L’OCCIDENTE GETTA LA MASCHERA da SOLLEVAZIONE, IL FATTO e IL MANIFESTO
L’OCCIDENTE GETTA LA MASCHERA
Leonardo Mazzei 07/12/2024
Le elezioni vanno bene solo se vincono i “nostri”, altrimenti le trucchiamo (Moldavia), le raggiriamo (Francia), le contestiamo violentemente (Georgia), le annulliamo (Romania).
La sequenza di atti brutalmente antidemocratici si allunga ogni giorno di più. Non sempre si può fare come in Moldavia. Qui, nel piccolo paese racchiuso tra la Romania e l’Ucraina, sono bastati i brogli a rovesciare di misura (50,3%) l’esito del referendum del 20 ottobre per l’adesione all’Ue. Ma i brogli dei filo-occidentali vanno bene alla nostra stampa, a differenza di quelli immaginari attribuiti alle forze filo-russe. A volte il mondo va davvero al contrario.
Altrove le cose sono andate peggio per il blocco neoliberista, globalista, europeista ed antirusso. Questo blocco, raccolto attorno all’Ue ed alla Nato, è il nocciolo duro del sistema. Quello che controlla l’informazione mainstream, sempre pronta a gridare al complotto russo. Piccola digressione: ma non avevano detto che la Russia era ormai alle corde, incapace perfino di badare a sé stessa! E com’è che oggi sarebbe così potente da poter influenzare gli elettori di buona parte del Vecchio Continente? Misteri del complottismo di regime.
Ma veniamo ai fatti. Il 26 ottobre scorso (quasi in contemporanea con le vicende moldave), si svolgevano le elezioni politiche in Georgia. Ne usciva vincitore con il 53,9% (89 seggi su 150) il partito “Sogno Georgiano”, guidato da Irak’li K’obakhidze. Contro questa vittoria si è scatenata la canea delle forze europeiste ed antirusse, con ripetute manifestazioni di piazza in pieno stile Euromaidan (Ucraina 2014). Il bello è che “Sogno Georgiano” è un partito liberale, da sempre filo-occidentale e favorevole all’ingresso nell’Ue. Qual è dunque la sua colpa attuale? Semplice, gli ucraini e la Nato speravano che la Georgia aprisse addirittura un altro fronte contro Mosca. I georgiani non ne hanno voluto sapere e da allora “Sogno Georgiano” viene etichettato come filo-russo ed antieuropeista.
Da qui il ricorso alla piazza. Ma lorsignori hanno in Georgia una loro degna rappresentante anche nelle istituzioni, la presidente Salomé Zourabichvili, tipico esempio dell’infiltrazione occidentale nei paesi dell’Europa orientale. Costei, da cittadina francese, ha fatto l’ambasciatrice di Parigi a Tbilisi dal 2003. Poi, con decisione congiunta franco-georgiana, ottiene la cittadinanza del paese caucasico giusto per assumere il dicastero degli Esteri nel 2004. Nel 2018 diventa presidente proprio con l’appoggio di “Sogno Georgiano”. Ma la guerra cambia tutto, ed oggi non solo sostiene la piazza aizzata dall’occidente, non solo grida ai brogli, ma annuncia che alla scadenza del suo mandato (tra pochi giorni) non se ne andrà. Quando si dice il rispetto dei valori della democrazia occidentale!
Dopo la Moldavia e la Georgia arriva, infine, la Romania. Qui i fatti sono ancora più clamorosi. Con una decisione senza precedenti la Corte costituzionale di Bucarest ha annullato il primo turno delle elezioni presidenziali tenutosi il 24 novembre scorso. Un annullamento che ha comportato automaticamente la cancellazione del secondo turno, che avrebbe dovuto svolgersi domenica 8 dicembre. In Romania siamo di fronte ad un vero e proprio colpo di stato, giustificato – si fa per dire – con presunte interferenze russe nella campagna elettorale. Un’accusa risibile, indimostrata, che se la si volesse prendere sul serio porterebbe all’annullamento di ogni elezione a qualunque latitudine. Le elezioni non si volgono mai in una campana di vetro. Ovvio, dunque, che esse risentano del clima del momento, delle dichiarazioni dei vari soggetti interni ed esteri, della propaganda di ogni tipo. E con i mezzi che utilizza abitualmente il blocco dominante occidentale, ci vuole davvero una bella faccia tosta a prendersela coi russi!
