PERCHÈ gli INDIVIDUI ADERISCONO AI REGIMI da IL MANIFESTO e MALVINO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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PERCHÈ gli INDIVIDUI ADERISCONO AI REGIMI da IL MANIFESTO e MALVINO

Perché gli individui aderiscono ai regimi

TOTALITARISMI. Un’anticipazione dal convegno che si terrà a Venezia dal 19 al 21 maggio «Critica e prassi. Gramscismo e Scuola di Francoforte a confronto». L’estratto analizza l’interpretazione del fascismo – e le divaricazioni del pensiero fra i vari studiosi – in Friedrich Pollock, Max Horkheimer, Franz Neumann

Stefano Petrucciani  15/05/2022

Nella Scuola di Francoforte una riflessione di ampio respiro sul fascismo e sul nazismo comincia quando quest’ultimo ha ormai occupato il potere, e precisamente con le analisi di Friedrich Pollock sulla crisi economica e le tendenze verso la regolazione autoritaria dell’economia (1933) e con il saggio di Herbert Marcuse La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, del 1934. La prospettiva che si delinea in questa prima fase è quella di leggere lo Stato autoritario, restando dentro un orizzonte marxista, come un’adeguazione della forma politica alle trasformazioni dell’economia e, in particolare, alla fine dell’epoca del liberalismo concorrenziale e allo sviluppo del capitalismo dei grandi monopoli.
Già nello stesso periodo si viene anche delineando, però, quello che sarà uno degli aspetti più originali della riflessione francofortese sul fascismo, e cioè l’interrogazione su quali siano le tendenze profondamente radicate nella psiche e nell’inconscio che portano gli individui ad aderire alle ideologie politiche fasciste e a mettersi al seguito dei «duci».

È QUESTO L’OGGETTO della prima grande ricerca interdisciplinare promossa dall’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, gli Studi sull’autorità e la famiglia che, dopo un paio d’anni di progettazione e di lavoro, vengono pubblicati nel 1936 a Parigi, dove l’Istituto francofortese, di cui facevano parte prevalentemente studiosi di origine ebraica, si era trasferito a seguito della presa di potere nazista.
Nel grosso volume, la più approfondita riflessione sulla psicologia dell’autoritarismo è ovviamente quella dello psicoanalista Erich Fromm che firma la «Parte sociopsicologica» della ricerca, dove si stabilisce una precisa connessione tra crisi sociale, famiglia patriarcale, sviluppo del tipo caratteriale sado-masochistico e consenso ai regimi totalitari.
Già da questo primo sguardo sugli esordi della riflessione francofortese intorno al fascismo risulta che essa si declina soprattutto come tentativo di rispondere a due domande fondamentali: una domanda sociologica o socioeconomica, come definire l’assetto sociale cui i regimi totalitari, e in particolare il nazionalsocialismo, danno vita; e una sociopsicologica, cioè quali forze interiori e quali dinamiche inconsce spingano gli individui a sostenere i regimi totalitari.
Si tratta di due interrogativi fondamentali, sui quali i pensatori francofortesi hanno potuto, giustamente, versare fiumi d’inchiostro e anche polemizzare tra di loro. Si potrebbe anche osservare però, a questo proposito, che accanto a queste due domande ne manca una non meno importante, che invece è assai più presente nelle riflessioni di Gramsci sul fascismo: quali sono i fattori storici che hanno determinato l’affermazione politica dei regimi fascisti o nazisti in diversi paesi europei? Si potrebbe dire, insomma, che nell’approccio francofortese al fascismo incontriamo una questione sociologica e una psicologica, ma non incontriamo la questione propriamente politica.

NELLA PRIMA FASE la lettura francofortese del fascismo, formulata nel già ricordato saggio marcusiano del 1934, sottolinea polemicamente come il fascismo non debba essere inteso quale negazione dell’ordine liberale, ma piuttosto come un suo prodotto o un suo esito: «il passaggio dallo Stato liberale allo Stato totalitario e autoritario si compie sulla base dello stesso ordine sociale. Tenendo presente questa base economica unitaria si può dire che sia il liberalismo stesso a ‘generare’ lo Stato totalitario e autoritario, che ne è il perfezionamento in uno stadio avanzato dello sviluppo. Lo Stato totalitario e autoritario fornisce l’organizzazione e la teoria della società che corrispondono allo stadio monopolistico del capitalismo».
A questo proposito c’è un punto che va subito messo a fuoco: l’idea che il sistema economico si avviasse ad assumere la forma di un capitalismo organizzato, con un intervento dello Stato molto più ampio rispetto a quello dell’epoca liberale, era sicuramente, nel periodo tra le due guerre, una convinzione molto diffusa, ben al di là della Scuola di Francoforte.

