MELONI CHIEDE IMMUNITÀ: I GIUDICI SONO NEL MIRINO da IL FATTO e IL MANIFESTO
Meloni chiede immunità: i giudici sono nel mirino
Domenico Gallo 31 Gennaio 2025
Dopo l’imbarazzo per il caso Almasri, che appena rilasciato è stato generosamente ricondotto con un volo di Stato in Libia, Giorgia Meloni ha deciso di passare all’attacco. Martedì 28 ha pubblicato un video sui suoi canali social dolendosi di aver ricevuto, assieme al ministro della Giustizia Carlo Nordio, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e al sottosegretario Alfredo Mantovano, un “avviso di garanzia” per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio di Almasri. Nel video attacca il procuratore della Repubblica di Roma, Francesco Lo Voi. È bene rammentare che la Costituzione non prevede l’immunità per il presidente del Consiglio e per i ministri in relazione ai reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Per questo tipo di reati la legge costituzionale n.1/89 ha previsto delle speciali garanzie procedurali e politiche a tutela della delicatezza delle funzioni svolte. In particolare è stato sottratto al Pubblico ministero il potere di svolgere le indagini preliminari, lo stesso è stato attribuito a un organo collegiale, il Tribunale dei ministri, composto da tre magistrati in servizio nei tribunali del distretto estratti a sorte.
L’art. 6 della legge costituzionale prevede che, dopo aver ricevuto una denuncia “il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio (..), dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati.” Si tratta di una disposizione che pone un privilegio processuale a favore dei ministri, che, a differenza dei comuni cittadini, devono essere immediatamente avvisati della esistenza di un’indagine a loro carico. Il procuratore della Repubblica di Roma si è attenuto alla procedura prevista dalla legge e non avrebbe potuto fare altrimenti. Qui siamo al di là delle ormai usuali aggressioni alla magistratura quando emette provvedimenti sgraditi al governo: quella rivendicata da Giorgia Meloni è una arrogante pretesa di immunità dalle regole costituzionali dello Stato di diritto. Il coro di insulti alla magistratura, che ha fatto seguito alle esternazioni di Meloni, ha invocato a gran voce la riforma costituzionale della giustizia come rimedio indispensabile per sanare questa situazione.
In questo modo dai pasdaran della Meloni viene fuori l’interpretazione autentica dello scopo della riforma “epocale” della giustizia: mettere fine allo scandalo del “potere diviso”. Questi sviluppi danno ragione del grido d’allarme lanciato dall’Associazione nazionale magistrati in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Quest’anno le cerimonie sono state caratterizzate da una clamorosa protesta dei magistrati che si sono presentati in toga con una coccarda tricolore, ciascuno di loro esibendo la Costituzione. I magistrati hanno platealmente abbandonato l’aula quando ha preso la parola un rappresentante del governo e hanno esposto cartelli con la celebre frase di Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, nelle carceri, nei campi, dovunque è morto un italiano per riscattare la nostra libertà, perché è lì che è nata questa nostra Costituzione”. L’esibizione della Carta e il richiamo a Calamandrei mettono platealmente in evidenza che nella riforma costituzionale Nordio-Meloni sono in gioco principi supremi che attengono alla nostra libertà. Non è un’esasperazione polemica perché la riforma manomette uno dei capitoli fondamentali della Costituzione che definisce l’identità della Repubblica e il perimetro dello Stato di diritto.
Il Titolo IV della Costituzione sull’ordinamento giurisdizionale scolpisce, in modo molto più organico e completo che in altre Costituzioni moderne, il principio della separazione dei poteri, creando uno zoccolo duro di pluralismo istituzionale che non può essere superato. Lo scandalo del “potere diviso” non è stato mai digerito e ha dato luogo a crescenti tensioni fra mondo politico e magistratura che hanno raggiunto l’apice con la lunga e contrastata stagione dei governi Berlusconi. Ma l’esigenza di rendere l’esercizio della giurisdizione subordinato all’indirizzo politico era emersa già nel 1981 con la scoperta del “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli. Il Piano enunciava una profezia nera di sovversione delle istituzioni democratiche, che, ai nostri giorni, Meloni e compagni si stanno impegnando attivamente ad attuare. La clamorosa protesta dei magistrati ci segnala che la riforma del sistema costituzionale che garantisce l’indipendenza del giudiziario non ha nulla a che vedere con la giustizia ma esprime soltanto l’insofferenza del potere politico nei confronti del controllo di legalità e ne smaschera la pulsione autoritaria.
La regola del disumano
Guerra ai migranti Difficile trovare un paese in cui a sparare sull’immigrazione non si guadagnino voti. La nostra “premier forte” lo è con i disperati, non con trafficanti e torturatori
Francesco Strazzari 31/01/2025
«Io non sono ricattabile», concluse la “premier forte”, mentre i corifei del governo, disseminati nei talk show, invocavano la ragion di stato a giustificare la scarcerazione e il comodo volo per Tripoli di chi a Tripoli ha conquistato la fama di torturatore-in-capo. La grande realpolitik degradata ad impunità per i seviziatori. A nessuno sfugge quanto gravi siano le accuse e le testimonianze, né l’ampiezza degli affari del capomilizia in questione. Evocato il sacrificio delle procedure sull’altare della sicurezza nazionale, ecco gli stessi commentatori invocare garantismo e presunzione di innocenza. La macchina della tortura in Libia continua macinare corpi, mentre Meloni che doveva dar la caccia ai trafficanti per tutto l’orbe terracqueo denuncia i giudici internazionali e quelli domestici. Rinchiudiamo i disperati incappati nelle reti e caliamo silenzi sui pesci grossi capitati a tiro.
