STORIE NELLA STORIA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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STORIE NELLA STORIA da IL MANIFESTO

Perché mi considero un ebreo odessita

MEMORIE UCRAINE. L’arrivo a Kiev fu indimenticabile. È una città di grande respiro e affacciarsi da un belvedere sulla maestà del fiume Dniepr non si può scordare. Grazie alla frequentazione di quei luoghi mi sono dedicato a Isaak Babel, autore di un autentico capolavoro: «L’armata a cavallo» e sono partito per fare delle ricerche

Moni Ovadia  08/04/2022

La guerra è il luogo e il tempo della morte. Non uccide solo esseri umani, animali, ambiente, cancella il desiderio di conoscere. La guerra genera la ridondanza di informazione e le sue fonti pletoriche si contendono la contabilità di morti, di orrori, di distruzioni, di fazioni. La stragrande maggioranza delle persone ignora la vita dei Paesi che all’improvviso diventano teatri di conflitti, al massimo ricordano il nome di una piazza dove si svolsero proteste o rivolgimenti riportati dai soliti media colti da frenesia di dare un presunto senso alla loro esistenza. Cosi accadde per la guerra della ex Jugoslavia, cosi si ripete il meccanismo per l’Ucraìna, con la sola differenza che oggi, l’avanzamento della tecnologia sottopone il malcapitato tele-assuefatto ad un vero cannoneggiamento. Io le notizie le ho, direttamente, da tre profughe ucraine che ospito nella mia casa. È il mio piccolo contributo alla verità.

Sono un privilegiato, in Ucraina ci sono stato, non per fare turismo, ma per conoscere persone con le quali stabilire un rapporto professionale che poi si è trasformato in una fraterna amicizia. Ho seguito tracce di un filone della sua storia per mettere in scena due spettacoli e per orientarne un terzo. Prima di conoscere l’Ucraìna, ho conosciuto ucraìni, cinque strepitosi danzatori: Maxim, Koljia, Igor, Sergiej, Jiuri. A parte uno, gli altri erano pensionati e portavano la loro arte nella mia messa in scena del musical «Il violinista sul tetto».

DANZAVANO con una grazia e un virtuosismo non esibizionista che, a mio parere, sono concessi solo ai pensionati. Abbiamo collaborato per circa tre anni. Uno di loro, Maxim Anatolievic Shamkov, rimase poi con me in altri spettacoli. Pesava 130 kili per un metro e settantotto ma si librava nello spazio come un libellula, con un’eleganza che non mi è più capitato di vedere. Nei dodici anni di frequentazione ci siamo sempre dati del voi, l’intensificarsi della familiarità non ci ha fatto cambiare abitudine, Maxim mi esprimeva anche in questa forma il suo rispetto e, il suo essere stato per trent’anni cittadino sovietico, non gli aveva fatto perdere il senso di quella forma cortese. Quando, dopo la Rivoluzione invalse il termine compagno, nei rapporti non strettamente familiari si continuò a rivolgersi al proprio interlocutore così: «voi, compagno».

Odessa è una mamma, quando l’ho conosciuta, lei mi ha adottato e mi ha permesso di fare un coup de théâtre magistrale. Stavo lasciando la città portando con me un pacco di Cd e Dvd, il doganiere all’aeroporto mi guardò e mi disse in un inglese con pesante accento slavo: vat is dis «che roba è» io risposi nella sua lingua, «non vedete da solo?» lui mi ruggì di ritorno e «allora??!!». Spiegai sempre in russo: «Sono regista e attore, preparo uno spettacolo sulle canzoni della malavita ebraico odessita», al che lui guardando il mio passaporto italiano e strabuzzando gli occhi: «Cosa?» E io «non mi credete?» E lui «no!», «E io come ve lo posso provare?» E lui ferreo: «Cantate». Allora intonai a squarciagola la canzone «Odessa mama» tutti intorno scoppiarono a ridere, anche il mio inquisitore si tratteneva a stento e per uscire dall’imbarazzo mi congedò. «Pigliate questa roba e andate al diavolo!».
La frequentazione dei miei amici ucraini fece affiorare dallo scrigno dei miei desideri segreti l’urgenza di mettere in scena il capolavoro di un genio della letteratura ebraico sovietica lo scrittore ebreo di Odessa Isaak Babel autore di un autentico capolavoro: L’armata a cavallo e partii per l’Ucraina per fare delle ricerche e trovare materiali visuali e sonori.

