Per salvare le città storiche: la proposta di legge
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Per salvare le città storiche: la proposta di legge

di Vezio DE LUCIA, da “il manifesto di Bologna”, 5 giugno 2019

In occasione dell’incontro di martedì 4 giugno presso la biblioteca Giuseppe Guglielmi Una legge per salvare le città storiche, pubblichiamo una nota di Vezio De Lucia

Il diritto alla città storica è il titolo del convegno organizzato dall’associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli il 12 novembre 2018 nel corso del quale è stata presentata la proposta: titolo che, a cinquant’anni dal libro di Henri Lefebvre, riprende e specializza, per così dire, Il diritto alla città. Non è un gioco di parole, è la consapevolezza che la crisi attuale delle nostre città ha origine dallo spopolamento dei centri storici che ha determinato la crescita abnorme delle periferie. Tema da anni colpevolmente trascurato con drammatiche conseguenze in specie per le città d’arte sempre più snaturate dalla progressiva diminuzione di cittadini residenti, sfrenatamente sostituiti da turisti e attività legate al turismo. Diversa, ma altrettanto grave, la sorte dei piccoli Comuni delle zone interne del Mezzogiorno (l’«osso» di Manlio Rossi Doria) dissanguati dall’emigrazione.

Eppure, la necessità della conservazione e del recupero dei centri storici è stata un vanto della cultura italiana che proprio a Bologna e in Emilia Romagna ha visto la luce. Per molti dei coetanei che fanno il mio mestiere Bologna è stata la seconda patria, e per me lo sarà sempre. Nonostante tutto. Mi sono formato studiando le opere e i giorni di Bubi Campos e di Pier Luigi Cervellati. Amicizia e ammirazione mi hanno legato ad Andrea Emiliani e mi legano a Giovanni Losavio, e all’IBC (Istituto beni culturali) della Regione Emilia Romagna. E posso tranquillamente sostenere che il senso di partecipazione alle vicende bolognesi ha fatto parte della fraterna consuetudine con Antonio Cederna.

È stato proprio Cederna a concepire per primo, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, che la città antica è un complesso unitario, non un assortimento di edilizia minore e di architetture più o meno importanti. Nell’introduzione a I vandali in casa del 1956 – testo fondativo dell’urbanistica e della cultura moderna – si legge per la prima volta che il prestigio di un luogo non sta nei monumenti, ma nel complesso contesto stradale ed edilizio, nell’articolazione organica di strade, case, piazze, giardini, nella successione compatta di stili e gusti diversi, nella continuità dell’architettura minore, che ne costituisce il tono e il tessuto necessario.

Erano anni in cui ancora prevaleva il convincimento che la tutela dovesse essere limitata agli edifici di rilevanza monumentale (chiese, palazzi, eccetera) mentre il tessuto edilizio di base era disponibile a demolizioni e sostituzioni per ragioni d’igiene, di traffico, di estetica. Era sempre in voga la teoria del “diradamento” di Gustavo Giovannoni (Vecchie città ed edilizia nuova, del 1931), né va dimenticato che Benito Mussolini aveva impartito la direttiva che “i monumenti millenari devono giganteggiare nella necessaria solitudine”.

Quattro anni dopo I vandali in casa, l’intangibile unitarietà dei centri storici fu autorevolmente confermata in occasione del primo convegno dell’Ancsa – Associazione italiana centri storico artistici – a Gubbio nel 1960.

In sintesi, si stabilì il principio che i centri storici non sono solo contenitori di monumenti ma sono essi stessi monumento: un monumento che coincide con parti di città ordinariamente vissute. L’impostazione dell’Ancsa fu sostanzialmente ripresa dalla cosiddetta “legge ponte” (n. 765/1967), voluta dal ministro Giacomo Mancini dopo la frana di Agrigento del luglio 1966 che impose principi di tutela radicalmente nuovi, solo pochi anni prima elaborati sul piano teorico.

La legge ponte – la sola autentica riforma urbanistica dell’Italia repubblicana – introdusse fra i contenuti essenziali del piano regolatore (art. 3, c. 2, lettera c), la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici (per la prima volta la parola paesaggio compare in una legge ordinaria). Nei centri storici dei Comuni sforniti di piano regolatore (art. 17, c. 5) consentì solo opere di consolidamento o restauro. E nei Comuni dotati di piano regolatore (art. 17, c. 6) vietò, in ogni zona, nuovi volumi superiori a 3 metri cubi per metro quadrato, ovvero altezze superiori a 25 metri, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato.

Una soluzione all’apparenza labile e semplicistica che però, con il passare degli anni, ha dimostrato una sorprendente efficacia, in particolare perché detti piani particolareggiati, di complessa fattura per i centri storici, non furono quasi mai formati, mentre maturava la cultura del recupero. Anche per questo l’Italia è stata il solo Paese europeo che per decenni ha in larga misura salvato i propri centri storici, mettendo fine alle gravissime alterazioni, se non alle vere e proprie distruzioni, avvenute nei primi anni del dopoguerra.

