MONI OVADIA: “CHI NEGA L’ETNOCIDIO A GAZA È UN VIGLIACCO” da L’UNITÀ e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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MONI OVADIA: “CHI NEGA L’ETNOCIDIO A GAZA È UN VIGLIACCO” da L’UNITÀ e IL FATTO

“Chi nega l’etnocidio a Gaza è un vigliacco, il sionismo è diventato nazionalismo furioso”, intervista a Moni Ovadia

«Da ebreo mi vergogno: la voglia di cancellare dalla faccia della terra i palestinesi non è iniziata il 7 ottobre. Il male è nel sionismo che è diventato solo nazionalismo furioso contrario allo spirito ebraico»

Umberto De Giovannangeli – 2 Aprile 2024

Moni Ovadia è tante cose. Attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero, coscienza critica che sa andare controcorrente, alla faccia del pensiero unico veicolato dalla comunicazione mainstream. Su Israele, ad esempio. In morte del sionismo. “Da ebreo dico: quello che si sta compiendo contro il popolo palestinese è un etnocidio”.

Chi definisce genocidio ciò che sta accadendo a Gaza viene tacciato di antisemitismo.
È una colossale sciocchezza. Un’accusa vergognosa. L’antisemitismo è un crimine grave che consiste in questo: odiare gli ebrei perché sono ebrei. Non per quello che fanno ma per quello che sono. Questa è la differenza. I nazisti deportarono anche eroi di guerra tedeschi della Prima guerra mondiale perché erano ebrei. Questo è antisemitismo. Ma criticare qualcuno per quello che fa è tutt’altra cosa.

È il caso di Gaza?
Assolutamente sì. Il governo d’Israele sta compiendo un’operazione che qualcuno giudica che abbia un carattere genocidiario. Io sono tra questi. Ed è la conseguenza dell’aver sempre pensato ad un etnocidio.

Sostanzi questa grave accusa.
Etnocidio significa cancellare delle persone in quanto popolo. I governi israeliani volevano cancellare l’identità dei palestinesi come popolo. Rimanessero in Israele come dei paria, nei bantustan. Adesso l’etnocidio sta assumendo un aspetto genocidiario. Perché non si può far morire della gente, anziani, donne, bambini, di fame e di sete. Senza medicine. Donne che si sottopongono a un parto cesareo senza anestesia. Con un cinismo, una ferocia, una brutalità! Tutto questo, viene detto, sarebbe il seguito del 7 ottobre. Ma la storia non è iniziata quel giorno. Questa è una falsificazione. Un cumulo di bugie che circola nei media mainstream. L’accusa di antisemitismo sanno dove debbono mettersela. Se mi accusano di antisemitismo potrei reagire senza controllo. Come si permettono! Io sono ebreo come gli altri ebrei. I sionisti sono un’altra cosa.

Vale a dire?
Io ho cominciato prima a dirmi non sionista e adesso mi definisco antisionista. Il sionismo sta portando alla distruzione dello statuto etico-spirituale dell’ebraismo. Se l’ebraismo è ridotto a un nazionalismo furioso, isterico, che idolatra una terra, questo è contro lo spirito dell’ebraismo. Quello che sta succedendo a Gaza ha degli aspetti di una crudeltà terrificante. Alcuni ministri israeliani, veri e propri fascisti, l’hanno dichiarato apertamente. Si punta l’indice accusatore contro chi osa pronunciare la parola genocidio. Intanto si uccidono i bambini a migliaia, li si fanno morire di stenti, però dire genocidio, signora mia, che vergogna… Un orrore senza limiti. Con i soldati, vi sono foto e video in circolazione, che dopo aver combattuto, si riposano, postano selfie in pose trionfanti, con indumenti intimi femminili mostrati come trofei di guerra. In allegria. Se un giorno un tribunale della storia chiederà cosa avete fatto lì, cosa diranno i soldati israeliani, obbedivamo agli ordini? Ma come si può fare una cosa del genere? Quanto al 7 ottobre, non c’è stata un’inchiesta indipendente. Dichiarazioni di parte. Bisogna che ci sia una inchiesta indipendente ma il governo israeliano si guarda bene dal volerla. Il governo guidato da Benjamin Netanyahu. Di lui penso il peggio possibile ma non che sia una escrescenza tumorale su un corpo sano. Una mela marcia in un cesto di frutti succosi. No, non è così. Netanyahu è la vera faccia del sionismo. Non ne è una deriva. Dico questo, perché la Nakba l’ha fatta Ben Gurion, non Netanyahu. E la Nakba è stata il primo atto di pulizia etnica, documentato da autorevoli storici israeliani come Ilan Pappé. Gli israeliani si sono mossi con una mastodontica propaganda, l’hasbara, con un cumulo di menzogne che non ho mai visto in vita mia. Già ai tempi di Ben Gurion, ci fu una votazione in cui gli israeliani scelsero di non definire
i confini dello Stato. Perché non farlo?

