Don Roberto Sardelli, baraccato tra i baraccati. Di Scandurra e Tavoliere
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Don Roberto Sardelli, baraccato tra i baraccati. Di Scandurra e Tavoliere

Pubblichiamo due articoli dedicati a don Roberto Sardelli, recentemente scomparso.

Don Roberto Sardelli, baraccato tra i baraccati

di Enzo SCANDURRA, da “il manifesto”, 20 febbraio 2019

È morto don Roberto Sardelli, uno dei preti più popolari di Roma, il prete “delle baracche”, sempre dalla parte degli ultimi, dei più deboli e degli oppressi. Era nato a Pontecorvo (dove si celebreranno i funerali oggi, 20 febbraio) nel 1935. Nel 1968 aveva abbandonato la parrocchia per vivere con i baraccati dell’Acquedotto Felice. L’anno scorso l’Università di Roma Tre gli aveva conferito la Laurea Magistrale Honoris Causa in Scienze Pedagogiche ad attestare il suo lungo impegno di Maestro accanto ai ragazzi. Figura singolare nel panorama italiano aveva conosciuto don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana e ne era rimasto affascinato.

ORDINATO Sacerdote nel 1965, ebbe l’incarico parrocchiale presso la chiesa di San Policarpo al Tuscolano, vicino all’Acquedotto. Don Roberto scelse, dopo pochi mesi, di vivere insieme ai baraccati, per lungo tempo, facendosi carico anche dei malati di Aids, allora malattia incurabile. Lì si prodigò in ogni modo per fare doposcuola ai ragazzi tentando di convincerli che non erano inferiori ai loro coetanei che vivevano nei palazzi di via Tuscolana. Nacque così la “Scuola 725” (dal nome del numero civico) che rappresentò, per quei tempi, un incredibile esperimento pedagogico per i più poveri.
Raccontano i ragazzi di quella scuola che il primo giorno che arrivò don Roberto, si presentò con un libro Americani e Vietcong anziché con dei libri di catechismo. Faceva lezioni con la luce di una candela e, quando era inverno, accanto a una vecchia stufa che riempiva di fumo la baracca “725”. Allora quei bambini che vivevano nella baraccopoli e che la mattina si recavano alla scuola pubblica, facevano dei lunghi giri, al ritorno dalla scuola, per non far capire agli altri che vivevano nelle baracche.

DON SARDELLI lì spronò a non vergognarsi della loro condizione, a emanciparsi. Utilizzando un linguaggio semplice, sotto la sua guida, i ragazzi scrissero la Lettera al Sindaco e il libro Non Tacere. La Lettera suscitò un grande scandalo a Roma, tanto che la stessa Rai fece un servizio di Giuseppe Fiori facendo venire alla luce la scandalosa condizione di vita dei baraccati. Dopo lo sgombero della bidonville, l’impegno civile di don Roberto è continuato come giornalista e scrittore. Scrisse un libro Il danzatore assai convinto che per avvicinarsi ai Sinti e ai Roma dovesse imparare a ballare il Flamenco.

QUARANT’ANNI dopo scrisse nuovamente una Lettera al Sindaco che non ebbe lo stesso successo della prima per le divergenze di idee sulle periferie romane con Veltroni.

RACCONTA don Roberto che quando arrivò Papa Francesco ricevette una telefonata direttamente da lui, al quale però rimproverava di non fare “pulizia” nella curia romana. Per questi suoi incredibili meriti ha avuto accanto a sé sempre molti amici ed estimatori, gente comune, intellettuali, insieme a molti dei suoi vecchi “studenti” della baraccopoli che gli sono stati sempre riconoscenti e vicini fino alla sua morte. Fabio Grimaldi è l’autore, insieme ai ragazzi della “Scuola 725”, del film Non tacere che ha vinto il premio come miglior documentario al Festiva Arcipelago e che racconta la storia della “Scuola”.

DA MOLTI ANNI era malato e si era ritirato nel comune di Pico per assistere la sorella. Dopo la morte di quest’ultima era andato a vivere nel comune di Pontecorvo cedendo la sua modestissima casa di Pico ad un amico tedesco che lo aveva aiutato a trovare i farmaci adatti per curare la sorella malata. Lo si incontrava a Roma mentre si recava al Policlinico per avere i farmaci che provenivano dalla Germania.
Nonostante queste sventure quando compagni e amici andavano a trovarlo, lui continuava a chiedere: “Che ne pensate della situazione politica?”. Uno scenario, quello politico attuale, che ai suoi occhi di ribelle appariva ormai lontanissimo da qualsiasi sua aspettativa e speranza.

