MELONI PARLA DI UN PAESE IMMAGINARIO, MENTRE L’INDUSTRIA CALA DA 21 MESI da IL MANIFESTO e IL FATTO
Meloni parla di un paese immaginario, mentre l’industria cala da 21 mesi
I tagli agli italiani Mentre il governo Meloni racconta un paese immaginario siamo arrivati al ventunesimo mese consecutivo di crollo della produzione industriale. Lo ha attestato l’Istat. La scelta di un’economia di guerra: l’esecutivo ha tagliato 4,6 miliardi all’automotive e li ha destinati alle armi. Beko: confermati 1.935 esuberi. Scioperi a Varese e a Siena. Fiom: «Urso chiarisca»
Roberto Ciccarelli 11/12/2024
Siamo arrivati al 21esimo mese consecutivo di crollo della produzione industriale. Lo ha attestato ieri l’Istat. Una situazione di cui è politicamente responsabile il governo Meloni che è in carica da 25 mesi. La «lunghissima fase di contrazione», così è stata definita dall’Istat, è stata alimentata in particolare dal crollo di due settori: la produzione delle auto e quella del tessile. Solo nell’ultimo anno la produzione delle auto è crollata di oltre il 40% del suo valore, quella più generale dei mezzi di trasporto del 16,4%.
LA CRISI È GENERALE. Oltre a Stellantis, c’è Versalis o Glencore, e molte altre. Beko Europe ieri ha confermato «integralmente» il piano industriale con 1.935 esuberi, la chiusura degli stabilimenti e i ridimensionamento degli impiegati. Al tavolo di crisi Adolfo Urso, «ministro al made in Italy», ieri ha confermato che il «Golden power» è uno dei misteri gloriosi del governo Meloni. Urso ha fatto un excursus storico sulla crisi dell’elettrodomestico in Italia e ha concesso all’azienda un «secondo tempo supplementare». «Inaccettabile» hanno concluso i sindacati Fiom e Fim. Oggi è sciopero a Varese, venerdì a Siena.
IL TESSILE. Nel rapporto «flash» dell’Istat si è letto che ci sono state perdite da oltre il 20% nell’ultimo anno nei comparti della valigeria e degli articoli da viaggio e in quelli della concia e della preparazione del cuoio. I lavoratori di questo settore sono 110 mila, In Toscana 16 mila. Ordinativi in stallo, consumi fermi per i bassi salari, aumento della cassa integrazione. La situazione è drammatica. A Firenze c’è stato uno sciopero regionale.
CRESCONO INVECE I SETTORI dell’alimentare e della farmaceutica, oltre che dei servizi energetici, ha scritto l’Istat. In generale sappiamo che crescono i servizi «poveri»: turismo, ristorazione e affini. Ci puntano gli enti locali che aumentano le tasse di soggiorno al fine di compensare i tagli del governo (8 miliardi fino al 2037 ha sostenuto il presidente dell’Anci Manfredi). E ci punta il governo che blatera di «miracolo italiano». A tale proposito andrà conservato il tragicomico tweet del 3 agosto dall’account di Fratelli d’Italia: «Le buone politiche del governo Meloni – si legge – avrebbero garantito «un’economia sempre in crescita mentre in Europa il settore manifatturiero ha subito una battuta d’arresto». La castroneria è stata contestata online. I motivi della crisi sono: fiacca domanda e crisi degli investimenti; tassi di interesse ancora troppo alti, così come lo sono i prezzi energetici; crisi sistemica dell’auto e i bassi salari. Si producono modelli costosi, sempre di meno sono i compratori.
IL 6 DICEMBRE l’Istat ha dimezzato la crescita 2024 dall’1% allo 0,5% e ha reso evidente come la legge di bilancio sia basata su previsioni superate. Eppure la crescita, pur stentata, c’è ed è trainata dai settori a più basso valore aggiunto, senza innovazione, bassi salari e alta precarietà. Questo è il motore dell’occupazione. Nelle prospettive per il 2025 l’Istat ha sostenuto che ci sarà un rallentamento. La «bolla» di posti di lavoro in più («mai così dai tempi di Garibaldi» ha detto il 25 ottobre Meloni in uno dei suoi involontari eccessi comici) si sta sgonfiando. Crescita e occupazione si stanno riallineando. Sempre di lavoro povero si tratta. Meloni & Co. «raccontano un paese immaginario, ma il paese reale affonda – ha sostenuto Pino Gesmundo ( Cgil) – E il ministro Urso si limita ad assecondare passivamente le richieste delle imprese e dei fondi di investimento, senza visione delle politiche industriali».