Domanda pertinente. E quale risposta si è dato?
Evidentemente perché li vuoi allargare, non certo restringere. Già allora pensavano di sfruttare tutte le situazioni possibili per portare via la terra ai palestinesi, come avevano fatto con la Nakba: case, ulivi. Hanno violato tutte le risoluzioni internazionali. Tutte. Quelle dell’Onu, le convenzioni di guerra, le norme del diritto umanitario… E poi si sono spinti, senza vergogna, a definire i territori palestinesi, territori contesi. Ma quando mai!

E la comunità internazionale?
Tre quarti della comunità internazionale la pensa così. Ma non conta. Conta solo l’Occidente. L’Occidente è totalmente complice, perché ha permesso a Israele di calpestare la legalità internazionale. Quella legalità che i governi israeliani hanno sempre dimostrato di disprezzare. L’unico leader israeliano che ci ha lasciato la pelle è stato Yitzhak Rabin. Per aver osato tentare una pace, per quanto imperfetta, è stato fatto fuori da un estremista israeliano. Non era antisemitismo quando quelli del Likud, Netanyahu in testa, rappresentavano Rabin con la divisa da SS e il bracciale con la svastica!!! Allora non ho sentito gridare all’antisemitismo. Mi dispiace dire che a parte alcuni gruppi straordinari, come B’tselem, i refusnik, Breaking the Silence, verso i quali nutro un rispetto sacro, in Israele non c’è stata una vera opposizione. Hanno vissuto cinquant’anni con un popolo, quello palestinese, sottoposto ad un regime terrificante. Questo non lo dice Moni Ovadia che non conta niente. Lo dice Gideon Levy, il più informato giornalista israeliano, di cui meritoriamente l’Unità riporta articoli coraggiosi, illuminanti, che mettono in crisi la convinzione, propria anche dei cosiddetti moderati di sinistra, che Israele sia ancora una democrazia. Una democrazia non sottopone un popolo a ciò a cui è stato costretto il popolo palestinese: vessazioni, umiliazioni, arresti arbitrari, torture… Io sono furibondo! E Israele, chi lo governa, dice di rappresentare tutti gli ebrei. A me col cavolo, per usare un eufemismo, che mi rappresenta! Io sono un ebreo della diaspora, sono legato alla cultura e alla spiritualità ebraica, ma il sionismo è un nazionalismo idolatrico e come tale antiebraico. E non sono l’unico a pensarla così. Lo pensano anche rabbini e anche ebrei ortodossi. Bisogna imporre all’esercito israeliano di ritirarsi immediatamente. Altroché far passare gli aiuti umanitari: bloccano il cibo e lo fanno artatamente, perché il loro scopo è di cancellare i palestinesi come popolo. E dietro ci sono anche ragioni economiche…