L’indugio del ministro Nordio trasmette un messaggio che va oltre il caso specifico, imponendo uno spazio di discrezionalità dell’esecutivo che non è previsto dalla stessa legge italiana che recepisce il Trattato di Roma. È un messaggio agli organi giudiziari che si occupano di diritti umani. Poi arriva il grottesco capolavoro del ministro Piantedosi, che espelle il capobanda in quanto pericoloso, rimettendolo al comando esatto del mondo di violenze e abusi che lo ha reso tale. Come se fosse pericoloso per la Nazione, per essersi recato allo stadio a vedere Juventus-Milan.
Siamo talmente forti e prestigiosi che ci siamo tolti il cappello davanti a chi è accusato di ogni efferatezza su adulti e bambini. Del resto, il costo del calo degli sbarchi registrato lo scorso anno non è un mistero. Secondo il rapporto State trafficking (Tratta di stato) che Border forensics, No border e Asgi hanno presentato a Bruxelles, le bande libiche si riforniscono di migranti (l’oro nero) in Tunisia. Il prezzo si aggira sulla dozzina di euro a persona. I ricercatori gettano luce su «un’orribile catena logistica di abusi e sfruttamento, resa possibile dagli accordi tra l’Ue e la Tunisia»: polizie e soldati tunisini radunano i migranti nelle città costiere, per poi spedirli verso il confine libico su bus, talvolta ammanettati, talvolta abusati sessualmente. Il prezzo delle donne, potenziali schiave, sale fino a 120 euro. In Libia si passa ad ancor più squallidi centri di detenzione nel deserto, dove i rapitori abusano dei migranti e contattano le famiglie chiedendo un riscatto. Il rapporto cita la prigione di al Assah, controllata dalla Guardia di frontiera libica, e beneficiaria dell’assistenza Ue.
Difficile trovare un paese in cui a sparare sull’immigrazione non si guadagnino voti. I meccanismi di respingimento immediato (evitare l’accertamento del diritto alla protezione umanitaria), così come quelle di rimpatrio facile, si diffondono attraverso misure che sono solitamente adottate in via temporanea (o ristrette a circostanze particolari) ma che non vengono più smantellate. Ci parla di questo il voto che in Germania ha accomunato Cdu e Afd nell’imminenza delle elezioni. I primi confinamenti di massa furono in Australia. Da allora, una lunga genealogia, che passa per l’Ungheria, e arriva fino al confine fra Carelia finlandese e Carelia russa.
Già sotto Biden abbiamo visto i bambini migranti nelle gabbie, strappati all’abbraccio dei genitori. Poi Elon Musk – il miliardario che attacca la magistratura italiana sui migranti in Albania – in posa da safari umano, sul confine del Texas. In questi giorni, la neo-ministra Usa Kristi Noam, munita di Rolex e giubbotto antiproiettile, si è fatta fotografare nel bel mezzo dei raid contro i «criminali immigrati». Nelle stesse ore, rimbalzava sui media la notizia, poi smentita, dell’intenzione di Donald Trump di deportare palestinesi da Gaza all’Albania. Del resto, Trump ha parlato di ripulire (clean out) Gaza, e il genero Jared Kushner ha mire immobiliari in entrambi i territori. Infine, ecco l’annuncio dell’ampliamento nientemeno che di Guantanamo, da destinarsi agli aliens da deportare. La parola alieno, con la quale è designato lo straniero, già da sola allontana da una grammatica umana. Dovrebbe ricordarci quando il crimine organizzato in America veniva ridotto ad alien conspiracy: gli scuri immigrati italiani contro i civilissimi cittadini di ceppo anglo-germanico. Ma il senso della storia latita, e così meglio lasciarci rasserenare da Federico Rampini che spiega come sia opportuno tradurre «la più grande deportation della storia degli Usa» con il termine «rimpatrio». Arrivano le immagini dei latinos rastrellati e rapidamente incolonnati verso gli aerei, con le catene a mani e piedi, ma non si usino parole che allarmano.
Una parte significativa di opinione pubblica pare rassegnata davanti a quella che viene presentata come la nuda realtà (il realismo, la realpolitik, eccetera) e ormai rifiuta di informarsi. Parecchi si girano dall’altra parte. Come lasciò scritto alle figlie Luca Rastello, «quasi sempre quella che si presenta come la vita com’è, secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù), è una truffa». Questo amore è sempre meno segreto, il disumano sembra pagare. La prima domanda che andrebbe posta alla premier, perché possa mostrarsi forte anche con gli strongmen è che cosa stiamo facendo perché si chiudano quei posti che il Papa chiama i lager libici.
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