P.S. su il manifesto del 22.12.2018, Damiano Tavoliere ha scritto un bell’articolo a lui dedicato in occasione del conferimento della Laura Honoris Causa, don Roberto, baraccato tra i baraccati.

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Di seguito pubblichiamo l’articolo citato da Scandurra.

Don Roberto, baraccato tra i baraccati

di Damiano TAVOLIERE, da “il manifesto”, 22 dicembre 2018

Meglio tardi che mai: il 21 novembre 2018 l’Università Roma Tre ha conferito la Laurea Magistrale Honoris Causa in Scienze Pedagogiche al protagonista -recita la motivazione- di “una delle più straordinarie iniziative di pedagogia popolare realizzatesi nel secondo dopoguerra”. Ritirano l’onorificenza -assente il don malfermo in salute- due ex allievi, che tre giorni dopo gliela consegnano in una festa commossa fra centinaia di ex bambini ormai anziani, a Pontecorvo dove il prete nacque e vive il suo ritiro autunnale.

Un prete fra gli ultimi

Nella penuria dell’ultimo dopoguerra, gli umani in miseria contendevano ai topi e alle macerie il diritto alla sopravvivenza e al tetto. Tetto dissimulato in baracche approssimative dove l’istruzione, l’educazione alla conoscenza, l’esercizio dei propri diritti, erano variabili precarie che stimolavano altri umani sensibili a creare un centinaio di scuole popolari nelle borgate capitoline. Una delle quali si distinse subito per forza, stile, lungimiranza. Si trovava presso l’Acquedotto Felice, una poderosa opera ingegneristica dell’antichità che negli anni Sessanta assemblava una baraccopoli di 650 famiglie e qualche migliaio di migranti dal Sud: degrado e povertà, rassegnazione e sfiducia nel riscatto, assenza di autostima e destino di esclusione. Schiuma sociale dove irrompe un sacerdote trentatreenne a cui la routine parrocchiale va un po’ stretta e la cui interiorità morale si fonda su principi direttamente mutuati dal Vangelo: Roberto Sardelli è stato accanto ai preti operai e ora frequenta don Lorenzo Milani, mentre nutre il pensiero critico con L’educazione come pratica di libertà e La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, Maestro brasiliano di fama mondiale, teologo della liberazione che coniuga marxismo gramsciano e cristianesimo.

“Posseduto da un lampo di follia creativa – racconta Sardelli – aprii in una baracca di nove mq la Scuola 725 (numero della baracca) e proposi lo studio come leva per uscire da una situazione umiliante, puntai sull’orgoglio, sul riscatto come conquista e non come elargizione dall’alto”.

È il 1968, anno di grande fermento globale. A Roberto doleva la divisione tra parrocchie di serie A “popolate di gente perbene” e altre parrocchie ritenute “desolate, abitate dal malaffare, da lavoratori abbrutiti e… comunisti”.

Teoria e prassi in Sardelli vanno oltre la scuola, per situarsi in un progetto complessivo di alterità sociale che proprio in quegli anni di assalto al cielo gode un’inedita coralità massiva, un polifonico e radicale conflitto emancipatorio. Sono tanti i generosi che incrociano il don e lo affiancano: volontari sinceri, lavoratori d’intelletto, credenti e non, persone fissate nell’idea del bene comune e urbanisti col cervello teso al progresso collettivo, tipo Paolo Berdini.

Le gerarchie vaticane – pur terremotate dai rivolgimenti giovannei – mal sopportano tutta quest’aria di novità, la deviazione evidente dall’ortodossia stabilita, lo sconcerto della rottura con la tradizione e la pace dei sensi. Così passano al richiamo, poi all’attacco, infine all’eliminazione dei devianti: un esempio ce lo articola Catia Cippitelli, allora tra i ragazzi della chiesa di Santa Emerenziana, dinamizzata da un prete al passo coi tempi conciliari -don Luigi Chiogna – ma in un quartiere romano altolocato: le quiete acque agitate dal sacerdote gli costeranno l’allontanamento. Inducendo Catia a investire la sua benefica ansia vitale nelle baracche dell’Acquedotto Felice. Dove sancisce in coscienza che la scuola ufficiale riproduce discriminazioni, reclude i bimbi poveri nelle classi differenziali, pone stigmi che decidono esistenze.