Quali sarebbero?
C’è gas nel mare di Gaza. E già sono partite le speculazioni per fare lotti lungo il mare di Gaza. L’accusa di antisemitismo è diventata una clava per silenziare persone perbene, oneste, che parlano solo perché coltivano sentimenti di umanità e di giustizia. Parlo per me, parlo di me. Io che interesse ho? Per le mie posizioni a sostegno del popolo palestinese, ho subito solo danni. Ormai in televisione sono terrorizzati a chiamarmi. Perché io parlo così. In un dibattito, si fa per dire, televisivo c’è chi mi ha dato dell’antisemita. Una che non avrà mai letto neanche una riga dei grandi saggi che descrivono le cose, a partire da Chomsky e Pappé. E poi devo sentire giornalisti che in televisione ripetono, tra l’incredulo e lo scandalizzato, ma cosa si vuole imputare a Israele. Cosa? Lo dice la legalità internazionale! Su Israele, l’Occidente ha distrutto la legalità internazionale. Non siamo estremisti. Siamo semplicemente umani. Cosa che altri cominciano a non essere più, a non avere più quello statuto che attribuivamo all’uomo, secondo me erroneamente, la famosa umanità. Ma cosa dovrebbe dirti l’umanità? Che il tuo simile ha la tua stessa dignità. Gli israeliani stanno compiendo uno dei più grandi crimini che si possono commettere: punizioni collettive. La distruzione del principio più elementare del diritto. È possibile che siamo tutti così accecati, così vigliacchi da non gridarlo? Quelli come me non li lasciano parlare, o se per sbaglio l’invitano, gli mettono intorno un po’ di mastini che provano a zittirli a colpi di “ecco l’antisemita”, “l’amico di Hamas”. E ora criminalizzano anche gli studenti che di fronte alla mattanza di Gaza hanno il coraggio e la determinazione di mobilitarsi, manifestare, trasformare l’indignazione in lotta. Io sto con loro. E con quei docenti e università che hanno rifiutato di partecipare ad un bando per la cooperazione scientifica con Israele in un campo in cui l’applicazione militare è nell’ordine delle cose. Dove sarebbe lo scandalo? Nel rifiutarsi di assistere in silenzio o addirittura di cooperare nell’etnocidio di un popolo? C’è poi un’altra vergona di cui si tace.

Quale?
Il mezzo milione e passa di coloni in Cisgiordania che ci stanno a fare? Non c’è Hamas lì. Sono tutte scuse. Armati fino ai denti. Sputano sui bambini, assaltano villaggi palestinesi, bruciano gli ulivi. L’umanità ha davvero chiuso gli occhi. E l’Occidente che si riempie la bocca della parola diritti. Diritti di chi? Quando è scoppiata la guerra, ho ospitato a casa mia tre ucraini. Sono stati otto mesi e adesso verranno a fare le vacanze da noi, insomma abbiamo stabilito un rapporto familiare. Io l’ho detto in televisione: i profughi siriani, perché non li avete lasciati accogliere? Vi comportate così perché siete razzisti, perché non sono di razza bianca caucasica. I siriani, con quello che hanno subito. La retorica di un Occidente che è ormai marcio. Ricordiamoci che il 60% dell’umanità sta dall’altra parte. Ed è contro l’Occidente, quest’Occidente ipocrita, come ha mostrato il Sudafrica che ha portato Israele alla Corte internazionale di giustizia de l’Aja. C’è qualcuno che può parlare di apartheid più dei sudafricani? In futuro l’Occidente non avrà più diritto di aprire bocca. Con gli americani che continuano a fare la parte dei buoni. Perché nessuno li ha sanzionati quando hanno ammazzato un milione fra iracheni ed afghani per una guerra illegale. Adesso basta, con una narrazione miserabilmente compiaciuta dell’Occidente buono e giusto, a sostegno della sua propaggine mediorientale, Israele, basta con l’insopportabile politica dei due pesi e due misure, con l’inversione delle parti tra vittima e carnefice. Davvero basta. Lo grido da persona che possiede ancora un briciolo di umanità. Lo grido da ebreo antisionista.

Il dialogo e il sangue senza ritorno

A GAZA – Abbiamo normalizzato gli orrori della guerra. Ma la morte talvolta diventa incontro. Una madre palestinese e un padre israeliano possono riconoscersi nel dolore dell’altro? Solo se si disarma la cultura della difesa

 MADDALENA OLIVA  4 APRILE 2024

C’è un vecchio detto della Cabala che, nel suo tramandarsi, recita come, quando si è colpiti, quando ci si fa male, “tutto il sangue corre verso la ferita”.

