SCHIAFFO UE SUGLI ANTIABORTISTI NEI CONSULTORI da IL MANIFESTO e C.P.D.
Schiaffo Ue sugli antiabortisti nei consultori
194 SOTTO ATTACCO. La Commissione europea prende le distanze dall’emendamento di Fdi: i pro-life non c’entrano niente con le risorse del Pnrr. Ma per Meloni Bruxelles dà retta alle fake news diffuse dalla sinistra italiana
Andrea Valdambrini, BRUXELLES 20/04/2024
Che c’entra il Pnrr con l’aborto? Nulla in realtà. Secondo la Commissione Ue, l’emendamento al decreto Pnrr proposto da FdI per l’inserimento dei movimenti pro-vita nei consultori non è legato al piano di ripresa e resilienza italiano. Che tradotto significa: è fuori posto.
LA SENTENZA SEGUE la domanda di un giornalista italiano di base nella capitale europea rivolta a Veerle Nuyts, portavoce agli Affari economici dell’esecutivo von der Leyen. È passato da poco mezzogiorno, quando esplode il caso, al momento della conferenza stampa quotidiana a Palazzo Berlaymont.
Nuyts ha spiegato che sebbene l’atto legislativo contenga misure relative alla struttura di governance del Pnrr, effettivamente connesse al piano di risanamento italiano, «altri aspetti non lo sono. In particolare, quello sull’aborto». Così, dopo giorni di accesa discussione (italiana ed europea) sul tema, la risposta della Commissione suona come una bocciatura di Roma da parte di Bruxelles. L’ennesima sul tema dei diritti, dopo che solo la scorsa settimana l’Europarlamento aveva approvato una risoluzione, per quanto non vincolante, per invitare il Consiglio europeo a includere l’interruzione volontaria di gravidanza nella carta dei diritti fondamentali dell’Ue.
NELLA RISOLUZIONE era compreso un esplicito richiamo all’Italia per la costante erosione di un diritto sempre più difficile da esercitare nel nostro sistema sanitario a causa del comportamento dei medici obiettori e degli ostacoli frapposti per decisione delle singole regioni. Il testo chiedeva anche lo stop dei finanziamenti ai gruppi anti-abortisti e pro-vita, che da parte loro non l’avevano presa troppo bene.
SUL VERSANTE EUROPEO, il nervosismo di Roma si era già fatto sentire. Giovedì, a margine del summit dei leader a Bruxelles, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva polemizzato a distanza con la ministra spagnola Ana Redondo. La responsabile di Madrid all’Uguaglianza da X aveva accusato l’Italia di «strategia intimidatoria dell’estrema destra» contro le donne e la leader FdI aveva replicato: «Se si è ignoranti, almeno si taccia».
Poi, attaccando «chi dà lezioni da fuori» e «diffonde fake news» sul suo operato «che poi rimbalzano all’estero», Meloni ha sostenuto che l’emendamento presentato nel decreto Pnrr ricalca esattamente lo spirito della legge 194. «Penso che per garantire una scelta libera si debbano avere tutte le informazioni e le opportunità del caso. Questo è quello che prevede la legge 194 e penso che sia la cosa giusta da fare».
SUL VERSANTE ITALIANO il diluvio di reazioni è arrivato ieri, dopo il pronunciamento della Commissione Ue. Collimano con quelle di Meloni le parole del portavoce di Pro Vita & Famiglia Jacopo Coghe, che invita le istituzioni europee a non farsi influenzare dalle fake news diffuse dalla sinistra italiana: «Non è vero che l’emendamento sulla collaborazione tra consultori e associazioni di sostegno alla maternità non c’entri col Pnrr», afferma, «visto che proprio la Missione 6 Salute del Pnrr prevede la realizzazione di strutture di prossimità per l’assistenza sanitaria territoriale, le cosiddette Case della Comunità, compresi i servizi dei consultori».
Riccardo Magi, segretario di +Europa parla al contrario di uso approssimativo e improprio dei fondi Pnrr e definisce l’atteggiamento del governo «un’offesa alle donne, alla libertà e alla dignità». Non difformi, per una volta, le reazioni di Pd, Avs e M5S, convinti della bontà del richiamo da parte di Bruxelles. «Inutile avere una premier donna, se non difende i diritti», affonda poi la dem Chiara Braga, mentre il verde Bonelli stigmatizza come «inaccettabile» la volontà della maggioranza far entrare nei consultori gli anti-abortisti e gli integralisti religiosi.
NEL PROSSIMI GIORNI il decreto legge Pnrr approderà in aula al Senato, dove da ieri è incardinato in commissione Bilancio. E dopo aver creato una crepa nella maggioranza alla Camera, con 15 leghisti e un forzista astenuti su un emendamento Pd in favore del diritto all’aborto, i dem annunciano azioni analoghe a Palazzo Madama.