Gandhi, Malcolm X e il silenzio dei potenti

Ma il don non si limita alla trasmissione del sapere né crede a un rapporto verticale docente/discente: pensa alla relazione orizzontale, alla reciprocità di conoscenze e acquisizioni. E vuole che il mondo vada indagato col contributo di tutti, senza escludere parte alcuna del mondo in cui viviamo. Perciò porta i giornali in classe e si discute di lotte operaie e contadine, introduce Malcolm X e il Mahatma Gandhi, parla di solidarietà e barriere mentali, diritti sociali e dignità per tutti… “La questione è politica -sostiene- le ingiustizie vanno denunciate e combattute, il silenzio subalterno cancellato”, mentre “il silenzio dei potenti è complicità” scrive in una lettera al sindaco dc redatta con bimbi e collaboratori.

Per coerenza e cognizione di causa, per eliminare davvero ombre e ipocrisie dal proprio operato, don Roberto va a vivere in baracca poiché è necessario “condividere in tutto e per tutto la condizione dei poveri; loro mi fecero capire la portata rivoluzionaria del Vangelo”. Ma gli ecclesiastici storcono il naso: “nella parrocchia passavo per ribelle e una domenica dopomessa fui circondato da gente intenzionata ad assalirmi con bastoni di legno…” E tuttavia Paolo VI, spirito tormentato di cristiano autentico, è con lui. Al pari dell’insigne linguista Tullio De Mauro. Nel 1973, dopo cinque anni di impegno e battaglie, i baraccati -prete compreso- ottengono alloggi popolari.

Decenni dopo, don Roberto e i suoi ragazzi si rivedono coi volontari e gli intellettuali fiancheggiatori sotto i magnifici archi dell’Acquedotto Felice. Per celebrare un’amicizia antica e profonda, ma anche per constatare che ”gli emigranti di oggi sono quello che noi fummo”, nel grigiore disarmante “della politica culturale ridotta a spettacolo ed effimero…”, mentre ancora si aggirano gli spettri dell’emergenza abitativa, del lavoro assente, dell’esclusione sociale: terreni per una lotta che continua, innervata dall’inquietudine egualitaria che anima ogni apostolo di giustizia, volta a scuotere il sonno istituzionale sulle insufficienze sociali, come si legge nella nuova Lettera al Sindaco Veltroniquasi quarant’anni dopo l’analoga missiva precedente… “Perché non si può vivere tranquilli se i nostri simili soffrono, la causa dell’altro è la mia causa” testimoniano Matteo Amati, Carla Camilli, Angelo Celidonio, Grazia Napoletano e altre anime gentili che incarnano il messaggio di Sardelli e con lui urlano ai potenti.

Roberto e Francesco

A don Roberto han dato il riconoscimento accademico per quei formidabili cinque anni tra i baraccati, però l’intero suo passaggio terreno è un filo rosso costante: le opere in Caritas con Luigi Di Liegro, gli editoriali per riviste e quotidiani (Paese Sera, l’Unità, Liberazione), l’assistenza fraterna ai malati terminali di Aids, l’avvicinamento alla cultura gitana e la fondazione d’una Scuola di flamenco per valorizzare le capacità molteplici di espressione umana, nel corpo nel canto nella musica, al fine di intelligere la nostra realtà oltre i confini dell’intelligenza razionale… Mi confida il donche un giorno papa Francesco gli ha telefonato e hanno disputato accanitamente sulle meraviglie della danza andalusa, vantata da Sardelli, a fronte del tango argentino difeso da Bergoglio…

LA SCUOLA NEL TUNNEL

conoscere il mondo, apprendere la saggezza, costruire giustizia: parlano gli allievi del prete scarlatto