All’innovazione teorica e legislativa fece seguito la prima importante applicazione operativa con il piano del centro storico di Bologna proposto nell’autunno del 1972 dall’assessore all’edilizia pubblica Pier Luigi Cervellati. Si tratta di un piano per l’edilizia economica e popolare (Peep) in attuazione della legge per la casa del 1971 che per la prima volta consentiva la realizzazione di edilizia pubblica anche mediante interventi di recupero.

Un progetto molto studiato, basato sul metodo dell’analisi e della classificazione tipologica dell’edilizia storica che negli anni precedenti era stato elaborato da Saverio Muratori e, successivamente, da Gian Franco Caniggia e Paolo Maretto. Anche dal punto di vista giuridico, il piano era corredato da autorevoli pareri, e un’interpretazione evolutiva della legge del 1971 dovuta ad Alberto Predieri supportava la legittimità e la fattibilità degli espropri dell’edilizia storica da recuperare. Esproprio in seguito sostituito dall’acquisto da parte del Comune di alloggi da risanare, grazie anche a un finanziamento della Gescal.

L’intervento raccolse riconoscimenti autorevolissimi. “Bologna rossa” guadagnò elogi sulle prime pagine e in tutta l’Europa si celebrò il suo progetto per il centro storico. Altre esperienze si svilupparono a Taranto, Venzone (dopo il terremoto del Friuli del 1976) e, successivamente, in grandi e piccole città, da Como a Brescia a Venezia a Palermo a Napoli. A Roma, in pieno centro, a Tor dei Cenci e a S. Paolino alla Regola, furono restaurati alloggi e destinati a edilizia popolare. Ricordo bene l’assegnazione delle case saluta da festosa partecipazione di popolo e di artisti di strada.

Fu l’età dell’oro dell’urbanistica italiana. Intendiamoci: allora, come sempre, in gran parte d’Italia, prevalevano gli interessi speculativi, ma fu un’età dell’oro perché era comunque diffusa la speranza che le cose potessero cambiare, e la speranza era alimentata specialmente dalle esperienze urbanistiche di Bologna e dintorni, non solo in materia di centri storici.

Non è andata così. Dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, a mano a mano, i risultati raggiunti nel precedente ventennio sono diventati ingombranti, quindi accantonati, infine rinnegati. Non posso non dire che la ferita più dolorosa viene proprio da recenti esperienze dell’Emilia Romagna e di Bologna. Da autorevoli uffici del ministero dei Beni culturali e della Regione, dopo il terremoto del 2012, l’antica e ripetuta formula “dov’era, com’era” è stata ufficialmente e impunemente sostituita da un più accattivante “dov’era, non com’era”. Una via crucis la cui ultima stazione è la pessima legge urbanistica dell’Emilia Romagna che trasferisce l’iniziativa urbanistica dal potere pubblico all’impresa privata. Per non dire dei preoccupanti scenari che incombono con l’eventuale estensione dell’autonomia regionale (il cosiddetto regionalismo differenziato) anche alla tutela dei beni culturali.

Può irritare che si permetta di dire queste cose chi viene da Roma e dal Lazio dove la condizione urbana è afflitta da vicende e pratiche quasi stabilmente abominevoli. Ma a tutto ciò Bologna e dintorni erano l’alternativa, e niente addolora di più che il tramonto della speranza. Tramonto non scomparsa, perché al tramonto è certo il seguire dell’aurora.

Con l’associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, convinti che non bastasse il nostro tradizionale impegno nella denuncia, abbiamo cominciato a pensare a una proposta di legge all’inizio dell’anno scorso, quando si seppe che, a Roma, era possibile la sostituzione di pregiati villini di un secolo fa con ordinaria speculazione edilizia, e che a Firenze era in discussione una variante al piano regolatore che cancella il restauro e consente di sottoporre a ristrutturazione edilizia gli edifici storici anche vincolati: variante per fortuna nei giorni scorsi negata dal Consiglio di Stato. Notizie che facevano seguito all’allarmante aggravarsi della situazione veneziana (8 alloggi su 10 di proprietà di investitori). E a proposito di Venezia, l’incidente causato l’altro ieri dalla nave MSC Opera nel canale della Giudecca è anch’esso – come lo spopolamento – una tragedia annunciata.

La stesura della proposta di legge in materia di tutela della città storica si è sviluppata grazie a un lavoro collettivo durato alcuni mesi, con un vasto concorso di competenze, a cominciare da Pier Luigi Cervellati, Giovanni Losavio, Elio Garzillo, Giancarlo Storto e altri, con ripetute discussioni in forma seminariale. All’inizio abbiamo recuperato e cominciato ad aggiornare un disegno di legge statale degli anni Novanta del secolo passato (elaborato da Antonio Iannello, segretario generale di Italia Nostra, fatto proprio da Walter Veltroni, al tempo ministro dei Beni culturali), un testo volto a vincolare ope legis tutti i centri storici italiani come individuati dagli strumenti urbanistici comunali. Ma abbiamo dovuto tener tenuto conto delle modifiche, in materia di urbanistica e di tutela, introdotte nel 2001 al titolo V, parte seconda, della Costituzione e delle novità apportate dal Codice dei beni culturali del 2004.

