UOMINI E RIVOLTE. LA DEMOCRAZIA NON VIENE MINATA (SOLO) DAI FASCISTI da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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UOMINI E RIVOLTE. LA DEMOCRAZIA NON VIENE MINATA (SOLO) DAI FASCISTI da IL FATTO

Uomini e rivolte. Il Camus di Landini e lo spirito del tempo che passa da Tambroni a… Salvini

MASSIMO NOVELLI  9 Dicembre 2024

Quando nel 1961 uscì Gli innocenti dello scrittore torinese Guido Seborga (1909-1990), al secolo Guido Hess, l’autorevole critico Giancarlo Vigorelli, a lungo presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani e della Casa di Alessandro Manzoni, osservò che Seborga era rimasto l’unico a scrivere romanzi di “rivolta sociale”. Le parole di Vigorelli sul racconto che Seborga fece della lotta degli operai savonesi dell’industria siderurgica, non suscitarono alcuna polemica, sebbene si fosse in un periodo assai travagliato dal punto di vista politico e sociale. Nel luglio del 1960 l’Italia democratica era scesa in piazza contro il governo Tambroni appoggiato dal Msi; la polizia sparò, ci furono vari morti (esemplari e illuminanti furono gli articoli di Mauro de Mauro su L’Ora di Palermo). Due anni dopo, nel ‘62, sarebbe esplosa a Torino, in piazza Statuto, la protesta spontanea dei giovani operai contro la firma separata da parte della Uil di un accordo con la Fiat.

Oggi non paiono esserci scrittrici e scrittori che sappiano parlare della “rivolta sociale”, ma il concetto di rivolta è sempre motore della storia, è memoria e cronaca. Tuttavia, se non esistono più scrittori impegnati a narrare le lotte degli umiliati e offesi, è pure scomparso il ceto politico forgiato nel conflitto, negli studi e nel lavoro duro nelle fabbriche. Quello odierno, del resto, sembra avere frequentato più le curve degli stadi che i libri e le scuole, i campi e le officine. Con qualche eccezione: il governatore del Veneto Luca Zaia, per esempio, ha dichiarato a La Stampa che “la protesta è il sale della democrazia”. Per gli altri politici, invece, la “rivolta sociale” è materia del diavolo: è accaduto in seguito all’esortazione alla lotta fatta da Maurizio Landini, leader della Cgil. Da destra, ma non solo, ogni accenno di protesta e di ribellione allo stato di cose presente viene subito accostato agli anni di piombo e criminalizzato con pressapochismo, ignoranza, becera strumentalizzazione dei fatti e delle parole. Poco dopo la sua invocazione alla ribellione collettiva contro le ingiustizie (perché questo è il senso del richiamo alla “rivolta sociale”), Landini ha regalato una copia de L’uomo in rivolta di Albert Camus alla premier Giorgia Meloni. Ha appuntato il giornalista Pierluigi Battista: “Fa piacere che il leader della Cgil conosca ed apprezzi un classico del pensiero novecentesco così critico nei confronti di ogni forma di totalitarismo, nero o rosso che sia”.

Landini pertanto ritiene, in linea con il Camus del saggio datato 1951, che l’uomo in rivolta è “un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice sì, fin dal suo primo muoversi”. E ancora, scrive Camus, l’uomo in rivolta è colui il quale “al meriggio del pensiero (…) rifiuta così la divinità per condividere le lotte e la sorte comune”. In “fondo alle tenebre”, allora, “avvertiamo già l’inevitabile luce e non ci resta che lottare perché sia”. Sono cose impossibili da capire? Lo sono certamente per chi non ha mai sentito nominare Camus e crede che bastino un Piantedosi, un Valditara o un Salvini di turno, per cancellare decenni di conflitto sociale e fermare le donne e gli uomini che dicono no.

