ZELENSKY, DAL “PIANO DELLA VITTORIA” ALLE DUE UCRAINE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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ZELENSKY, DAL “PIANO DELLA VITTORIA” ALLE DUE UCRAINE da IL MANIFESTO

Zelensky, dal «piano della vittoria» alle due Ucraine

L’inverno di Kiev Pesa l’effetto Trump. Il presidente ucraino di fatto accetta la divisione (forse per molti anni) del Paese che è esausto: son più di 100mila i soldati ucraini incriminati per diserzione

Alberto Negri    19/12/2024

Come c’erano una volta due Germanie, ci saranno due Ucraine. Zelenski riconosce ora quello che la gran parte dei governi occidentali, a cominciare da quello americano, pensa da tempo: l’esercito ucraino non ha i mezzi militari né gli uomini necessari per riconquistare la Crimea e il Donbass. E non li ha mai avuti già dal 2014.

Quando la Russia, con i ribelli filorussi – e anni di guerra civile -, occupò quei territori. Era solo la metà dell’ottobre scorso quando Zelenski presentava il suo «piano per la vittoria», adesso ha ammesso, in videoconferenza con i lettori del quotidiano Le Parisien, che l’Ucraina «non ha la forza di riconquistare la Crimea e il Donbass, de facto – ha dichiarato – questi territori sono controllati dai russi. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin al tavolo dei negoziati».

GLI UCRAINI DEVONO dunque prepararsi a cedere almeno una parte di quel 20% conquistato con la forza dai russi, questo è il messaggio. Zelenski ne ha preso atto, anche se poi bisognerà capire che cosa si debba intendere per “Donbass”, se tutto il territorio occupato tra il 2022 e il 2024 o solo i distretti di Donetsk e Lugansk controllati da Mosca fin dal 2014. Ma di fatto il presidente ucraino accetta che il Paese sarà diviso in due parti per alcuni anni (forse per molti anni) con una formula transitoria, almeno finché al potere a Mosca ci sarà questo regime. Con l’elezione di Trump, Kiev ha capito che rischiava di essere abbandonata al suo destino, come dimostrava il tweet volgare con cui il figlio del presidente eletto statunitense paragonava gli aiuti a un paese aggredito a una «paghetta» per Zelensky.

ORMAI SONO cambiati i termini della questione ucraina. Dopo gli annunci roboanti, sotto l’effetto Trump siamo passati dalla questione dei territori a quella della sicurezza. L’Ucraina aveva posto il ripristino della sovranità piena come condizione imprescindibile per mettere fine alla guerra ma il rapporto di forze sul campo, diventato sempre più favorevole alla Russia che continua a bombardare a tutto spiano anche i civili, ha reso questa ipotesi di fatto impossibile, sicuramente molto lontana e costosa in termini di vite umane e di sostegno economico occidentale. Oggi l’Ucraina sa che dovrà sacrificare i territori conquistati dalla Russia in attesa di giorni migliori, in uno scenario che ricorda appunto le due Germanie (separate per decenni ma che alla fine si sono riunite).

L’UCRAINA, in cambio dei sacrifici territoriali, chiede reali garanzie di sicurezza, in modo da assicurarsi che il conflitto non riprenda non appena l’Occidente volterà le spalle. Quali potrebbero essere queste garanzie? L’adesione dell’Ucraina alla Nato sarebbe la garanzia suprema, grazie all’articolo 5 che prevede la solidarietà automatica in caso di aggressione. Ma Putin non lo accetterà mai e Trump è della stessa opinione. Si sta discutendo quindi un’altra opzione: lo schieramento in Ucraina di truppe dei paesi Nato che agiscano indipendentemente e offrano una garanzia concreta di difesa della sovranità del paese, oppure quella di truppe europee ma sotto l’egida delle Nazioni unite. Il fatto che i leader europei ne parlino è già un passo avanti ma non a tutti piacciono questi discorsi. Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha affermato che «concentrarsi sui negoziati di pace aiuta la Russia».

A RUTTE, CHE DEVE essere uno stratega da divano, deve essere sfuggito qualche passaggio, dall’arrivo alla Casa bianca di un presidente che si è vantato di poter risolvere la guerra in Ucraina nell’arco di 24 ore, ma soprattutto che l’Ucraina è un Paese esausto. Nei primi 10 mesi di quest’anno hanno disertato più soldati ucraini che nei due anni precedenti di guerra, il che evidenzia la difficoltà di Kiev nel ricostituire la prima linea mentre la Russia conquista sempre più territorio nell’Ucraina orientale: più di 100mila soldati sono stati incriminati in base alle leggi sulla diserzione in Ucraina dall’invasione della Russia nel 2022, secondo i dati del procuratore generale di Kiev. Anche i russi sono stanchi di guerra e la crisi economica morde ma Putin conta sui mercenari e persino sulle truppe nordcoreane.