Ma è rimasto fermo l’obiettivo essenziale di colmare una vistosa carenza del nostro sistema legislativo sottoponendo a tutela rigorosa e generalizzata tutti gli insediamenti urbani storici del nostro Paese.

Trascuro una puntuale disamina della proposta dal punto di vista giuridico. Mi limito a porne in evidenza i contenuti essenziali. Cominciando, all’art. 1, con la definizione del centro storico che, su proposta di Pier Luigi, facciamo coincidere con gli insediamenti urbani riportati nel catasto del 1939, unificando in tal modo i riferimenti temporali e cartografici degli strumenti urbanistici comunali finora non tenuti al rispetto di precetti e criteri omogenei alla scala nazionale.

All’art. 2, il richiamo all’art. 9 e al c. 2, lettera s) dell’art. 117 della Costituzione rende esplicito che la nostra proposta fa capo alla legislazione esclusiva dello Stato in materia di beni culturali e non alla materia governo del territorio. Una disciplina che dichiaratamente muove in direzione opposta a quella del regionalismo differenziato. In particolare, dichiarando i centri storici “beni culturali d’insieme” li si assoggetta alle misure di protezione e di conservazione dettate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Imponendo anche (comma 2) il divieto “di demolizione e ricostruzione e di trasformazione dei caratteri tipologici e morfologici degli organismi edilizi e dei luoghi aperti, di modificazione della trama viaria storica e dei relativi elementi costitutivi” con divieto anche di nuova edificazione degli spazi rimasti liberi e di usi non compatibili. Insomma una rigorosa protezione assistita da un severo sistema sanzionatorio volto a impedire il ripetersi degli scempi denunciati prima.

È bene chiarire che il riconoscimento degli insediamenti urbani storici come beni culturali non comporta la sottrazione della tutela al “governo del territorio” di cui al 3° comma dell’art. 117 della Costituzione (legislazione concorrente). La proposta elenca infatti, all’art. 3, sette principi di buon governo del territorio di competenza statale che dovranno essere oggetto di recepimento e quindi di regolamentazione da parte della legislazione regionale, in primo luogo individuando proprio nello strumento urbanistico comunale l’”istituto operativo” della tutela.

Una novità, all’art. 4, è l’istituto dell’”accertamento” da parte del ministero dei Beni culturali della compatibilità dello strumento urbanistico comunale alla legge che proponiamo, accertamento che ha valore di nulla osta ai fini della realizzazione degli interventi.

Ma il contenuto più innovatore e di massima rilevanza politica della nostra ipotesi di legge risiede nell’art. 5 che riguarda un programma decennale straordinario dello Stato di edilizia popolare nei centri storici. Lo proponiamo essendo pienamente convinti che, per quanto rigorose ed efficaci siano le norme di tutela, se non si affronta con determinazione il nodo dello spopolamento, il destino dei centri storici è segnato. L’azione di solo recupero monumentale, senza il simultaneo recupero sociale, sarebbe un inutile spreco di risorse. «Il centro storico è la gente» si diceva a Bologna negli anni Settanta. Perciò serve l’intervento diretto e straordinario dello Stato, come nei casi di gravi calamità naturali. Di questo si tratta: lo spopolamento di Venezia è peggio dell’alluvione del 1966. La proposta prevede perciò interventi molto risoluti:

  • a) l’utilizzo a favore dell’edilizia residenziale pubblica del patrimonio immobiliare pubblico dismesso (statale, comunale e regionale);
  • b) l’obbligo di mantenere le destinazioni residenziali con la decadenza dei cambi d’uso verso destinazioni diverse da quelle abitative;
  • c) l’erogazione di contributi a favore di Comuni ad elevata riduzione della popolazione residente per l’acquisto di alloggi da cedere in locazione a canone agevolato;
  • d) la possibilità di subordinare la fattibilità degli interventi promossi da operatori privati alla stipula di apposite convenzioni mediante le quali sia definito l’impegno a locare una quota degli alloggi ristrutturati a canone concordato.

Infine, una norma transitoria (art. 6) prevede che, fino all’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alle leggi regionali da emanare ai sensi del precedente art. 3, sia inibito ogni possibile intervento in contrasto con il citato art. 2, c. 2, della proposta.

Siamo consapevoli che si tratta di un’elaborazione adeguata alla gravità dei problemi da risolvere, perciò è coraggiosa, radicale. Ma tecnicamente fattibile: “provocatoria ma concreta”, l’ha definita Pierluigi. Ci conforta il fatto che il nostro testo è stato ripreso da due gruppi parlamentari diversamente orientati, al Senato della Repubblica da Michela Montevecchi e altri senatori del gruppo M5S (n. 970) e alla Camera dai deputati da Stefano Fassina e Rossella Muroni di Liberi e Uguali (AC 1452).

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