latrine e pozzi neri

Angelo Celidonio nella baracca ci nacque: era il 1961, affiancava i fratelli Cesidio e Luigi, tutti allievi di don Sardelli. Il più grande è stato rapito da un amore svizzero, quindi incontro gli altri due in una sede della Cgil romana dove Luigi opera, distaccato dall’insegnamento nella scuola primaria, mentre Angelo ci raggiunge dal supermercato che dirige. “Mamma e papà si trasferirono dall’Abruzzo all’Acquedotto nel ’60. Ricordo quando arrivò don Roberto – racconta Luigi – era il settembre del ’68, avevo 11 anni, stavamo giocando a tressette sotto il fico. Il prete andava su e giù per le catapecchie, si fermava a parlare coi genitori, voleva aprire un doposcuola… Ci iscrissero tutti perché molti bambini andavano male negli studi: la baracca 725 era troppo piccola, così occupammo anche un arco, una specie di tunnel che d’inverno la stufa riempiva di fumo… Le baracche avevano murature leggere -costruite dai papà che quasi sempre lavoravano nei cantieri edili- con un paio di stanzette, talvolta una latrina scavata nella terra, altrimenti c’erano i pozzi neri esterni, ed una difficoltà alla privacy che ti lascio immaginare, pensa all’intimità della coppia genitoriale… L’umidità era tanta, io ne ho sofferto particolarmente, mi imbottivano di medicine per calmare i dolori reumatici, ancora adesso ho problemi, se pioveva ponevamo le bacinelle a contenere l’acqua dal soffitto. Quella che serviva all’igiene la prendevamo alla fontanella: mamma ci teneva alla pulizia, non so quante volte al giorno portava bidoni. Alcune famiglie arrivavano coi bimbi carichi di pidocchi… Fin quando don Roberto affermò che era giusto attaccarsi all’acquedotto pubblico, così creammo allacci abusivi ed avemmo l’acqua corrente in casa”.

il comunista, la mignotta, i clienti

“Casa, insomma, io mi vergognavo – corregge Angelo – e ai compagni di scuola lo nascondevo. Una bambina – Antonella – raccontava di risiedere in un bel palazzo, una via piena di luci e negozi stupendi… All’uscita da scuola facevamo lunghi giri per far perdere le nostre tracce e non far intendere la verità… Si viveva poveri, marchiati, umiliati: quando chiudeva un cantiere papà andava in giro a cercare un nuovo lavoro e capitava che lo allontanassero sguinzagliandogli contro i cani da guardia”; a Cesidio che volle iscriversi al liceo classico il prof di latino confessò brutali istinti discriminatori: tu non sei fatto per stare qui, vai a coltivar prezzemolo. “Eppure c’era grande aiuto reciproco, le porte restavano aperte, il cibo veniva diviso con chi ne era privo… Mancava l’elettricità, usavamo candele e lanterne alimentate col carburo, finché inventammo di caricare le batterie delle automobili che per un po’ ci davano la luce e si poteva addirittura accendere la televisione… In verità Roberto non ci lasciava molto tempo per la tv: dopo gli inizi in cui si facevano solo compiti, un giorno arrivò con un libro – Americani e vietcong – al che noi bambini si ridacchiava, ma che vuole questo da noi?, lui s’incavolò, e man mano capimmo che ci stava aprendo al mondo: ogni giorno dopo i compiti e la merenda leggevamo i giornali, ascoltavamo il notiziario radio, sfogliavamo libri, commentavamo insieme. Però non ci ha mai imposto nulla, neppure la frequenza della baracca che fungeva da cappella. Abitava dove prima c’era sor Orazio, militante comunista (Togliatti e papa Giovanni alle pareti), poi Rita, una prostituta; infatti quando vi s’insediò Roberto veniva ancora qualche cliente a bussare…”. Aggregato variopinto, comunità di persone ai margini “in cui non mancavano trans e travestiti…” In taluni casi accorreva la polizia per sgomberare le baracche abusive e spianarle coi bulldozer, come oggi minacciano e fanno sindaci sceriffi e ministri da paura.

il libro più usato

Nel bel documentario del 2007 Non tacere per la regia di Fabio Grimaldi – sul web – Sardelli sostiene vigorosamente l’importanza di “prendere coscienza della realtà, chi non prende coscienza è fottuto, spacciato, oggetto di elemosina… Il potere politico dominante – in combutta con quello religioso di questa città – offendeva i più umili, mentre per valorizzare i terreni e speculare sulla edificabilità i proprietari facevano spostare illegalmente di notte i binari delle linee tranviarie… Bisogna far sobbalzare il Potere; il corteo che seguiva Gesù non era fatto di re e regine, ma di miserabili, peccatori, malati, disperati: la comunità dei credenti deve riappropriarsi di questa forza originaria”. Da ciò derivarono sia La lettera al sindaco che l’epistola Ai cristiani di Roma, entrambe stampate in migliaia di copie e diffuse capillarmente nelle fabbriche e nelle chiese. E derivò l’importanza decisiva d’impadronirsi della parola: per Roberto Sardelli “il dizionario dev’essere il libro più usato”, in perfetta sintonia con Giuseppe Di Vittorio. Ammonisce infine il prete dal cuore scarlatto: “Furono anni di lacrime ma anche di grandi speranze, dimenticarli è perdere la chiave per comprendere la realtà di quel tempo e dei nostri giorni”.

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