NEGLI STESSI ANNI anche Gramsci annotava nei suoi Quaderni che «l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica (…)». Nella Scuola di Francoforte, però, tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta, questa tematica viene portata fino all’estremo, cioè fino allo sviluppo di un concetto di «capitalismo di Stato» che sarà esplicitamente teorizzato da Friedrich Pollock nel saggio del 1941 State Capitalism, e che sarà ripreso anche nella riflessione di Horkheimer.

SU QUESTO PUNTO si aprono, nella Scuola di Francoforte, divaricazioni profonde. Mentre Horkheimer sposa in buona misura le tesi di Pollock (al quale, tra l’altro, lo legava da sempre una solidissima amicizia), molti altri studiosi del gruppo le contestano decisamente. Tra di essi è in prima fila Franz Neumann, politologo e autore di uno dei testi più importanti sulla Germania nazista, quello che s’intitola (con il nome di un mostro biblico evocato da Hobbes) Behemoth, e che viene pubblicato nel 1942. Per Neumann non ha senso applicare all’economia nazista l’etichetta di «capitalismo di Stato», ed è sbagliato rappresentarsi l’assetto di potere del Reich come qualcosa di monolitico.
Al contrario, la geografia del potere nella Germania nazista è caratterizzata dalla presenza di almeno quattro forze che non sono affatto concordi, ma anzi lottano violentemente per l’egemonia: grande capitale, partito nazista, esercito e burocrazia. Paradossalmente, perciò, Neumann arriva a considerare il Reich quasi come un «non-Stato». Nel senso che, come chiarisce Marcuse in un saggio anch’esso del 1942 (Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo), se per Stato si intende un organismo che ha comunque una sua indipendenza rispetto ai poteri sociali dominanti, questo non vale più per lo Stato nazista.

MA ACCANTO all’indagine volta a caratterizzare la natura del sistema nazista, la Scuola di Francoforte prosegue anche negli anni Quaranta la ricerca sulle dinamiche psichiche che spingono gli individui a identificarsi con le ideologie fasciste e a lasciarsi sedurre dalla propaganda antisemita. Le tappe principali di questo lavoro sono il capitolo sull’antisemitismo di Dialettica dell’illuminismo (libro concluso nel 1944 ma pubblicato nel 1947), le interessantissime ricerche di Adorno sugli agitatori fascisti attivi anche negli Stati Uniti, i cui discorsi vengono decifrati dal filosofo con l’aiuto della psicoanalisi freudiana, e la grande opera collettiva del 1950 sulla Personalità autoritaria. Si tratta di testi che non hanno solo un valore storico, ma anche un significato attuale, perché contribuiscono a decifrare quelle pulsioni del rancore, del risentimento e del misconoscimento dell’altro che trovano sempre qualche imprenditore politico pronto a investire su di esse.

SCHEDA

Da giovedì 19 a sabato 21 maggio si terrà a Venezia, nella Sala Morelli di Palazzo Malcanton Marcorà, il convegno internazionale «Critica e prassi. Gramscismo e Scuola di Francoforte a confronto», organizzato dal Centro di Teoria critica e politica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È la prima volta che alcuni tra i maggiori studiosi della materia propongono un dialogo storico e teorico fra la tradizione gramsciana e quella francofortese, due delle correnti che più hanno contribuito a innovare il pensiero marxista del Novecento. Tra i relatori Frosini, Baldissara, Cerasi, Mustè, Cortella, Basso, Azzolini, Mezzasalma, Cesarale, Thomas, Omodeo, Finelli. In questa pagina, una parte della relazione di Stefano Petrucciani sulle interpretazioni del fascismo nella Scuola di Francoforte.

