MANOVRA A PEZZETTINI. CHIARA MATRICE DI DESTRA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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MANOVRA A PEZZETTINI. CHIARA MATRICE DI DESTRA da IL MANIFESTO

«Hanno rimandato quasi tutto ma la matrice di destra è chiara»

È una manovra a pezzettini, di cui molti ereditati da Draghi. Rispetto al primo governo giallo-verde hanno dovuto ascoltare Bruxelles, guadagnando tempo in vista di riforme delicate

Massimo Franchi  24/11/2022

Stefano Sacchi, ex presidente dell’Inapp tornato a insegnare al Politecnico di Torino, come giudica la prima manovra del governo Meloni? La continuità con Draghi è una scelta o una necessità dovuta alla contingenza emergenziale fra guerra, caro energia e vincoli europei?
Nell’attesa del testo definitivo e basandosi solo su comunicati stampa e dichiarazioni, l’impressione è che si tratti di una manovra che ha dovuto mettere assieme tanti pezzi ereditati da Draghi e non fa altro che prendere tempo. Mi sembra calzante il paragone con il governo giallo verde M5s-Lega, altro governo che aveva gli occhi di tutti addosso. In quel caso la battaglia in Europa per portare il deficit al 2,4% fece perdere credibilità a quell’esecutivo, che poi rinculò sul 2,04%. In questo caso invece, anche per i chiari messaggi arrivati da Bruxelles con l’allerta sui conti pubblici, Meloni e Giorgetti sono stati molto attenti e responsabili verso l’Ue accontentandosi sul fronte interno di dare solo contentini al proprio elettorato, primo fra tutti la promessa elettorale contro il Reddito di cittadinanza. Senza dimenticare l’innalzamento della Flat tax.

Se i 21 miliardi di deficit sono stati usati tutti per il caro energia, tutte le riforme – compreso lo strumento che sostituirà il Reddito di cittadinanza – sono rimandate al 2024. A partire dalle pensioni.
Sì, sulle pensioni Quota 103 è l’ennesimo provvedimento ponte che coinvolgerà sempre meno lavoratori. Credo che inevitabilmente la riforma andrà nel senso di una “opzione tutti” sulla falsa riga di “Opzione donna”. Oramai tutti i pensionandi hanno una parte di assegno già calcolata con il sistema contributivo: si darà la possibilità a tutti di decidere se anticipare il pensionamento a 67 anni previsto dalla Fornero a 63-64 anni in cambio di un ricalcolo completamente contributivo della pensione. Ci sono state molte critiche sullo “sconto” previsto in Opzione donna per le madri con figli: faccio però presente che in Europa molti modelli prevedono crediti contributivi per i cosiddetti “caregiver”, coloro che in famiglia si prendono cura di anziani o figli e dunque dentro una riforma complessiva una norma di questo tipo avrebbe senso.

Lei da presidente Inapp si trovò in piena bufera “voucher” con il governo Gentiloni che dovette intervenire sul tema per evitare il referendum della Cgil. Che cosa pensa della norma che ora li reintroduce raddoppiando il tetto annuo da 5 mila a 10 mila e le aziende che possono usarlo da 5 quelle con 5 a 10 dipendenti?
Come Inapp analizzammo il problema e scoprimmo che esiste una richiesta genuina di lavoro discontinuo. Suggerivamo però di mettere paletti molto stretti per normarlo: in primo luogo una tracciabilità totale dell’utilizzo del “buono lavoro” e in secondo luogo tetti di utilizzo bassi. La scelta di raddoppiare a 10 mila e 10 dipendenti va invece in direzione opposta: apre a un utilizzo massiccio e deregolatorio.

Veniamo al Reddito di cittadinanza che lei studia anche come Alleanza contro la povertà: come si aspetta verrà riformato?
Il problema del Reddito di cittadinanza è che è fu presentato da Di Maio e Parisi come strumento contro la disoccupazione e invece considerato da Tridico in veste totalmente solidaristica: due estremi sbagliati. Come Alleanza contro la povertà pensiamo che il legame con il lavoro e la formazione di qualità sia decisivo.

Meloni e la destra però hanno promesso la cancellazione del Reddito ma ora si prendono un anno di tempo per trovare una soluzione.
Questo tempo spero serva per capire che è una follia togliere lo strumento alle persone cosiddette “occupabili”. Noi ad esempio proponiamo di mantenerlo anche per chi ha un lavoro stagionale da 2-3 mila euro (come sembra preveda anche questa legge di Bilancio) e di prevedere che fino a 8 mila euro (la no tax area) per ogni euro guadagnato si mantengono 40 centesimi del sussidio. In più per ovviare ai percettori che lavorano in nero, occorrono offerte di lavoro e corsi di formazione in orario di lavoro: se non ti presenti perdi il sussidio. Infine sul tema dei controlli ex-ante sui richiedenti: la digitalizzazione e l’accesso completo alle banche dati lo consentono ed è giusto farli. Ma allora deve valere per tutti: non solo redditisti, ma anche evasori.