Il fatto è che alla vigilia del ballottaggio (la decisione della Corte è arrivata solo il 6 dicembre) ci si è resi conto della probabile vittoria di Calin Georgescu, un candidato indipendente prontamente etichettato come filorusso e di estrema destra. E così non si sa neppure quando potranno svolgersi le prossime elezioni, che peraltro la Corte costituzionale potrebbe annullare all’infinito fino alla vittoria di un candidato gradito dall’Ue e dalla Nato. Gongola ovviamente l’attuale presidente Klaus Iohannis, europeista ed atlantista a 360 gradi, che resterà in carica chissà fino a quando.
Con la vicenda romena l’Occidente ha così definitivamente gettato la sua maschera democratica. Non solo i media non hanno nulla da obiettare sul golpe di Bucarest, non solo si evita di rilevare la natura squisitamente politica dell’intervento della Corte, ma si esige ormai apertamente la cancellazione del voto quando lorsignori prevedono di perdere, chiedendo al tempo stesso, e minacciosamente, la ripetizione dello stesso laddove le cose gli sono andate male, come in Georgia. Per chi ancora avesse dei dubbi citiamo dall’Ansa quanto dichiarato dal gruppo del PPE al parlamento europeo. Secondo questi grandi democratici la Georgia deve “ripetere le elezioni parlamentari entro tre mesi e con l’aiuto dei partner democratici della comunità internazionale”. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
Adesso qualcuno potrebbe pensare che il problema ci sia, ma solo ad est. Non è esattamente così. Ce lo dimostra la vicenda francese. Alle elezioni legislative del luglio scorso Macron ha subito una pesantissima batosta, che ha fatto seguito a quella precedente delle elezioni europee. Eppure, grazie ad un sistema istituzionale presidenzialista e maggioritario Macron è sempre lì e fa la voce grossa.
Abbiamo parlato della Francia in diverse occasioni, ma qui ci interessa mettere in luce la piega che stanno prendendo le cose adesso. Rivolgendosi al Paese in diretta tv, dopo le dimissioni del governo Barnier, Macron ha detto che nulla e nessuno lo smuoverà dal suo posto, esattamente come il signor Iohannis in Romania e la signora Zourabichvili in Georgia. Gli elettori lo hanno ripetutamente sfiduciato? Bene, il torto è loro ed il loro voto non conta, tanto che ha etichettato la destra di Le Pen e la sinistra di Mélenchon come “fronte anti-repubblicano” da mettere sostanzialmente al bando.
Ancora più grave ed inquietante la conclusione del suo discorso: “La mia responsabilità consiste nel garantire la continuità dello Stato, il buon funzionamento delle nostre istituzioni, l’indipendenza del nostro Paese e la protezione di tutti voi”. Solo cose di buon senso? Scordatevelo. Quelle parole non sono state scelte per caso.
I principi della continuità dello Stato, del funzionamento delle istituzioni e dell’indipendenza della Francia (oggi non si capisce minacciata da chi), sono esattamente quelli citati nel micidiale articolo 16 della Costituzione francese. Quello che in determinate circostanze consente l’attribuzione di poteri eccezionali al Presidente della Repubblica. Quello che negli anni ’70 fu messo in discussione, tant’è che Mitterand lo avrebbe dovuto abrogare, ma che invece è sempre lì. Giusto per prendere tempo, e per far intanto approvare una legge di bilancio tremendamente austeritaria, in questi giorni Macron tenterà la formazione di un nuovo governo. Se fallirà, il prossimo passo potrebbe essere proprio quello dello proclamazione dello stato d’eccezione.
Esageriamo? Chi vivrà vedrà. Ma i tempi che viviamo sono questi, come ci dimostrano le vicende dell’est europeo di cui abbiamo parlato. La guerra chiama lo stato d’eccezione, dunque la sospensione anche formale dello stato di diritto. E la difficoltà della cupola occidentale, guerrafondaia ed oligarchica, aumenta al cubo questi pericoli. Chi ancora crede ad un rapido ritorno alla “normalità” pre-bellica si illude di brutto.