La democrazia non viene minata (solo) dai fascisti

Francescomaria Tedesco  10 Dicembre 2024

Le democrazie contemporanee non sono esposte al rischio di un ritorno del fascismo così come lo abbiamo conosciuto o studiato sui libri di storia e di teoria politica. Si è trattato di una fase storicamente determinata che si è chiusa con la caduta di Mussolini (tanto che occorrerebbe parlare di fascismo “storico” o “reale”). È evidente che ciò che a quelle latitudini politiche lo ha seguito, ovvero il neofascismo, ha legami profondissimi di ordine pratico e simbolico col fascismo reale. Ma è un’altra cosa (mentre è legittimo avere seri dubbi sul fatto che sia mai esistito un autentico post-fascismo). Non meno minacciosa, ma diversa. Oggi la presa violenta del potere e l’estensione dello Stato in tutti gli ambiti della vita, fino alla penetrazione di esso nelle coscienze individuali (in interiore homine), sarebbero più faticose e meno efficaci di quanto si possa ottenere sfruttando gli stessi buchi neri degli ordinamenti costituzionali vigenti.

In altri termini, se contro il fascismo era nata la Carta costituzionale post-bellica, tesa a sopperire ai limiti dello Statuto Albertino, le cui maglie larghe avevano consentito il proliferare di un regime illiberale, oggi ci troviamo di fronte alla sfida di ripensare le Carte costituzionali nate da quelle esperienze, perché evidentemente esse vengono sfidate da nuove forme di autoritarismo. Forme più “morbide”, subliminali nel senso più pienamente etimologico: esse si insinuano al di sotto della soglia del controllo costituzionale, non attivando quegli allarmi acustici che un assalto apertamente neofascista alle istituzioni attiverebbe.

Dunque, se non esiste un rischio fascista, esiste il rischio di involuzione autoritaria. La cosa abbastanza nuova di questo scenario è che si tratta di una minaccia che promana non solo da destra. Nuova, si diceva, perché caratteristica degli ultimi decenni. Quando sia destra che sinistra cavalcano le forme dell’amministrativizzazione del diritto, ovvero bypassano Parlamenti e volontà popolare – considerati, non di rado apertamente, anticaglie e ostacoli (si ricordino i “lacci e lacciuoli” di berlusconiana memoria) – delegando l’esecutivo non solo a eseguire, per l’appunto, ma a legiferare; quando sia destra che sinistra invocano, a giustificazione di ciò, l’esigenza di fronteggiare situazioni di emergenza perenne (che se è perenne non è più emergenza); quando i diritti costituzionalmente garantiti sono stressati, stiracchiati o minati da decisioni esecutive che saltano il controllo legale-costituzionale; quando il grande capitale finanziario si serve dei tecnocrati che non necessitano di alcuna legittimazione popolare (certo secondo la Costituzione il Parlamento conferisce la fiducia, non il popolo; ma un qualche legame andrebbe comunque ristabilito); quando accade questo, non c’è bisogno del fascismo per dire di trovarsi di fronte a una minaccia all’ordinamento costituzionale post-bellico.

Queste minacce, combinate con l’esasperato leaderismo, non vengono percepite come tali dall’opinione pubblica. Lo scivolamento verso forme di “autoritarismo democratico”, cioè apparentemente suffragato dal voto (ma qui, di nuovo: il voto di chi? Esistono garanzie costituzionali contro l’astensionismo? Oggi non è necessario ridurre il Parlamento a un bivacco di manipoli ma basta chiudersi in una stanza e fare le liste con una legge elettorale indecente), non trova ostacoli neanche tra i teorici della politica, che non sembrano pronti alla sfida concettuale di pensare nuove forme di partecipazione. Tra chi grida al fascismo e chi si attarda a proporre le fruste formule del parlamentarismo novecentesco, non si vede come si possa uscirne.

Chi tra le forze politiche ci ha provato è stato massacrato da destra e da sinistra, perché a destra e a sinistra conviene (come in Weekend con il morto) tenere in piedi il cadavere della democrazia parlamentare che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento.

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