nel panorama del neoliberismo. Di nuovo c’è il mix tra delegittimazione degli accademici e guerra dei ricchi ai poveri» (https://ilmanifesto.it/quando-la-produzione-del-sapere-e-legata-ad-apparati-di-potere/).
Velio Abati
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1 marzo 2018
Grazie a tutti per la straordinaria circolazione delle idee.
Credo che oggi il capitalismo abbia messo in atto una manovra a tenaglia contro l’umanità: da un lato si muove con le logiche economiche di mercato, cui ha piegato anche gli ordinamenti statali o sovrastatali, nell’accezione ordoliberistica; dall’altro ha trasformato la tecnologia in tecnocrazia, accelerando la sostituzione del lavoro umano con quello dei robot, che non hanno pretese di cittadinanza e non rivendicano diritti. Contemporaneamente costringe scuola e università, ultime trincee preposte alla formazione del cittadino e alla difesa del pensiero critico, all’innovazione tecnologica, per ‘formattare’ anche i cervelli umani, che devono assumere la modalità computer.
Correggetemi se sbaglio, ma anche l’ascesa del nazismo fu accompagnata da una eccezionale convergenza olistica tra politica, economia, scienza e tecnologia. […]
Anna Angelucci
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