POVERTÀ SOMMERSA da IL MANIFESTO e OFFICINA DEI SAPERI
Povertà sommersa
CRISI CLIMATICA. Piogge estreme e mareggiate eccezionali colpiscono più chi ha di meno. Piani di difesa, evacuazione e mitigazione restano roba da Paesi ricchi. Una nuova frontiera delle disuguaglianze
Enzo Pranzini 07/11/2023Non parliamo di quella che sfugge ai censimenti o alle inchieste e neppure di quella che si annida negli scantinati e sotto i ponti delle megalopoli, ma della povertà che viene sommersa dall’acqua durante gli uragani e le mareggiate. Due studi pubblicati recentemente su Science consentono di avere un quadro di quanto le popolazioni più povere siano colpite da eventi alluvionali per piogge estreme e mareggiate eccezionali.
CIRCA 1,8 MILIARDI di persone vivono in aree dove è elevato il rischio di inondazione e di questi nove su dieci hanno un reddito inferiore a cinque dollari e mezzo al giorno. Vivono in paesi poveri o aree depresse di paesi in via di sviluppo. Qui non ci sono opere che possano attenuare gli effetti degli eventi estremi: canali, argini e barriere, come il Mose di Venezia. La povertà non consente di mitigare gli impatti.
L’EUROPA SETTENTRIONALE, dalla Scozia alla Svezia, è stata colpita nei giorni passati dalla tempesta Babet, che ha causato alcuni morti e messo in ginocchio molte comunità. Ma cosa avrebbe provocato in paesi privi di difese e piani di evacuazione? I luoghi colpiti si risolleveranno presto, per interventi governativi o grazie alle assicurazioni subito sollecitate dal ministro dell’industria danese a risarcire rapidamente i danneggiati.
Se visiteremo quei paesi la prossima estate, molto probabilmente non ci accorgeremo neppure dell’inferno che si è scatenato nei giorni passati. Nei paesi poveri un’alluvione può cancellare anche i piccoli sforzi fatti per passare dalla fame a un livello minimo di sussistenza; e ripartire, senza aiuti, è pressoché impossibile.
SE VOLESSIMO valutare il danno economico potenziale di un tale evento nei vari paesi, vedremmo che è massimo nei paesi ricchi, dove vi sono insediamenti e strutture molto costose, mentre risulterebbe insignificante dove a finire sott’acqua sono baracche e strade sterrate. Ma gli adattamenti agli eventi estremi riducono il danno economico reale nei paesi ricchi, ma lo lasciano inalterato nel sud del modo. I 22mila km di argini fluviali e marini e le barriere mobili alla foce dei fiumi consentono a nove milioni di olandesi di vivere sotto al livello del mare.
L’impatto degli eventi estremi è maggiore nei confronti delle popolazioni più povere, anche perché qui sono gli «ultimi» a essersi insediati in un territorio in cui le classi agiate avevano già scelto le posizioni più sicure. E per ultimi s’intende anche in ordine di tempo, dato che nei decenni passati l’occupazione delle aree inondabili è stata maggiore nei paesi a basso reddito che non in quelli più ricchi.
SONO I POVERI che dalle campagne si spostano nelle aree urbane che vanno a occupare terreni marginali, spesso sul bordo dei fiumi o lungo la costa, dove questa non è un attrattore turistico, per non parlare degli insediamenti su palafitte o piccole barche affiancate l’una all’altra, tipiche del sud-est asiatico che, con l’area sub-sahariana, è una di quelle in cui dalla povertà non si riesce a emergere, ma si viene sommersi.
Nel nostro paese gli eventi meteorologici estremi (ora abbiamo Ciaran!) determinano alluvioni che, per intensità e tempi di recupero, ci pongono più vicino al Bangladesh che all’Olanda. Ma se confrontiamo il reddito pro capite calcolato del Fondo Monetario Internazionale per l’Italia (circa 100 dollari al giorno) con quello degli altri due paesi (5 il Bangladesh e 150 l’Olanda) ci rendiamo conto che la nostra posizione dovrebbe essere ben diversa.