Il fascismo e le donne – Capitolo XXX
Qual era l’atteggiamento del fascismo verso la donna? Più che dalle parole, cerchiamo di ricavarlo dai fatti. Nel 1927 i salari femminili vennero ridotti alla metà di quelli corrispondenti maschili, che avevano già subito una forte riduzione. Altro che salario eguale per lavoro eguale, come diceva il vecchio slogan femminista! Il lavoro della donna valeva esattamente la metà di quello del suo collega, ed era già molto se non le veniva tolto del tutto. Infatti secondo l’ideologia fascista la sua “missione” era una sola, come ricordò più volte Mussolini nei suoi discorsi: quella di “far figli, molti figli, per dare soldati alla patria”. Lo slogan “la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo” era scritto sulle facciate delle case di campagna, e sulle copertine dei quaderni che le “piccole italiane” usavano a scuola. La prolificità veniva esaltata al massimo, quasi fosse la miglior qualità femminile: ad esempio, ogni settimana apparivano su La domenica del corriere fotografie di donne circondate da dodici o tredici figli, e insignite di una medaglia per il semplice fatto di averli messi al mondo. Avere un’abbondante figliolanza era un grande titolo di merito di fronte al regime, anche se poi le famiglie numerose nuotavano nella miseria e i bambini non avevano da mangiare. Naturalmente qualsiasi idea di controllo delle nascite era severamente bandita, e furono anzi inasprite nel codice Rocco le pene contro ogni forma di educazione demografica, che veniva considerata un attentato “all’integrità della stirpe”.
La donna, dunque, fu relegata in casa a far figli, e furono emanate addirittura delle leggi per impedirle di svolgere un’attività extracasalinga, soprattutto se di tipo intellettuale. La prima offensiva si ebbe nell’insegnamento. Nel ’27 si esclusero le insegnanti dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, poi si tolsero loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, e infine si vietò che fossero dirigenti o presidi di istituto. Quindi, per estirpare il “male” veramente alle radici, si raddoppiarono le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare.
Una seconda offensiva riguardò i pubblici impieghi. Una legge deI ’33 limitò notevolmente le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti. Esse furono praticamente eliminate dalle carriere di categoria A e B, e furono ammesse, salvo rare eccezioni, solo a quelle C. Più tardi, un decreto precisava addirittura quali impieghi statali potessero essere loro assegnati, e furono naturalmente i meno qualificati e peggio retribuiti: quelli di dattilografa, stenografa, segretaria, addetta alla raccolta di dati statistici, agli schedari, alle biblioteche. La carica di segretario comunale era invece troppo importante per essere ricoperta da una donna, come precisò una sentenza del Consiglio di Stato.
In quindici anni, dal 1921 al 1936, la percentuale delle donne che svolgevano attività extradomestiche passò dal 32,5 per cento al 24 per cento. Inoltre quelle rimaste erano guardate male: si diceva che lavoravano per comprarsi le calze di seta, si raccontavano delle barzellette sulla loro ocaggine, si mettevano in berlina nelle vignette umoristiche, dove apparivano invariabilmente sedute sulle ginocchia del “principale”. Insomma l’immagine della donna come essere pensante fu umiliata in tutti i modi, mentre fu esaltata al massimo quella di generatrice di figli e di oggetto sessuale. Infatti, mentre da una parte si gonfiava il mito della virilità, di cui Mussolini e i gerarchi erano diventati i campioni nazionali, dall’altra si creava quello di una femminilità, intesa come totale sudditanza all’uomo.
É esattamente questa l’espressione che usa il teorico fascista Loffredo, nel suo libro Politica della famiglia, edito da Bompiani nel ’38. “La donna deve ritornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo, padre o marito; sudditanza e, quindi, inferiorità spirituale, culturale ed economica” si legge a pagina 361. E basterebbe questa frase, senza alcun commento, per condannare tutto il fascismo come fenomeno di oscurantismo, di regressione storica e culturale.
Ma è anche interessante vedere in che modo si deve arrivare a questa “sudditanza”, giacché lo stesso Loffredo non lascia le cose a metà e ce lo spiega. “Gli stati che vogliono veramente eliminare una delle cause più notevoli di alterazione del vincolo familiare… devono adottare una misura veramente rivoluzionaria: riconoscere il principio del divieto dell’istruzione professionale media e superiore della donna, e, quindi, modificare i programmi d’istruzione, in modo da impartire alla donna un’istruzione (elementare, media ed anche universitaria, se occorre) intesa a fare di essa un’eccellente madre di famiglia e padrona di casa.” Alle donne, dunque, si doveva impedire di studiare, in modo da poter loro impedire successivamente di fare un lavoro qualificato, e quindi di essere indipendenti economicamente e moralmente: esattamente l’opposto di quanto avevano sempre sostenuto i movimenti femministi, che infatti si proponevano l’emancipazione invece che la sudditanza femminile.
L’avventurosa storia del femminismo di Gabriella Parca
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. – Milano – Prima edizione Collana Aperta maggio 1976
Seconda Edizione Oscar Mondadori marzo 1981
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