L’ARRIVO A KIEV fu indimenticabile. È una città di grande respiro, segnata da una formidabile densità di verde urbano, le cupole dorate delle sue chiese e cattedrali sono una visione e affacciarsi da un belvedere sulla maestà del fiume Dniepr è un’impressione che non si dimentica. A Kiev trovai molti materiali sull’epopea della guerra civile che si scatenò fra Rossi e Bianchi poche settimane dopo la vittoria della rivoluzione d’Ottobre. Fu una guerra di una violenza e di una ferocia incredibile che vide scannarsi fra di loro fratelli, padri e figli con un costo di oltre dodici milioni di morti. In essa intervennero, in appoggio alle forze zariste, tredici paesi capitalisti fra i quali l’Inghilterra, la Germania, il Giappone, gli Stati Uniti che avevano un decisivo interesse a distruggere la Rivoluzione ancora in fasce e ad ammazzare il massimo numero di comunisti che fosse possibile Il genio militare di Trotsky sconfisse l’alleanza reazionaria. Nell’esercito rosso combatteva la kon’armmija, la Prima armata a cavallo comandata dal generale Michail Semionovic Budijonnyi.

Babel’ fu aggregato alla Kon’armjia nella sezione stampa, la Rosta, e si iscrisse nel suo romanzo di racconti con il nome di fantasia di Ljutov. Babel’ servendosi di una lingua che trascorre dall’immaginifico al lirico ci riporta a quell’epopea tragica che segna il crepuscolo di un’epoca nella violenza che annienta la grazia poetica di piccoli uomini sublimi. Per la mia sensibilità indimenticabili sono un racconto in forma di compianto per l’estinzione delle api in una zona di guerra e la descrizione della morte del soldato rosso Bratzlavsky, principe di una dinastia rabbinica preso dalla rossa passione proletaria senza dimenticare le sue radici. Nell’agonia, dalla bisaccia di Bratzlavsky scivolano fuori mescolate mestamente le pagine dell’agitatore bolscevico e fogli del Talmud, i proiettili del combattente bolscevico e i filatteri di preghiera. Così il principe di una dinastia rabbinica dava la sua vita per la rivoluzione.
Il romanzo di Babel’ non piacque al generale Budjionny che andò su tutte le furie e protestò con Stalin per la sua pubblicazione. Babel’ non aveva rispettato i canoni della narrazione celebrativa. Curiosamente Stalin difese Babel’ e sbeffeggiò Budjonny. Ma non salvò il grande scrittore dalle accuse successive di trotskismo che lo fecero finire nel tritacarne delle micidiali purghe fra il ’37 e il ’39.

SULLE TRACCE DI BABEL’ sono volato ad Odessa, la «perla» che si adagia sul Mar Nero dove ho cercato ispirazione per un successivo spettacolo «Adesso Odessa», che ho messo in scena in collaborazione con un violinista virtuoso ebreo odessita, Pavel Vernikov, il più geniale umorista fra i grandi Violinisti. Odessa è stata una città con uno specialissimo carattere ebraico, a cavallo fra la metà dell’Ottocento e i primi quattro decenni del Novecento metà della sua popolazione era composta da ebrei.
Unici fra gli ebrei ashkenaziti a vivere sul mare, sorta di napoletani dell’ebraismo, hanno avuto dato vita ad un umorismo esplosivo che ne caratterizza lo spirito e la genialità. Babel’ li ha cantati nel suo altro capolavoro I racconti di Odessa. L’opera costituisce un’elegia commossa, ironica e appassionata su un “popolo” senza paragoni disperso dalle violenze della Storia che non ama le storie. Io nell’animo mi sento un ebreo odessita.

Gli yakuti: «Non siamo mai stati a Bucha»

IL LASCITO. L’immagine rilanciata dai media ritrae una brigata considerata responsabile del massacro. Ma sarebbe stata scattata nel 2019      

Luigi De Biase 08/04/2022

L’immagine oramai è nota perché molti quotidiani l’hanno pubblicata e commentata. Ci sono una trentina di ventenni in uniforme. Posano per una foto ricordo. Uno di loro tiene in mano una bandiera. La bandiera è della Repubblica Sakha, o Yakutia, nell’estremo oriente della Federazione russa.


Quelli sarebbero «i killer di Bucha», come ha scritto martedì il Corriere della Sera, oppure gli uomini del «battaglione siberiano, ultimo mostro del putinismo», per riprendere il titolo ancora più efficace scelto dalla Stampa.