OVVIAMENTE VI SONO differenze geografiche che rendono complessi questi confronti, ma l’Olanda è il paese in cui il danno economico potenziale delle alluvioni è il più elevato al mondo per l’elevata infrastrutturazione e per il fatto che buona parte della sua superficie è posta sotto al livello del mare. Ma secoli di cura del territorio, con anche la realizzazione di opere idrauliche innovative, hanno consentito di ridurre in modo drastico il rischio di una sua sommersione, se non in aree in cui questa è programmata per salvare i centri urbani.
In Italia, l’urbanizzazione selvaggia, nelle aree golenali e nelle parti più basse delle pianure alluvionali, ha esposto la popolazione, e non certo quella più ricca, a un rischio che le variazioni climatiche rendono sempre più elevato.
L’IDEA DI RENDERE obbligatoria l’assicurazione per i danni da eventi estremi, cosa forse possibile dove non vi sono sacche di povertà, metterebbe ancora più in difficoltà i meno abbienti, dimenticando che buona parte delle colpe di questa situazione è da attribuirsi a chi ha governato, o non-governato, il territorio.
Non basta il passaggio dalla sanità pubblica a quella privata, si arriverà a che la difesa del suolo, o gli effetti della non difesa, saranno a carico dei singoli cittadini. Ma così lo Stato a che serve?
Clima, pochi aiuti per il sud del mondo
SUMMIT. A novembre si svolgerà la Cop28 a Dubai. Non c’è ancora il fondo per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare i cambiamenti climatici
Michele D’Amico 07/11/2023
Il prossimo novembre sarà il mese della Cop28 di Dubai. Ci avviciniamo all’appuntamento con molte domande sul futuro dei nostri ecosistemi. C’è una questione, però, che forse più di tutte non può essere trascurata e rinviata: la richiesta di risarcimento da parte delle popolazioni del Sud del mondo ai Paesi sviluppati per i danni irreversibili causati dalle emissioni e dalle condizioni meteorologiche e climatiche estreme.
Dal 30 novembre al 12 dicembre 2023, sul tavolo dei negoziati si dovrà dar vita a quello che è stato ribadito il 3 maggio nella 14° Petersberg Climate Dialogue di Berlino: aiutare le comunità fragili, come quelle dell’Isola Marshall, che, malgrado i numerosi sforzi di adattamento, rischiano di scomparire. E attuare il «Loss and Damage» approvato a Sharm el-Sheik. Ma fino ad ora non è stata definita la forma che assumerà, non sono stati individuati i Paesi che dovranno contribuire e quelli che avranno il diritto di ricevere i fondi.
Non sappiamo quanto dovrebbero versare gli Stati nel fondo e quali sono esattamente i Paesi e le istituzioni finanziarie che gestiranno le entrate economiche. Il rischio di arrivare alla prossima Conferenza delle Parti impreparati è reale. Mancano sei mesi e il sultano Ahmed Al Jaber, presidente della Cop28 e dirigente della Abu Dhabi National Oil Company, ha già anticipato: «Se il mondo non escogita meccanismi efficaci per fornire finanziamenti per il clima alle economie in via di sviluppo ed emergenti, queste non potranno non scegliere un percorso di sviluppo ad alta intensità di carbonio». E ha poi aggiunto: «Sappiamo che i combustibili fossili continueranno a svolgere un ruolo nel prossimo futuro nell’aiutare a soddisfare il fabbisogno energetico globale. Il nostro obiettivo dovrebbe essere focalizzato sulla garanzia di eliminare gradualmente le emissioni da tutti i settori».
DI FRONTE A QUESTO SCENARIO e ai vari annunci di voler coniugare giustizia climatica giustizia sociale, sembrano ancora attuali le parole pronunciate nella plenaria di chiusura della Cop27 dall’olandese Franciscus Timmermans, del Partito del Lavoro (PvdA) e Commissario per il clima e il Green Deal europeo: «Non siamo stati all’altezza delle azioni per evitare e ridurre al minimo perdite e danni. Avremmo dovuto fare molto di più. Ciò significa ridurre molto più rapidamente le emissioni.