FACCIAMO UN’IPOTESI. Quella del governo è solo un’incapacità di governare un’economia industriale in dismissione? Oppure, facendosi trasportare da correnti ben più significative, l’esecutivo si è convertito a un’economia di guerra? Nella legge di bilancio c’è una prima risposta: il taglio di 4,6 miliardi di euro al fondo «green» dell’automotive, cioè il settore devastato dal crollo della produzione industriale. Questi soldi saranno trasferiti all’industria italiana che produce armi. Secondo il rapporto Mil€x nel 2025 la spesa militare esploderà: 32 miliardi, 13 in più per le armi.
IL COMMISSARIO UE alla «difesa» Andrius Kubilius ha ricordato ieri alla Reuters che è in preparazione un fondo comune europeo per le armi «da 500 miliardi di euro». Da un lato si decide di non finanziare il futuro dell’auto; dall’altro lato, si riversano soldi sui fabbricanti di cannoni. «Leonardo – ha sottolineato Kubilius – è tra le industrie della difesa più forti in Europa e nel mondo». Il messaggio, in fondo, è chiaro: le guerre reali, e quelle della propaganda, sono usate per trainare ciò che resta dell’industria verso il cosiddetto Warfare.
Lavoro e tasse. Realtà e numeri veri dietro gli spot del governo Meloni
CLAUDIO SABELLI FIORETTI 11/12/2024
L EG G O quanto dichiara al Corriere della Sera Giovanni Donzelli, Fratelli d’Italia: “800 mila persone hanno trovato lavoro da quando c’è il governo Meloni. La disoccupazione è crollata, le tasse sono dim i n u i te ”. È vero?
IL NUMERO CITATO da Donzelli è sostanzialmente corretto, ammesso sia indicativo della politica economica del governo, ma spiega molto poco del mercato del lavoro se non contestualizzato. Da ottobre 2022, primo mese di Meloni a Palazzo Chigi, i dati Istat registrano 847 mila occupati in più, 496 mila disoccupati in meno (il tasso di disoccupazione è sceso di 2 punti percentuali) e anche gli inattivi (chi non ha un lavoro e non lo cerca nemmeno) sono calati di 194 mila unità. Tutto bene, quindi? Intanto, la prima cosa da dire è che la crescita dell’occupa – zione è un trend che si è innescato ben prima della nascita del nuovo governo, che però se ne intesta tutto il merito. La seconda è che addentrandosi nei dati, lo scenario è un po’diverso da quel che appare. In generale, il mercato è più statico, ci sono meno assunzioni e meno dimissioni, con la crescita che si concentra tra le fasce più elevate. Tra i 15 e i 24 anni si registrano solo 18 mila occupati in più, 184 mila nella fascia 25-34 anni, ma ben 710 mila sopra i 50 anni (mentre calano di 66 mila tra i 35 e i 49 anni). Insomma, l’84% della crescita occupazionale è tra gli over 50, un dato che si spiega più con l’aumento dei limiti per l’età pensionabile, che trattiene i più anziani a lavoro, che con scelte politiche di qualche rilievo. Da fine 2023, peraltro, si registra una crescita imponente degli inattivi. Il governo pensava di ridurli eliminando il Reddito di cittadinanza ma in un anno sono saliti di 379 mila unità, specie tra i più giovani, un dato preoccupante. In generale, il record di occupati stride con l’industria a picco (in calo da 21 mesi) e il Pil quasi fermo (+0,5% nel 2024): è lecito dubitare che duri a lungo, ma non è nemmeno un bel segnale per il potenziale di crescita della produttività e dei salari. Quanto alle tasse. Il governo ha confermato il taglio del cuneo fiscale di Draghi e l’accorpa – mento delle aliquote Irpef intermedie varato nel suo primo anno, stima però che la pressione fiscale dovrebbe salire nel 2024 e rimanere invariata nel 2025. CARLO DI FOGGIA
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