REGIONI IN AFFANNO SUI LEA. DEBITO PUBBLICO SFIORA I 3.000 MILIARDI da IL MANIFESTO e QUI FINANZA
Trattativa sulle liste d’attesa. Regioni in affanno sui Lea
SANITÀ. In 8 territori non sono garantiti i Livelli essenziali di assistenza, l’anno prima erano 7. Un emendamento ridarà i controlli al livello locale ma con «potere sostitutivo del ministro»
Andrea Capocci 16/07/2024
Prima ancora che l’autonomia differenziata entri in azione, l’Italia della salute è già frammentata. Un ventennio di federalismo sanitario ha favorito le disuguaglianze e la «competizione virtuosa» è rimasta sulla carta (costituzionale). La fotografia dello spezzatino indigesto arriva dal rapporto annuale del ministero della salute sui cosiddetti Lea, sigla per Livelli essenziali di assistenza, una specie di pagella di fine anno per i servizi sanitari regionali. Secondo il rapporto presentato ieri a Roma, la performance sanitaria media migliora. È un dato fisiologico visto che i dati si riferiscono al 2022, primo anno post-pandemico. Il progresso però nasconde un divario crescente tra un territorio e l’altro.
LE REGIONI che non raggiungono la sufficienza in tutte e tre le materie (ospedale, territorio e prevenzione) adesso sono 8. Non 12, come incautamente anticipato nello scorso febbraio a causa di una trasmissione tardiva dei dati. Ma comunque più delle 7 di un anno fa, quando i dati si riferivano al 2021. Quest’anno si è aggiunto l’Abruzzo che fa compagnia al solito pacchetto di regioni meridionali (Sardegna, Sicilia, Calabria, Campania e Molise), alla Val D’Aosta e all’Alto Adige, che a causa dei movimenti no vax viene regolarmente bocciata dal ministero nell’area delle coperture vaccinali. Al contrario, migliorano in tutte le materie Lombardia, Veneto e Piemonte. La sanità, già largamente regionalizzata, fa presagire quanto potrebbe succedere in altri settori grazie all’autonomia differenziata. Innanzitutto, è impossibile fissare livelli essenziali di prestazioni realistici senza garantire le risorse adeguate al loro raggiungimento. Inoltre, autonomia non fa rima con equità: tra le regioni inadempienti ci sono 4 delle 5 regioni a statuto speciale, che godono di un regime di autonomia ancora maggiore. Si salva solo il Friuli Venezia Giulia, che però è l’unica regione in cui le prestazioni sanitarie peggiorano in tutte e tre le aree monitorate. Non proprio lo spot migliore per la riforma.
ANCHE IL RITARDO di quasi due anni con cui arriva il rapporto sui Lea la dice lunga sull’inadeguatezza organizzativa delle amministrazioni regionali. Lo ammette lo stesso Domenico Mantoan, direttore generale dell’Agenzia per i Servizi sanitari regionali (Agenas), nel presentare il rapporto: «I dati nascono digitalizzati, abbiamo il fascicolo sanitario elettronico, il 15 luglio 2024 bisognerebbe presentare i dati del 2023», non quello di due anni fa. Il monitoraggio appena pubblicato determinerà l’accesso delle regioni a una quota premiale di finanziamenti, che avrà effetti verosimilmente nell’anno successivo. In questo modo tra la «fotografia» della sanità e le sue conseguenze passano quasi tre anni. Lo fa notare una nota della regione Campania secondo cui nel 2023 (anno successivo al monitoraggio) «pur essendo la regione con il minor riparto nazionale del Fondo Sanitario e con oltre 12mila dipendenti in meno rispetto alla media nazionale, ha superato i target previsti».
LA DIALETTICA tra regioni e governo centrale agita anche il percorso della conversione del decreto Liste d’attesa. Dopo la bocciatura da parte della Conferenza Stato-Regioni guidata dal leghista Fedriga, il governo ha accettato una parziale marcia indietro. Sarà riformulato l’articolo 2 che sottraeva alle regioni la vigilanza sui tempi di esami e interventi, ricorrendo anche alle ispezioni. Un emendamento del governo la riaffiderà alle Regioni: per il presidente della commissione sanità del Senato Francesco Zaffini, tuttavia, «resta il potere sostitutivo del ministero della Salute, laddove le regioni non agiscono per rimuovere le cause dell’inefficienza».