È così che contrastiamo il cambiamento climatico». In altri termini, occorre un’azione congiunta tra i maggiori emettitori, quelli indicati dal Rapporto CO2 emissions of all world countries pubblicato dalla Commissione europea: Cina, Usa, Paesi europei, India, Russia, Giappone. Perché il tempo a disposizione è poco: se gli attuali livelli di emissione persistono, ci dicono gli scienziati, la soglia critica di 1,5° del riscaldamento globale potrebbe essere raggiunta e superata in nove anni.
Ritornando alla questione dei finanziamenti, possiamo dire che in fin dei conti all’Expo City Dubai la negoziazione potrebbe concludersi con l’attuazione di un piano per il clima già visto, quello del Green Climate Fund destinato ai Paesi in via di sviluppo. Istituito formalmente nel 2010, il Gcf non sta ottenendo i risultati auspicati: l’accesso al credito è troppo difficoltoso.
Per Oxfam non ci sono dubbi: la rendicontazione dei finanziamenti internazionali per il clima è viziata e ingiusta. Il vero valore del contributo nel 2020 è tra 21 e 24,5 miliardi di dollari, a fronte di una cifra di 68,3 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici dichiarata dai Paesi ricchi. «La nostra finanza climatica globale è un treno rotto: decisamente difettosa e ci fa correre il rischio di raggiungere la catastrofe come destinazione. Ci sono troppi prestiti che indebitano i Paesi poveri che stanno già lottando per far fronte agli shock climatici, e sono troppe le segnalazioni di scarsa trasparenza.
IL RISULTATO È CHE I PAESI PIÙ VULNERABILI non sono preparati ad affrontare la furia della crisi climatica», ha puntualizzato Nafkote Dabi, responsabile delle politiche climatiche di Oxfam. Ed è proprio la cancellazione del debito il vero nodo da sciogliere che spesso viene ignorato quando si parla di crisi climatica e di transizione energetica. Lo ha confermato anche ActionAid. Il legame debito-impatto climatico è un pericoloso circolo vizioso. Il dossier The Vicious Cycle ,pubblicato ad aprile dalla onlus, ha rivelato che il 93% dei Paesi vulnerabili al clima è a rischio significativo di indebitamento, ed è dipendente dalle politiche e dalle condizioni stabilite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che è sia il prestatore di ultima istanza sia il riscossore.
PERTANTO I FINANZIAMENTI PER IL CLIMA hanno senso soltanto se non alimentano la crisi economica del Paesi fragili, e se non vengono sottoposti ai vincoli e controlli come quelli del Fmi e della Banca Mondiale. Il Fmi considera il pagamento del debito una priorità assoluta, a prescindere dalle altre priorità che i governi potrebbero avere (sanità, istruzione, adattamenti climatici, ecc). Una mannaia per chi vive nei Paesi poveri, perché i debiti non consentono ai governi di poter investire nei servizi pubblici principali. I tagli sono inevitabili quando la spesa è più del 12% delle entrate.
Se la percentuale supera il 14%, poi, il Paese finirà in default. E le principali vittime delle crisi sono le donne: le prime a perdere l’accesso ai servizi, le prime a perdere posti di lavoro pubblico, le prime a farsi carico del lavoro di assistenza e cura non retribuito che aumenta quando il servizio pubblico fallisce o quando si verificano disastri causati dal clima.
Più in generale, questo circolo vizioso condiziona le politiche e l’autonomia degli Stati: è il volto del colonialismo che costringe i governi ad adeguare le loro economie e la società alle richieste del mercato globale per ripagare i loro debiti, per lo più in dollari. E così per guadagnare in valuta estera, i Paesi a basso reddito facilitano l’agricoltura chimico-industriale, la deforestazione, l’industria estrattiva. Distruggono l’ambiente e calpestano i diritti umani.
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