Le immagini pubblicate dal musicista ucraino Oleksii Potapov sul suo profilo Instagram con il messaggio: «Presto conosceremo tutti i vostri nomi».

MA CON OGNI PROBABILITÀ nessuno di quei militari ha mai messo piede in Ucraina. Neanche in abiti civili. «La foto l’abbiamo scattata nel 2019, a Khabarovsk, all’inizio della leva», dice Vladimir Osipov, vent’anni, macchinista nel distretto di Namsky, un gruppo di villaggi e di case isolate tenuto insieme da una strada bianca a un paio di ore d’auto dalla capitale della Yakutia, Yakutsk. È da lì che riceve la videochiamata, che mostra la sua casa, che spiega come ha passato gli ultimi mesi. «In Ucraina non sono mai stato. Non ho mai preso parte ad alcun combattimento. Il servizio è durato due anni e l’ho svolto con la 64esima brigata, a Khabarovsk, nella base di Knyaze Volkonskoye. Ma la leva è finita a dicembre e io da allora ho sempre vissuto qui con la mia famiglia». Osipov è in quella fotografia, si trova al centro, nell’ultima fila. «Tutti coetanei e tutti yakuti. Per quel che ne so, tutti in congedo da dicembre». Con i terribili fatti accaduti a Bucha, ripete al telefono, «io non ho nulla a che fare».

Insomma, l’immagine che decine di quotidiani, non solo in Italia, hanno usato per dare un volto agli assassini di Bucha non mostrerebbe affatto i veri autori della strage. Il che non esclude e non riduce il ruolo dell’esercito russo in questa terrificante vicenda. Anzi. Le testimonianze raccolte proprio a Bucha negli ultimi giorni e le trasmissioni radio intercettate dall’intelligence tedesca che Spiegel ha riportato ieri confermano il metodo seguito sul territorio dell’Ucraina e portano nel quadro anche le truppe mercenarie del Gruppo Wagner. È chiaro a tutti, però, che la ricostruzione degli eventi e l’attribuzione delle responsabilità debbano necessariamente essere basate su elementi certi e concreti.

OGGI RICOSTRUIRE IL PERCORSO di quella foto è complesso. Alcuni punti sono, tuttavia, piuttosto evidenti. Il 4 aprile a Kiev Aleksey Arestovich, consigliere del presidente, Volodymyr Zelensky, e negoziatore al tavolo con i russi, ha diffuso l’elenco dei reparti che hanno occupato Bucha. L’elenco comprendeva una dozzina di sigle. La prima era proprio quella del reparto in cui è stato in servizio Osipov. Lo stesso giorno il portale di informazione InformNapalm, specializzato sulla guerra in Ucraina, ha reso accessibile un file con i dati di centomila cittadini russi che hanno svolto il servizio militare negli ultimi anni.

CON UN AVVERTIMENTO: queste tabelle contengono anche dati vecchi, quindi «dovrebbero essere trattate con cautela». È possibile immaginare che non tutti abbiano seguito il consiglio. Sempre il 4 aprile il musicista ucraino Oleksii Potapenko ha pubblicato sul suo profilo Instagram diverse immagini di Osipov, trovate forse attraverso i social network, compresa quella che è finita poi sui quotidiani. In calce Potapenko ha scritto un messaggio: «Ecco una foto dei soldati dell’unità militare 51460 del villaggio di Knyaz-Volkonskoye, nel territorio di Khabarovsk. Erano a Bucha. Presto tutti questi assassini, stupratori e predoni saranno conosciuti per nome». Il suo profilo Instagram ha due milioni di iscritti. Quel messaggio oltre centomila “mi piace”.

UNO DEI COMMILITONI di Osipov, un altro ventenne di nome Andrey, accetta di parlare a patto che non siano rivelati né il cognome, né il patronimico, né la località in cui si trova, sempre in Yakutia. La conversazione in video dura una decina di minuti. Anche lui è stato per due anni a Khabarovsk con la 64esima. Anche lui a dicembre ha lasciato l’esercito per fare ritorno alla vita civile. Nella foto è il terzo da sinistra. In testa indossa un berretto. «Assieme a quella fotografia, giorni fa, sono stati resi pubblici i miei dati personali. I primi ad accorgersene sono stati alcuni amici. Mi hanno avvertito. Mi hanno chiesto che cosa stesse succedendo. Ho ricevuto messaggi con insulti e minacce. Ero sotto shock. Come potete capire è una brutta situazione».

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