Luigi Castaldi 3 febbraio 2022

Il fatto che nel Novecento la dittatura abbia assunto quasi ovunque la forma del totalitarismo ci rende assai difficile, oggi, avere idea di quale sia la sua reale natura, che non è necessariamente totalitaria, non foss’altro perché l’istituto della dittatura nasce nella Roma del V secolo a.C., mentre il totalitarismo nasce solo ventiquattro secoli dopo: in questi ventiquattro secoli la dittatura non ha mai mostrato il ben che minimo interesse ad avere quel pieno controllo sull’interezza dell’individuo che il totalitarismo mostra di avere sulla sua vita pubblica e su quella privata, sul suo agire e sul suo pensare, con quella pervasività che è suo più precipuo carattere e che infatti, non a caso, troviamo anche in un ambito non propriamente politico, come quello religioso (si prenda a esempio un papa come Pio XI, il quale afferma che, «se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è la creatura del buon Dio»). La ragione sta nel fatto che non si può avere totalitarismo prima che la storia abbia prodotto il concetto di individuo, e l’individuo, come ci ha insegnato Durkheim, è prodotto che non data più di due o tre secoli, nasce nel momento in cui la società occidentale lo configura come entità autonoma, slegata dall’appartenenza a quei gruppi (famiglia, corporazione, classe, etnia, ecc.) in cui prima era dato indistinto, conferendogli uno statuto morale e giuridico proprio: solo da quel momento in poi diventa, insieme, soggetto e oggetto politico; solo da quel momento in poi può agire ed essere agito negli ambiti del costituente e del costituito.

L’esperienza del totalitarismo ha di fatto reso impossibile, almeno ai più, di cogliere la reale natura della dittatura, che è quella di istituto. Le cose, d’altra parte, non vanno molto meglio neppure a voler far distinzione, come sennatamente raccomandato da alcuni, tra totalitarismo e autoritarismo: anche se la dittatura, infatti, è sempre autoritaria, non sempre l’autoritarismo assume forma di dittatura. È di piana evidenza, dunque, che anche con la dittatura è accaduto quel che accade spesso quando l’accezione di qualcosa diventa metonimia di qualcos’altro: perde il suo significato originario e recuperarlo finisce per assumere carattere velleitario, in qualche modo antistorico, quasi a voler cristallizzare un concetto nel momento che lo ha prodotto o in uno dei passaggi storici che gli hanno conferito un significato diverso da quello che esprimeva originariamente, ma nel quale ha assunto caratteri grazie ai quali è stato più frequentemente riconoscibile di lì in poi, non di rado metonimizzando uno o più tratti della sua metaforizzazione. È inevitabile, così, che il termine in oggetto finisca per veicolare un concetto che trova definizioni diverse, ambigue, spesso controverse, come è dato rilevare in una locuzione come «dittatura sanitaria». Vedremo per quali ragioni, essa è corretta per definire quel che è accaduto dal marzo del 2020 ad oggi, ma non lo è affatto per significare l’instaurazione di un regime totalitario, come lascia intendere chi ne fa uso per contestare le politiche di contrasto all’epidemia di Covid-19 e chi, a questi opposto, ritiene che la locuzione sia impropria anche a definire misure che di fatto hanno sostanziato l’istituto dittatoriale. Dittatura, infatti, non è nient’altro che sospensione dello stato di diritto in ragione di uno stato di eccezione: definizione che impone un chiarimento riguardo a cosa siano lo stato di diritto e lo stato di eccezione, ma anche il senso di una locuzione come «in ragione di».

Facciamoci aiutare da Carl Schmitt: «Ciò che negli Stati del continente europeo, a partire dall’Ottocento, si è chiamato Stato di diritto era in realtà soltanto uno Stato legislativo, e precisamente Stato legislativo parlamentare. […] Uno Stato legislativo è un sistema statuale dominato da normazioni di contenuto misurabile e determinabile, impersonali e perciò generali prestabilite e perciò pensate per durare: uno Stato in cui legge e applicazione della legge, legislatore e organi esecutivi sono separati. In esso regnano le leggi, non uomini, autorità o magistrature. O meglio: le leggi non regnano, valgono semplicemente in quanto norma. Dominio e potere in quanto tali non esistono più. Chi esercita il potere e il dominio agisce in base a una legge o in nome di una legge» (Legalità e legittimità, 1932). La dittatura non è altro che la sospensione dello stato di diritto e si sostanzia, come Schmitt chiarisce altrove (La dittatura, 1921), in quel «tipo di ordinamento che prescinde in linea di principio da un’intesa e da una consultazione con chi la deve subire e tantomeno ne attende l’approvazione». Perciò non deve necessariamente attendersi resistenza, per quanto sia costretta a metterla in conto. Il suo rapporto col consenso, dunque, è disarticolato, sia sul piano causale, sia su quello temporale, e questa è un altro elemento che la caratterizza rispetto al totalitarismo, che invece nel consenso, e incondizionato, ha il fine primo e ultimo. Di qui, il trovare la dittatura anche dove parrebbe non esservi, e cioè in tutti quei momenti in cui lo stato di diritto cede allo stato di eccezione nella modalità del commissariamento.