E, a quasi sei mesi da quel 7 ottobre, è così. È così per l’escalation in una regione sempre più destabilizzata (c’era davvero chi non ci avrebbe scommesso?). È così per gli israeliani e per tutto il mondo che con loro si è risvegliato colpito dal massacro, lo choc, la violenza, la volontà di vendetta: “Le energie mentali di un’intera nazione – ha scritto David Grossman – ancora confluiscono lì, verso l’abisso in cui stiamo cadendo”. È così per il popolo palestinese. Che ha visto e vede correre il sangue di decine di migliaia di innocenti, sotto gli occhi di quanti, dopo il rito obbligato di cordoglio e indignazione, difendono il punto di non ritorno dicendo: “È la guerra… Non si poteva non reagire”. Normalizzando nel dibattito e su giornali e tv tutto. Il numero dei bambini uccisi dall’esercito israeliano in quasi sei mesi: un numero che ha superato quello dei bambini che hanno perso la vita in tutte le guerre del pianeta dal 2019 al 2022 (12.193, secondo l’Onu). Gli ospedali distrutti (quasi 9 su 10); gli operatori umanitari morti per “un tragico incidente” (200); i palazzi, le scuole, le strade divenute macerie (26 milioni di tonnellate). E qui, a Gaza, non ci sono due eserciti a combattersi. “Questo è il primo genocidio della storia in cui le vittime trasmettono la propria distruzione in tempo reale, nella speranza disperata e finora vana che il mondo possa fare qualcosa”: è stato detto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Le immagini – molte delle quali escluse dai canali di informazione – circolano abbondanti sui social e non solo su certe “tv terroristiche”, come le definirebbe Netanyahu: basta volerle cercare e guardare.

“Nessuna vittoria ripaga, poiché ogni mutilazione dell’uomo è irreversibile”, scriveva Albert Camus nelle sue Lettere a un amico tedesco. Rileggendo questa frase, ho pensato alle storie interrotte. Dall’una e dell’altra parte. Una madre che esce a procurarsi il pane – lì dove il cibo è diventato un miraggio, considerati i 90 camion di aiuti alimentari che, al giorno, entrano nella Striscia, quando l’obiettivo sarebbe 500 – e, tornando in un rifugio che mai potrà dirsi casa, trova i suoi bambini uccisi da un bombardamento. O un padre che ha sua figlia tra gli ostaggi, sottoterra. Mentre la guerra de-umanizza, umilia, rende animale e oggetto l’altro, quella madre e quel padre possono provare a riconoscersi nel dolore dell’altro? Entrambi, palestinesi e israeliani – due popoli tormentati anche da uno stesso trauma primordiale, quello dell’esilio – non hanno comprensione né compassione l’uno per l’altro. L’altro non è più neppure un essere umano. È così da anni. Si sono alzati muri su muri, opposti estremismi a estremismi, aggressioni ad aggressioni. E ora, dopo il 7 ottobre e la “reazione” che ne è scaturita, il punto è diventato di non ritorno, spazzando via decenni di tentato dialogo, di faticosa costruzione di relazioni tra le diverse comunità religiose e sociali e di prospettive di pace. Quello che può ancora accadere però – e il Papa non smette di ricordarcelo – è che, talvolta, la morte, come la nascita, può diventare un momento di incontro. Anche tra persone che rischiano di cancellarsi o di considerarsi nemiche per il resto della loro esistenza. E proprio quando quel punto di non ritorno è stato oltrepassato.

