SE la POLITICA dei BONUS PRENDE il POSTO delle STATO SOCIALE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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SE la POLITICA dei BONUS PRENDE il POSTO delle STATO SOCIALE da IL MANIFESTO

Draghi, 516 giorni di politiche economiche conservatrici e fallimentari

LA CRISI. Bonus bruciati dall’inflazione, invece di vere riforme sociali strutturali. Dalla riforma fiscale ai bonus edilizi fino a una fantomatica “agenda sociale”. Gli effetti della policrisi capitalistica hanno colpito la parte più debole, e contraddittoria, della coalizione “senza formule politiche”: i Cinque Stelle. E continueranno a divorare la politica del Palazzo dall’interno

Roberto Ciccarelli  15/07/2022

Dopo 516 giorni il governo Draghi è stato piegato dai primi effetti prodotti dalla crisi economica sulla forza politica più indebolita, e contraddittoria, della sua maggioranza «senza formule politiche»: i Cinque Stelle. Incapace di imporre un’«agenda sociale», concessa da Draghi solo poche ore prima le sue dimissioni, questo partito capace di stare al governo con tutti non è però riuscito a imporre il suo progetto di «salario minimo» che giace nei cassetti del parlamento da quattro anni. In compenso ha accettato di peggiorare il «suo» reddito di cittadinanza, già pensato come una feroce politica di Workfare, con la legge di bilancio del 2021. Solo alla fine ha avuto un sussulto, quando la «sua» maggioranza ha votato un emendamento di Fratelli d’Italia al «decreto aiuti» che esautora i centri dell’impiego e attribuisce ai datori di lavoro privati un potere teorico e inapplicabile di denunciare i beneficiari del «reddito» che rifiutano un’«offerta di lavoro congrua». Troppo tardi. Le contraddizioni si pagano.

Insieme al termovalorizzatore che il Pd del sindaco Roberto Gualtieri vuole costruire a Roma, l’altro motivo della crisi politica è stato il superbonus 110%. Un’altra bandiera di un partito-non partito che ragiona con la logica delle «politiche identitarie». Su questa misura, e su tutti gli altri bonus, sull’edilizia c’è stata nella maggioranza una lotta senza quartiere. Il governo «Conte 2» li ha adottati pensando, non a torto, che la «crescita» del Pil sarebbe stata rilanciata nel paese dell’individualismo proprietario basato sul mattone. E, insieme al numero dei morti sul lavoro nei cantieri, questa idea «sviluppista» ha prodotto risultati. Nella necropolitica di un capitalismo in crisi, e dunque sempre più feroce, la misura ha alimentato un «rimbalzo tecnico» dopo il crollo colossale del Pil (-8,9%) avvenuto nel 2020 a causa dei lockdown necessari per contenere la diffusione del Covid. Il superbonus ha prodotto anche una fiammata dell’occupazione precaria e ha dato un parziale contributo della ristrutturazione energetica e antisismica. La polemica è scattata sugli abusi miliardari denunciati dall’Agenzia delle entrate, dalla Guardia di finanza e dalla Corte dei Conti. In realtà, il vero problema è stato creato da un altro bonus, quello «facciate», non sostenuto dai Cinque Stelle. Ecco un altro dei tanti equivoci di questi mesi.

Poi il caos: il governo è intervenuto con misure parziali, e confuse, che hanno bloccato le attività intraprese con il rischio di fallimenti a catena di piccole e piccolissime imprese, alcune delle quali nate negli ultimi tempi vista l’abbondanza dei fondi a disposizione. Così è emerso un aspetto decisivo per comprendere il segno del governo Draghi, e di quello che lo ha preceduto (il «Conte2»): il suo essere conservatore dal punto di vista sociale. Questa politica dei bonus ha avuto effetti distribuitivi molto spostati sui ceti medi e medio-alti. Non ha risolto nulla dell’emergenza abitativa, così come non ha trasformato nulla nello Stato sociale, l’unico strumento potenzialmente universale capace di contenere gli effetti della policrisi in corso dal 2020.

Il caso di scuola di questa politica neo-conservatrice, tipica dei regimi neoliberali esistenti, è quello della rimodulazione delle aliquote Irpef. Con questa manovra , contestatissima dai sindacati, il governo Draghi ha dato di più a chi ha di più e di meno a chi ha di meno. È stato penalizzato l’85% dei lavoratori e pensionati che hanno un reddito sotto i 40 mila euro. Una riforma fiscale regressiva che ha fatto un intervento sulle fasce meno abbienti e più in difficoltà, anziché dedicare risorse pubbliche a chi ha già tanto e poche briciole a chi stenta ad arrivare a fine mese.

