LA DESTRA AI CITTADINI: SCUSATE IL DISAGIO, STIAMO LAVORANDO PER NOI da IL MANIFESTO
Due ore per 100mila firme. Il senato liquida i cittadini
AUTONOMIA . Respinta la proposta di legge popolare. Mai esaminata in commissione e posposta contro ogni logica alla riforma Calderoli
Domenico Cirillo 25/01/2024
Ieri l’aula del senato ha velocemente esaminato e in due ore bocciato la proposta di legge costituzionale popolare sull’autonomia regionale. È stata una prima prova per il nuovo regolamento di palazzo Madama che, adottato immediatamente dopo la crisi del governo e le dimissioni di Draghi nell’estate del 2022, doveva essere uno strumento indispensabile per consentire il funzionamento della nuova legislatura, la prima con un numero assai ridotto di parlamentari, questa.
Il nuovo regolamento – che la camera non è era riuscita a darsi – doveva servire anche a rendere finalmente operativo uno strumento di democrazia diretta previsto già nella Costituzione accanto al referendum abrogativo, le proposte di legge di iniziativa popolare, ma del tutto inapplicato nella prassi parlamentare. Malgrado richiedano la faticosa (e onerosa) raccolta delle firme, le proposte di iniziativa popolare sono rimaste sempre lettera morta. Con le nuove norme non avrebbe dovuto essere così. Non avrebbe.
È andata diversamente, in breve i fatti. Come parte della campagna contro il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, Il Coordinamento per la democrazia costituzionale ha proposto una legge costituzionale per modificare in più punti l’articolo 116 della Costituzione, quello che rivisto all’epoca della riforma (del centrosinistra) del Titolo V ha offerto alla Lega e ai presidenti delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna l’appiglio per chiedere la devoluzione di una lunga lista di funzioni e i relativi finanziamenti.
In pratica con quella modifica costituzionale la riforma Calderoli – che viceversa intende intaccare l’unità dello stato senza passare per la Carta costituzionale – sarebbe diventata impossibile. In sei mesi il Coordinamento ha raccolto più del doppio delle 50mila firme necessarie alla presentazione della proposta, anche perché il nuovo regolamento del senato sembrava offrire una prospettiva concreta all’iniziativa: non solo la commissione di merito deve esaminare il testo avanzato dai cittadini entro un mese dal deposito, ma l’aula deve metterlo all’ordine del giorno e votarlo passati tre mesi.
Il testo è stato depositato a luglio scorso, quando già la commissione discuteva della riforma Calderoli. Ma a novembre Massimo Villone, costituzionalista che i lettori del manifesto ben conoscono e che ha preparato il testo della proposta di legge, ha dovuto scrivere una lettera al presidente della prima commissione del senato Balboni, per sollecitare la trasmissione della proposta di legge in aula. La commissione infatti non aveva fatto passi in avanti, una forma di ostruzionismo di maggioranza contro l’iniziativa popolare. Ostruzionismo continuato in aula, dove il testo è giunto senza relatore, quando la maggioranza ha votato in modo del tutto illogico per anteporre nel calendario la discussione della proposta Calderoli – legge ordinaria – alla proposta popolare, costituzionale e in grado di bloccare l’altra.
E così, approvata tra lo sventolio dei gagliardetti leghisti la legge sull’autonomia differenziata martedì, ieri tra una commemorazione di Gigi Riva e altre varie ed eventuali, il presidente La Russa ha trovato due ore per la discussione della proposta di legge popolare. Liquidata con indifferenza dalla maggioranza mentre Balboni si lanciava in un elogio di Almirante. Poi il voto e la scontata e rapida bocciatura. Fine dei giochi. Tutta qui l’attenzione che il senato ha voluto concedere a 100mila e più cittadini, al loro desiderio di partecipazione e a chi ha proposto la raccolta delle firme e ne ha sostenuto le spese. Alla faccia del nuovo regolamento “aperto”. Una breve storia triste, da ricordare alla prossima discussione sull’astensione dal voto.