RIMANE INSODDISFATTA l’altra criticità sollevata, che probabilmente interessa più degli equilibri tra poteri: i soldi. Per allungare l’orario di lavoro dei medici e acquistare prestazioni dal privato, le regioni devono sottrarre risorse ad altri capitoli di spesa (leggi «servizi per i cittadini») perché il decreto non prevede fondi aggiuntivi. Su questo il governo non lascia spiragli. I tempi stringono: per non scadere, il dl va convertito entro il 6 agosto alla Camera. La riscrittura, che richiede anche l’ok del ministero dell’Economia, ha bloccato l’iter al Senato. Per neutralizzare le liti nella maggioranza servirà il voto di fiducia.
Il debito pubblico italiano sfiora i 3mila miliardi: il peso sui cittadini
Matteo Runchi 15 Luglio 2024
Il debito pubblico italiano continua a crescere e sfiora i 3mila miliardi di euro, pesando sempre di più sui cittadini
Il debito pubblico italiano punta verso i 3mila miliardi secondo al Banca d’Italia
Il debito pubblico italiano si avvia verso i 3mila miliardi. Nel mese di maggio lo Stato ha accumulato altri 13 miliardi da restituire ai propri creditori, portando il totale a 2.919 miliardi di euro. Si tratta del record nominale per il nostro Paese, che conferma di avere una delle situazioni debitorie peggiori d’Europa.
La ragione principale di questo aumento è da ricondurre al fabbisogno della pubblica amministrazione. Pesano però anche i premi per i titoli di Stato, la variazione dei tassi di cambio che ha indebolito l’euro nei confronti del dollaro e la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione. Sono le amministrazioni centrali ad aver creato debito, mentre quelle locali lo hanno leggermente ridotto.
Aumenta il debito pubblico italiano: quasi 3mila miliardi
Il debito pubblico italiano è cresciuto di 13 miliardi di euro a maggio, in confronto ad aprile 2024. Su base annua, l’incremento è invece di 99 miliardi di euro. Lo riportano i dati della Banca d’Italia, inseriti nel rapporto sulla finanza pubblica. Buona parte dell’aumento del debito si deve alla crescita del fabbisogno delle amministrazioni pubbliche centrali, pari a 13,6 miliardi di euro. Si è invece ridotto quello delle amministrazioni locali, di 300 milioni di euro.
Altri fattori che hanno portato all’aumento del debito sono il cambio sfavorevole con il dollaro della moneta unica, l’aumento dei costi dei titoli indicizzati all’inflazione e il pagamento dei premi dei titoli di Stato. In positivo, oltre al risultato degli enti locali, ha agito anche una riduzione delle disponibilità liquide del ministero del Tesoro, di 300 milioni di euro.
Con questo risultato, l’Italia sfiora i 3mila miliardi di euro di debito. Precisamente, il nostro Paese ha un passivo di 2.918,9 miliardi di euro. A detenere il debito delle amministrazioni pubbliche è principalmente la Banca d’Italia e le banche italiane. In senso relativo però, più del 25% del debito italiano, la fetta più ampia, è in mano a non residenti.
Il peso del debito pubblico sui cittadini
Questo aumento di debito pubblico rappresenta un peso non indifferente sui cittadini italiani. Dividendo l’intera cifra per l’attuale popolazione residente nel Paese (circa 59 milioni di persone) si ottiene una cifra di debito pro capite di poco superiore ai 49mila euro. Si tratta di più di un anno e mezzo dello stipendio medio di un lavoratore, che in Italia risulta essere di circa 33mila euro all’anno. Nonostante le intenzioni del governo però, la situazione continuerà a peggiorare ancora per alcuni anni.
Il Governo ha già previsto un aumento del debito pubblico oltre i 3mila miliardi di euro nel 2025. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha già da tempo intavolato una trattativa con l’Unione europea per il rientro in margini accettabili della situazione debitoria dello Stato. Il programma sarà di sette anni, coinvolgendo la legislatura in corso per intero.
Il picco del debito pubblico italiano dovrebbe essere raggiunto nel 2027, quando toccherà i 3.306 miliardi di euro. Da quel momento però le strategie dell’esecutivo dovrebbero iniziare a dare i primi frutti e il passivo dovrebbe cominciare a calare. Anche il rapporto tra debito e Pil continuerà a crescere, seppur in maniera moderata, fino al 2026, sfiorando, senza però raggiungere, il 140%.
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