Alla ricerca del ceto medio perduto

COMMENTI. Il taglio del cuneo fiscale va a favore dei lavoratori e non per un terzo agli imprenditori, come era stato ventilato. Ma si tratta di briciole

Alfonso Gianni  23/11/2022

Dopo il varo della manovra economica, la Presidente del Consiglio si è affannata a ripetere più volte che il tempo a disposizione del nuovo Esecutivo è stato poco per cui non ci sono le cosiddette riforme. Che sono rinviate all’anno che viene, e che comunque non ci sono aiuti ai ricchi ma al ceto medio. Alcuni commentatori hanno parlato di una manovra piccola, piccola; altri hanno detto che nella sua fattura c’è più Andreotti che Almirante. Una minimizzazione che tende a creare un clima giustificativo verso le scelte del governo. Che non si può condividere perché non regge neppure al primo esame delle misure assunte. Tocca persino dare ragione a Salvini che ha definito la manovra come un ottimo inizio. Infatti dal suo punto di vista, anche se non tutte le sue pretese sono state accolte, si tratta proprio di questo: un provvedimento ponte verso altri più organici già annunciati come peggiori, che esprime con nettezza la natura di classe di questo governo.

Non ci si lasci imbrigliare dalle dichiarazioni di una disinvolta Meloni. I ricchi non hanno bisogno di aiuti, basta non colpirli nelle tasche e nel loro potere che già si sentono sufficientemente protetti. È vero, il taglio del cuneo fiscale va a favore dei lavoratori e non per un terzo agli imprenditori, come era stato ventilato. Ma si tratta di briciole. La manovra stanzia a questo fine 4,2 miliardi di euro. Con questi si conferma il taglio di due punti, già deciso dal governo Draghi. Si aggiunge un altro punto per i lavoratori fino a 20mila euro di reddito. I quali se la potranno godere con un aumento al massimo di 11 euro al mese, mentre chi guadagna 15mila euro avrà «un vantaggio» ancora inferiore.

Il tutto mentre l’inflazione viaggia su un più 8% acquisito per l’anno in corso, che aumenterà visti i dati dell’ultimo mese che hanno quasi raggiunto il 12%. Con una simile inflazione confermare i saldi per sanità e istruzione significa operare di fatto un enorme taglio orizzontale alla spesa sociale. Meloni ha annunciato che il reddito di cittadinanza verrà abrogato dal primo gennaio 2024. Intanto il «ponte» è rappresentato dalla riduzione per il 2023 dai 18 mesi a 8 mensilità per gli «occupabili». Dizione dal significato assai incerto. Comunque Chiara Saraceno ha calcolato che su 300mila persone in astratto occupabili, solo 9mila hanno trovato lavoro. Se la proporzione è questa vuole dire che il governo lascia che almeno 600mila famiglie sprofondino in una distruttiva crisi economica. In ogni caso contraddice se stesso: da un lato concepisce il reddito di cittadinanza come uno strumento di avvicinamento al lavoro, secondo i principi del workfare, dall’altro lo toglie proprio a chi viene definito come un lavoratore potenziale.

Non va meglio per le pensioni. La minime arriveranno a 570 euro mensili, che chiamano «perequazione maggiorata», cioè ben 8 euro in più al mese! Si stabilisce quota 103, ovvero in pensione a 62 anni con 41 di contributi, per una platea di 48mila lavoratori con un tetto dell’assegno pari a cinque volte la minima. Le donne potranno andare in pensione prima, si dice. A 58 anni se hanno due figli, a 59 con un figlio, a 60 anni senza figli, quindi una misura peggiorativa visto che oggi possono uscire dal lavoro a 58 anni e 35 di contributi (un anno in più per le autonome) a prescindere dai figli.

Per chi ha maggiore agio economico invece i vantaggi ci sono. La soglia di applicazione della flat tax al 15% sale da 65mila a 85mila euro, mentre la flat tax sul reddito aumentato rispetto al migliore degli ultimi tre anni riuscirà a contraddire il principio costituzionale della progressività, poiché chi guadagna di più pagherà di meno e contemporaneamente si sottopone a trattamenti fiscali differenti cittadini che hanno lo stesso reddito. Un successone. Ma non basta, perché non può mancare la «pace fiscale», ovvero la rottamazione delle cartelle fino a mille euro, quindi un condono, mentre quelle fino a 3mila verranno pagate solo al 50%, senza sanzioni e interessi. Chi ha pagato le tasse fino all’ultimo euro, e non mi riferisco solo ai lavoratori dipendenti, ma anche a tutti i cittadini rispettosi dei loro obblighi, verrà ancora una volta gabbato. Con queste premesse è facile sospettare che la riforma fiscale, più volte richiamata nella conferenza stampa governativa, avverrà all’insegna della distruzione di ciò che rimane della progressività nel nostro sistema di prelievo fiscale.

Quindi non si tratta né di margini troppo stretti – i 21 miliardi da dedicare alle bollette, comunque insufficienti – né di tempi di elaborazione soffocati. Ma di una chiarissima volontà di consolidare se non un blocco almeno un consenso in determinati strati della popolazione, affinché la minoranza politica che ci governa – in virtù di una scellerata legge elettorale – trovi più salde basi. Questo è il terreno dello scontro che impone un conflitto sociale generalizzato.

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