Meloni: l’odio dei poveri concentrato in una frase
WORKFARE. «Se non sei disponibile a lavorare – ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni – non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno». Un pensiero ricorrente quando si vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà
Roberto Ciccarelli 25/01/2024
L’odio dei poveri ha un motore: il lavoro. Quello che c’è ed è precario, brutale, pagato sempre peggio, talvolta persino gratuito. E, soprattutto, il lavoro che non c’è. Quello che i poveri definiti «occupabili» – cioè considerati «abili al lavoro» – devono inseguire, iscrivendosi alla cabala di corsi di formazione, sperando che portino a un lavoro, qualsiasi esso sia. E anche a 350 euro, sperando che arrivino. Perché nemmeno l’iscrizione a un corso potrebbe garantirlo, dicono le cronache di queste settimane.
Chi, tra gli «occupabili», si trova in questo girone infernale, ieri ha ricevuto un supplemento di pena da Giorgia Meloni nel «premier time». «Se non sei disponibile a lavorare – ha detto – non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno».
La frase è emblematica . Vuole dire che la povertà è colpa di chi non vuole lavorare. Perché è noto che oggi, chi tra i poveri lavora, sta bene. Si riscatta dalla colpa della povertà. Si emancipa dal bisogno. È assunto nel paradiso delle merci e ne gode beato. Di bestialità simili è disseminatala storia del capitalismo. Le dicevano già tra il 1597 e il 1601, quando Elisabetta I varò le prime «leggi sui poveri» in Inghilterra. Oggi, è cambiata l’epoca, ma siamo ancora allo stesso punto. I poveri, anche quando lavorano, non escono dalla povertà. Li chiamano working poors. L’anglismo serve a infiocchettare l’odiosità di una vita bisognosa, ma non serve a evitare gli insulti quando qualcuno perde il lavoro e non ne trova un altro.
La frase è anche lacunosa. Meloni, infatti, non ha detto che il suo governo è intervenuto sui criteri che regolano la «disponibilità a lavorare» del povero. Criteri che non riguardano la volontà di un individuo, ma che sono usati per condannarlo moralmente contrapponendolo a chi «lavora ogni giorno» e, magari, arriva a considerare «scroccone» o «lazzarone» chi riceve un sussidio.
Di preciso, parliamo dell’abbassamento della soglia dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee): da 9.360 a 6 mila euro annui. Non è una questione tecnica, ma politica. È questa norma ad avere escluso gli «occupabili» dall’accesso al «supporto per la formazione e per il lavoro», la misura a loro destinata, parallela all’«assegno di inclusione» destinato ai poveri ritenuti «inabili al lavoro». I dati sono stati forniti da Meloni: su 249 mila potenziali «occupabili» che percepivano il reddito di cittadinanza, solo 55 mila hanno presentato domanda, poco più del 22% della platea. «È possibile che alcune di queste persone abbiano trovato lavoro privatamente – ha detto la presidente del Consiglio – ma è possibile anche che alcune di loro non cercassero un’occupazione o preferissero lavorare in nero: questa è la ragione per la quale sono molto fiera del lavoro che abbiamo fatto».
Quale lavoro possa trovare chi ha un reddito Isee superiore ai 6 mila euro ma inferiore a 9.350 euro, è immaginabile. E non sorprenderebbe il fatto che sia «in nero». Meloni, anche qui, non ha detto l’essenziale: il problema non si porrebbe, se ci fosse un datore di lavoro disposto ad assumere con un contratto e non a sfruttare «in nero»; se ci fosse un governo disposto a disboscare la giungla dei contratti precari; se ci fosse un Welfare con un reddito di base, un sistema fiscale giusto, sanità e scuola pubbliche non stritolate nella morsa dell’aziendalizzazione. E un’«autonomia differenziata» all’orizzonte che farebbe un macello.
Attribuire le responsabilità di un sistema alle sue vittime è lo scopo di chi vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà. C’è chi è «fiera» di averlo fatto, come Meloni. A chi, invece, oggi la critica basterebbe ricordare che una soglia più alta non serve ad «abolire la povertà» come pure è stato detto da un balcone di palazzo Chigi.
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