SÌ IL REDDITO HA RIDOTTO LA POVERTÀ: LO DICE L’INPS da IL FATTO
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SÌ IL REDDITO HA RIDOTTO LA POVERTÀ: LO DICE L’INPS da IL FATTO

Sì, il reddito ha ridotto la povertà: lo dice l’Inps

 Pasquale Tridico  1 Ottobre 2024

La presentazione del XXIII Rapporto annuale dell’Inps è l’occasione per riflettere sullo stato delle condizioni sociali e del mondo del lavoro in Italia. Il quadro che ne risulta è sicuramente impietoso. In una condizione di inflazione, conversione dell’economia e dell’intervento pubblico verso politiche di guerra e ritorno dell’austerità, in Italia si certificano le ricadute sociali delle scelte del governo Meloni. A iniziare dall’abolizione del Reddito e della Pensione di cittadinanza, vera e propria bandiera ideologica della destra nella crociata contro le classi popolari. Per l’Istat questo strumento aveva funzionato riducendo la povertà assoluta, il governo Meloni invece lo ha cancellato e sostituito in parte con l’Assegno di inclusione, e la povertà ha ricominciato a crescere toccando oggi 5,8 milioni di persone.

Per l’Inps questa nuova misura ha escluso dal sostegno pubblico oltre 300 mila nuclei familiari che percepivano il Reddito e la Pensione di cittadinanza, a causa delle intrinseche e restrittive caratteristiche della misura, con un’incidenza negativa soprattutto sul Sud Italia e sulle famiglie con soggetti di età avanzata e anche minori (proprio quelli che la retorica della destra aveva raccontato per mesi di voler proteggere perché non occupabili). Questi dati non ci sorprendono, perché il dimezzamento delle risorse per finanziare l’Assegno di inclusione (circa 4 miliardi di euro), rispetto a quelle stanziate per il Rdc, lasciavano facilmente presagire l’intento del governo.

Ancora meno sorprendente è il fallimento del supporto per la formazione e il lavoro. Secondo il Rapporto, sono solamente 102 mila i beneficiari della misura, con appena 3,7 mensilità medie percepite. I tentativi che il governo utilizza per “colpevolizzare” i destinatari dello Strumento formazione lavoro sono molto maldestri e non servono a mascherare il fallimento annunciato di una misura ideata per non funzionare. La verità è che la restaurazione del governo della destra è stato quello di demolire le misure di contrasto all’esclusione sociale dei governi Conte e di portare su un mercato del lavoro sempre più precario e sempre più caratterizzato dal lavoro povero e sottopagato quei soggetti che avevano trovato nel sostegno dello Stato uno strumento di non ricattabilità.

Su quest’ultimo aspetto, la condizione salariale del Paese è nota: la crescita dei salari in Italia, da decenni, è sostanzialmente nulla ed esiste una parte larga della popolazione che sbarca il lunario con salari al di sotto dei 9 euro lordi (circa il 30% su una platea di lavoratori formata da dipendenti privati, operai agricoli e lavoratori domestici). Il recente report sull’occupazione della Cisl ci ricorda che l’Italia è ultima in Europa per il tasso di occupazione e che il nostro mercato del lavoro è affetto da tre grandi e inevase criticità: divario territoriale, bassa occupazione e alta inattività giovanile, fortissimo divario di genere. Inoltre, con l’inflazione degli ultimi anni, la perdita di potere di acquisto per i lavoratori è stata in media del 15%. Di fronte a questa drammatica realtà, il furore ideologico della destra si scaglia contro chi sostiene il salario minimo, le misure di contrasto alla povertà, contro i poveri, e non contro la povertà, come accade quotidianamente sui giornali ideologicamente schierati, che contestano il salario minimo a 9 euro e ne indicano al massimo uno da 7 euro lordi all’ora, spiegando che comunque ci sono i contratti di lavoro. E poi quelli che sostengono la propaganda di governo secondo la quale siamo al record dell’occupazione mentre abbiamo il record del lavoro povero, o quelli che si consolano che lo 0,7% di crescita del Pil del 2023 sia più alto della Germania, mentre abbiamo visto crescere solo disuguaglianze e divari.

Una propaganda che tace sui fallimenti delle politiche del governo Meloni nel contrasto all’emarginazione sociale e alla povertà dilagante, sui salari bassi, sugli incomprensibili criteri di esclusione della carta dedicata “a te” del ministero dell’Agricoltura, con il numero degli esclusi 3 volte superiore ai beneficiari. Il disegno di questa destra è chiaro. Si vuole ripristinare integralmente un modello socioeconomico in cui alla povertà e all’emarginazione sociale non si risponde con un reddito minimo a tutela della dignità della persona, ma “arrangiandosi” in un mercato del lavoro sottopagato e precario. Non si vogliono strumenti efficaci e politiche attive di accompagnamento al lavoro di qualità, ma una concorrenza fatta di svalutazione del lavoro. Non si ricerca la crescita dei salari e la redistribuzione della ricchezza, ma lo sfruttamento integrale. È il solito e vecchio neoliberismo, per questo serve un’alternativa che non può che partire dalla dignità del lavoro, Stato sociale e diritti.

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