Le pagine di Rousseau al riguardo sono illuminanti: «L’inflessibilità delle leggi, che impedisce loro di adattarsi agli eventi, può in certi casi renderle dannose e causare, per opera loro, la rovina di uno Stato in crisi. L’ordine e la lentezza delle procedure richiedono uno spazio di tempo che qualche volta le circostanze rifiutano. Si possono presentare mille casi ai quali il Legislatore non ha provveduto; e costituisce una previdenza quanto mai necessaria quella di essere consapevoli che non si può prevedere tutto. Non bisogna dunque voler irrigidire le istituzioni politiche fino a sottrarsi il potere di sospenderne l’effetto. Anche Sparta ha lasciato dormire le sue leggi. Ma esclusivamente i più grandi pericoli possono bilanciare quello di alterare l’ordine pubblico e si deve sospendere il sacro potere delle leggi unicamente quando si tratta della salvezza della Patria. In questi casi rari e manifesti si provvede alla sicurezza pubblica attraverso un atto particolare, con cui se ne affida la responsabilità al più degno. Questo mandato si può conferire in due modi, secondo il genere di pericolo. Se per porvi rimedio è sufficiente accrescere l’attività del governo, lo si concentra in uno o due dei suoi membri; così non si incide sull’autorità delle leggi, ma soltanto sulla forma della loro amministrazione. Se invece la minaccia è tale che l’apparato delle leggi costituisca un impedimento a garantirsi da essa, allora si nomina un capo supremo che faccia tacere tutte le leggi e sospenda provvisoriamente l’autorità sovrana; in un simile caso la volontà generale non è dubbia ed è chiaro che la prima intenzione del popolo è che lo Stato non perisca. In tale maniera la sospensione dell’autorità legislativa non l’abolisce assolutamente: il magistrato che la fa tacere non può farla parlare e la domina senza poterla rappresentare; può fare tutto salvo che delle leggi» (Il contratto sociale, 1762).

Non deve, dunque, lasciare sgomenti il fatto che nello stato di diritto vi sia sempre un punto in cui la gravità (qui da intendere in tutte le sue accezioni) possa aprirsi in un buco nero. Spingersi a dire che tra democrazia e dittatura vi sia isomorfismo di potere forse è troppo, di fatto ogni costituzione liberaldemocratica prevede, ancorché implicita, la possibilità di una sospensione dello stato di diritto. Occorre, tuttavia, che vengano tirati i fili fin qui descritti come sostanza dell’ordito. La traccia da seguire, credo, sta nella stranezza di ciò che accade per il corso che Foucault tiene al Collège de France nel 1978-79 e a cui dà per titolo Naissance de la biopolitique: non si parlerà altro che di ordoliberismo, il neoliberismo di scuola tedesca. Alla fine del corso, Foucault ammette: «Il corso di quest’anno, alla fine, è stato interamente dedicato a ciò che doveva essere soltanto l’introduzione. Il tema in origine stabilito era dunque la biopolitica, termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze… Mi è sembrato che questi problemi non potessero essere dissociati dal quadro della razionalità politica entro cui sono apparsi e hanno assunto il loro rilievo, vale a dire il liberalismo, dal momento che è in rapporto a quest’ultimo che essi hanno assunto l’aspetto di una sfida…». La tesi di fondo è che l’ordoliberismo non si è limitato a chiedere «meno stato, più mercato», ma, dovendo conservare allo stato le funzioni minime che anche il più sfrenato liberismo gli riconosce, ha finito per risolversi a chiedere di trasferire allo stato le regole del mercato. Ed è così che prende forma il dispositivo.

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