Senza contare che gli effetti minimi di questa operazione sono stati divorati dalla mega inflazione esplosa solo poche settimane dopo. Lo stesso destino è riservato ai 200 euro distribuito a una platea di oltre 31 milioni di persone. Così ampia da rendere inutile la distribuzione di altri 5,6 miliardi. Una pioggerella nel deserto. È l’incapacità di immaginare un’altra politica davanti a eventi drammatici che hanno piegato il sistemagià travolto dal Covid. E continueranno a divorarlo dall’interno

Se la politica dei bonus prende il posto dello Stato sociale

Alle amministrative del 12 giugno ha votato solo il 28 per cento degli elettori a basso reddito. È una forma di protesta contro le istituzioni

Gaetano Lamanna  15/07/2022

Nelle recenti elezioni comunali oltre metà degli aventi diritto non ha votato. Ma l’astensionismo non coinvolge in egual modo tutti i cittadini. Una ricerca dell’Istituto Tecnè mostra il legame esistente tra motivazione al voto e condizione sociale. Così veniamo a sapere che il 12 giugno, alle amministrative, ha votato solo il 28 per cento degli elettori a basso reddito. La percentuale sale al 63 per cento tra i redditi medi e balza al 79 per cento tra i redditi alti. Chi sta meglio manifesta, dunque, una maggiore propensione al voto. Chi sta peggio ritiene inutile recarsi al seggio. Tra astensionismo e marginalità sociale, insomma, c’è correlazione. La classe sociale di appartenenza ha un peso rilevante nella partecipazione al voto e la questione non si risolve (solo) modificando la legge elettorale, come si vorrebbe far credere. Nell’ottica di chi sta in basso nella scala sociale e vede che non cambia nulla, il voto rappresenta una perdita di tempo, il non voto diventa una forma di protesta contro le forze politiche e le istituzioni in toto.

L’ultimo rapporto Istat, ci parla di condizioni di difficoltà e di povertà crescenti. Caro-vita e caro-energia, sommati al costo dell’affitto o del mutuo, stanno sconvolgendo il fragile equilibrio finanziario di milioni di famiglie. Basta poco, una malattia imprevista o la perdita del posto di lavoro, perché una famiglia monoreddito scivoli in povertà assoluta. Questo è lo stato di fatto: donne, giovani, lavoratori sopravvivono con lavori precari e salari di fame, i più bassi d’Europa, fanno i conti ogni giorno con un Welfare scassato e subiscono sulla propria pelle discriminazioni e ingiustizie. A questo punto sorge il dubbio che i decreti – Sostegni, Ristori, Aiuti – finanziati con 200 miliardi di scostamenti di bilancio (maggiore debito pubblico), siano stati concepiti male e spesi peggio.

In effetti, in Italia, le cose, non vanno male per tutti. C’è chi soffre per le ristrettezze economiche e chi, invece, scialacqua con i soldi pubblici. Il problema sta tutto qui. Ai benestanti, senza un battito di ciglia, il governo distribuisce 33 miliardi di «superbonus» per ristrutturare prima e seconda casa, ai poveri le briciole. La politica dei bonus prende il posto dello Stato sociale. E dopo trent’anni di pax salariale, di conflitto sociale moderato o inesistente, ci ritroviamo con processi di redistribuzione che risultano del tutto sganciati dai reali bisogni, seguono l’interesse dei più forti e contorti percorsi clientelari ed elettoralistici. Ci sono figli e figliastri. Con la manovra di bilancio e i provvedimenti fiscali, il governo Draghi, nel pieno di una crisi drammatica, è riuscito nell’operazione di tutelare profitti, rendite, patrimoni e posizioni di privilegio, trascurando i redditi da lavoro. Non ci potrebbe essere smentita più clamorosa della teoria (liberista) dello «sgocciolamento» (trickle-down). C’è poco da stupirsi, dunque, per il crescente astensionismo. Gli esclusi e i perdenti continueranno a disertare le urne, mentre i ricchi, i vincenti, anche gli evasori, andranno a votare, eccome, per le forze di destra.

Il Pd, nel ruolo di sentinella del governo Draghi, non sembra interrogarsi abbastanza su come recuperare al protagonismo sociale e democratico quel 72 per cento di cittadini a basso reddito che non va a votare. Si culla nel successo elettorale del centrosinistra alle amministrative di giugno. Eppure, la sorpresa positiva dei candidati «civici» di Verona e Catanzaro dovrebbe rafforzare, non ridurre, l’urgenza di una riflessione critica sulle ragioni dell’astensionismo. La vittoria in città storicamente difficili e moderate è da attribuire, infatti, più a un rapporto positivo con l’opinione pubblica dei neo-sindaci Damiano Tommasi e Nicola Fiorita, che non a particolari meriti del Pd locale. Il 7 per cento del Pd a Catanzaro, anzi, segnala una grave frattura politica, culturale e sociale con la città, oltre che con i segmenti più deboli della società. Viene espugnato il municipio ma il Pd registra un crollo di consensi.

Nel modo in cui è maturata la vittoria dei neo-sindaci di Verona e di Catanzaro c’è l’indicazione da seguire. Tommasi e Fiorita non hanno creduto nei sondaggi, all’agorà digitale e mediatica hanno preferito le piazze reali, si sono impegnati con i cittadini per servizi più efficienti, per una maggiore cura del territorio e dell’ambiente, per farla finita con l’opacità amministrativa nella gestione dei beni comuni e delle concessioni pubbliche.

Il ritorno al territorio – la politica fra la gente – è, dunque, la chiave di volta per la ripartenza della sinistra e per costruire un’alleanza democratica, ecologista e socialista, non un generico campo largo. Sul territorio si incrociano questione sociale e questione ambientale, è possibile calarsi nei problemi concreti, rintracciare un ricco capitale umano e sociale, oggi disperso, rassegnato e ininfluente, ma disponibile, se sollecitato, a mobilitarsi e a lottare. Fare politica sul territorio è l’unico modo per sconfiggere la sfiducia, la rassegnazione e l’astensionismo. E per provare a vincere.

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