RUTTE, CHE IERI era a cena con Zelesnki a Bruxellex dove si svolgeva un vertice ristretto sull’Ucraina, continua a insistere che bisogna prepararsi alla guerra, all’aumento delle spese militari anche a costo di tagliare le spese per il welfare: ma forse dal presidente ucraino questa volta sentirà una musica un po’ diversa. Perché lo stesso Zelesnki non appare più tanto saldo in sella. L’attentato che ha eliminato a Mosca il generale Kirillov rivendicato dall’Sbu, i servizi di sicurezza ucraini, significa che l’Ucraina vuole portare la guerra nel cuore della società russa, in modo che anche la popolazione russa ne subisca gli effetti in un momento in cui le città sono bombardate quotidianamente da Mosca. Ma mentre si attende la rappresaglia di Mosca – che ha arrestato per l’assassinio un giovane uzbeko – Zelenski ha già alzato la posta: ora dovrà far accettare l’esistenza di due Ucraine, un cambio di rotta vertiginoso che può costargli caro.

Così Washington affondò la pace svizzera: le rivelazioni scomode di Ruch

Guerra in Ucraina Il fallimento di Berna raccontato nelle memorie del diplomatico. Sullo sfondo la spy-story partita da Tel Aviv che gli è costata il posto alla segreteria di Stato

Sebastiano Canetta  19/12/2024

La sua voce è tornata on-air sei giorni fa con l’intervista alla radio svizzera Rts sull’apertura del Centro per la Neutralità a Ginevra, ma a fine novembre si era ricordato di lui anche Diplomat Magazine, rivista fondata all’Aja 12 anni fa da un gruppo di feluche interessate alla «libera circolazione delle opinioni», recensendo il suo libro di memorie Crimes, Hate and Tremors – Da una Guerra Fredda all’altra, al servizio di Pace e Giustizia.

Jan-Daniel Ruch, classe 1963, diplomatico tra i più esperti a livello internazionale, già consigliere giuridico del tribunale per i crimini di guerra in Jugoslavia ed ex ambasciatore svizzero in Israele, non smette di raccontare la vera storia del braccio di ferro tra falchi e colombe sulla guerra in Ucraina.

TESTIMONE diretto del tavolo di trattative tra russi e ucraini messo in piedi dal presidente turco Erdogan nelle settimane immediatamente successive all’invasione di Putin, Ruch venne chiamato a marzo 2022 da Ankara per la sua autorevolezza in materia di neutralità («di cui noi non abbiamo alcuna esperienza mentre lei rappresenta il modello riconosciuto», puntualizzò testualmente il viceministro di Erdogan) e di conseguenza venne tenuto costantemente informato su ogni singolo sviluppo del tentativo di spegnere sul nascere il focolaio ucraino allora ancora circoscritto fra Kiev e il Donbass.

«Il negoziatore turco mi premise che diverse potenze perseguivano un’agenda globale. E mi venne detto che Zelensky non avrebbe avuto alcuna obiezione a un rapido cessate del fuoco», ricorda il diplomatico nelle sue memorie. Finché «il 26 aprile 2022 il segretario Usa alla difesa, Lloyd Austin, dichiarò che l’obiettivo di Washington era indebolire la Russia: ciò rappresentò la fine delle speranze per una mediazione svizzera nel nascente negoziato».

Un fallimento clamoroso soprattutto per Berna: «Il ruolo della Svizzera come risolutore dei conflitti internazionali, purtroppo, non è più richiesto», sottolinea Ruch. Ma anche un enorme problema per tutta l’Europa che «svolge solo la funzione dello spettatore pagante sostenendo la maggior parte del peso finanziario del conflitto e ospitando i profughi di guerra». Opinioni urticanti, tutt’altro che diplomatiche; e anche parole che in Svizzera si pagano di persona.

A settembre 2023 Ruch avrebbe dovuto essere nominato a capo della nuova Segreteria di Stato sulla sicurezza istituita da Berna, ma si è dovuto dimettere prima di entrare in carica alla luce dello «scandalo» rivelato dai media locali.

UN’INFAMANTE dirty story partita da Israele, dove Ruch ha svolto l’incarico di ambasciatore dal 2016 al 2021 dopo essersi distinto come rappresentante speciale per il Medio Oriente a partire dal 2008. «Circolano voci che all’epoca l’ambasciatore della Svizzera avesse rapporti sessuali con prostitute-spie, è la prova che è inadatto a ricoprire una carica nevralgica per sicurezza», è la versione partita da Tel Aviv in ambienti che Ruch definisce senza fare nomi: «Di certo dietro c’è un’organizzazione professionale. Gente specializzata nello spionaggio. Chiamiamo il bambino con il suo nome».

All’ombra della guerra d’Ucraina si consuma anche la lotta sempre meno sotterranea per spostare nella sfera dell’Occidente la multipolare Svizzera. Proprio la rivendicazione della neutralità da parte del diplomatico più esperto sul tema rimanda allo scontro frontale che attualmente si sta consumando nel suo paese tra chi prova tenere il punto sul valore fondativo della Confederazione elvetica e chi invece vorrebbe aggiornare lo status alla nuova guerra fredda. Se Ginevra resta «la Capitale della Pace», Berna non è già più equidistante dalla guerra.

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