“La società israeliana cerca di ignorare l’occupazione e i palestinesi: ma un problema non si risolve solo perché cerchiamo di non vederlo”. Sofia Orr ha 18 anni. Lo scorso 25 febbraio è arrivata nel centro di reclutamento di Tel Aviv, dopo aver trascorso venti giorni nella prigione militare di Neve Tzedek per essersi rifiutata di prestare il servizio militare obbligatorio, e ha ribadito il suo no e la sua protesta. “L’attacco di Hamas del 7 ottobre ci ha ricordato che la violenza chiama altra violenza: mi danno della traditrice e dell’antisemita, ma resto convinta che questa questione vada risolta in un altro modo”. “Dialogo” è una parola composta: dia, “in mezzo a” e logos, “parola”. Significa che c’è un attraversamento, uno spazio da percorrere, che non esiste il monopolio della parola e della ragione da una parte, ma le ragioni affiorano nella relazione, nell’incontro tra le parti. E per fare questo attraversamento è necessario vederlo e riconoscerlo, l’altro. Ma come fare se è lo stesso da cui difendersi? Il primo passo per costruire il dialogo sta lì, come insegna Sofia, nel disarmare la cultura della difesa. Oggi più di ieri. A cosa ha portato, da parte di Israele, credere di aver “risolto” la questione palestinese difendendosi, schermandosi, chiudendosi?

Non resta che una guerra senza fine, se non comprendiamo quanto sia fragile e penetrabile la fortezza (il modello verso cui tende, come ha sottolineato Naomi Klein, non solo Israele ma una parte importante di mondo, quella in cui viviamo). E quanto sia lontana dall’essere “casa”, il luogo capace di trasmettere protezione e appartenenza. Quello stesso luogo che è stato sottratto a più di un milione di palestinesi che nulla c’entrano con Hamas. Non resta che una guerra senza fine, se non ripartiamo dalla sofferenza. Da quel padre e quella madre. Dai figli di una generazione sopravvissuta ai campi della morte che sentono sempre messa a rischio la propria sopravvivenza, e da quegli altri figli, anche loro di un popolo a cui è stata cancellata ogni traccia di memoria oltreché di vita. E che senza più voce chiedono al mondo solo di arrestare l’impeto omicida del governo dell’altro.

“Non nel mio nome” urlano i familiari degli ostaggi, assieme ai tanti altri israeliani – decine di migliaia – che stanno tornando a riempire le strade di Tel Aviv e di Gerusalemme per mandare a casa il governo Netanyahu e chiedere nuove elezioni.

Nella sua Lettera a un amico ebreo, Ibrahim Souss sa che, rivolgendosi all’altro, si potrà scrivere “la parola fine solamente il giorno in cui tu avrai compreso, con me, che il presupposto per coesistere è disinnescare l’angoscia”. “Io ho compreso la tua angoscia. Adesso tocca a te vedere la mia. Ti chiedo di esorcizzarle insieme. Non sono invincibili”. Così Souss ricorda di un vecchio amico di famiglia, andato a rivedere la sua vecchia casa a Gerusalemme, abbandonata come molte altre nel 1948. Quel pover’uomo si era a lungo aggirato intorno alla sua casa, che aveva ritrovato. Riconobbe quelle dei vecchi vicini musulmani e cristiani, tutte abbandonate e circondate da costruzioni moderne. Prese coraggio e si fece avanti.

Un vecchio aprì la porta. Disse: “Shalom”.

L’amico rispose: “È casa mia”.

Il vecchio disse: “Lo so”. Esitò prima di aggiungere: “Nel 1949, quando arrivai dalla Romania, lo ignoravo. Dicevano di avere costruito case per accoglierci”.

L’amico cominciò a piangere. Dalla porta socchiusa, aveva appena visto l’antica stampa di Gerusalemme da lui stesso appesa al muro qualche mese prima della precipitosa partenza. Disse: “È il mio quadro”.

Il vecchio si voltò, fece qualche passo e staccò l’opera dal muro. Gliela porse. E con le lacrime agli occhi: “Mi perdoni”.

L’amico prese la stampa. Non disse nulla. Tornò a casa. Disse ai suoi figli che ciascuno può fare la sua parte, se vuole.

Quel vecchio ebreo romeno, appartenente alla generazione per cui il ricordo della ferita era ancora vivo, aveva capito. Sarebbe difficile trasmettere oggi il suo pensiero ai tanti che continuano a ignorare che, con la nostra acquiescenza, stiamo oltrepassando tutti il punto di non ritorno? Quanto sangue deve correre ancora?

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