Vacanze romene
marco travaglio 8 Dicembre 2024
Per la serie “dicesi ‘ingerenza russa’ ogni elezione vinta da chi non piace alla Nato”, ricapitoliamo il caso Romania. Anche perché i prossimi potremmo essere noi. Governati da 30 anni da partiti corrotti e screditati, i romeni votano alle Presidenziali e al primo turno arriva primo l’outsider nazionalista indipendente Calin Georgescu, il meno atlantista e guerrafondaio sul conflitto ucraino al confine. Come in tutte le elezioni, dall’Ue agli Usa. Ma, anziché farsene una ragione e cambiare postura, Ue e Usa gridano ai brogli di Putin tramite Tik Tok: avendo contro tutte le tv e i giornali governativi, Georgescu ha preferito fare campagna su quel social anziché coi segnali di fumo. La Consulta ordina il riconteggio, che però dà lo stesso esito: elezioni regolari. Allora il presidente uscente Klaus Iohannis declassifica per la Corte cinque file dei servizi segreti, ovviamente segreti, per dimostrare che, sì, Georgescu ha preso il 23% perché il 23% dei votanti ha scelto lui, ma solo perché i russi hanno investito ben 400 mila euro per i suoi spot su Tik Tok. E si sa che, appena vedi uno su Tik Tok, cadi in stato di ipnosi e corri a votarlo. Anche gli altri candidati erano su Tik Tok e Georgescu l’han votato soprattutto contadini e anziani, non proprio fan del tiktokismo, ma lasciamo andare. E i sondaggi che danno Georgescu al 63% al ballottaggio? Semplice: Putin, con la sola forza del pensiero o rispondendo alle telefonate dei sondaggisti al posto del campione, ha taroccato pure quelli.
Poi, stanco morto, s’è distratto un attimo: infatti, sette giorni dopo le Presidenziali, i romeni han votato alle Parlamentari e lì, non essendoci Georgescu, han vinto i partiti governativi. Quindi o i truccatori russi dormivano, o TikTok funziona solo alle Presidenziali. Infatti le Parlamentari sono valide, mentre le Presidenziali vengono annullate dalla Consulta due giorni dopo averle avallate e due giorni prima del ballottaggio, mentre i residenti all’estero stanno già votando. Purtroppo la sentenza nessuno può leggerla perché non esiste: le prove dei brogli russi sono o non sono segrete? Brogli occidentali non possono esisterne, poiché mai Nato e Ue interferirebbero in un’elezione, tanto meno nel Paese a cui gli Usa vogliono donare la più grande base Nato d’Europa: non sarebbe da loro (anche se alla vigilia del voto il Dipartimento di Stato ha avvisato che non tollererà cambi di politica estera a Bucarest). Ora, appena si rivota, Georgescu rischia di prendere ben più del 63%, a meno che non lo arrestino o lo mettano fuorilegge. Quindi si rivoterà a oltranza finché il popolo non si deciderà a votare come gli ordinano quelli che non interferiscono. Ma ci sono anche soluzioni più pratiche: abolire Tik Tok, o i telefonini.
L’America contro TikTok
Flip Flop Il tribunale di Washington conferma l’obbligo di vendita a una proprietà non cinese della filiale statunitense della piattaforma di ByteDance. Da completare alla vigilia del giuramento di Trump, indeciso sulla rotta da tenere verso la sua nuova “alleata” Silicon Valley e i dazi alla Cina
Luca Celada 08/12/2024
La corte d’appello di Washington ha respinto il ricorso di TikTok contro la vendita obbligata sancita da una legge varata dal Congresso e firmata da Joe Biden lo scorso aprile. La piattaforma della casa madre Bytedance, con sede a Pechino, dovrà essere ceduta a una nuova proprietà non cinese entro il 19 gennaio o cessare l’attività negli Stati uniti, dove conta 170 milioni di utenti.
L’attuale proprietà ha escluso una cessione del sito (valutato attorno ai 200 miliardi di dollari). La vendita sarebbe in tutta probabilità osteggiata anche dal governo cinese (o barattata in cambio di concessioni sui dazi commerciali?). Il ricorso dell’azienda era motivato “dall’oscuramento illecito” di una piattaforma utilizzata ogni giorno da milioni di americani per esprimersi liberamente, facoltà notoriamente protetta dal primo emendamento della costituzione.
I giudici hanno però trovato circostanziata la decisone del parlamento, tesa non a silenziare l’espressione ma a proteggere la sicurezza dei cittadini da un avversario straniero.
Il presunto pericolo deriverebbe dal potenziale ricavo di dati personali degli americani e l’uso di TikTok per scopi propagandistici. Eventualità del tutto ipotetiche e comunque ugualmente applicabili, in teoria, anche alla piattaforme made in USA (nel caso specifico della propaganda vi sarebbe da fare un discorso a parte sul “X” di Elon Musk).
La sentenza, che sancisce giuridicamente la designazione della Cina come “foreign adversary”, solleva una serie di problematiche, fra cui l’entità dell’isolazionismo tecnologico a cui gli Stati uniti sono pronti a ricorrere per mantenere il predominio strategico su internet e quanto questo rischi di incidere sull’escalation di una possibile guerra commerciale.
Tutto da verificare poi il tempismo dell’operazione. La scadenza per la cessione prevista dalla legge è il giorno prima del giuramento di Trump alla Casa bianca, e pare improbabile che la Corte suprema non voglia considerare l’ulteriore ricorso già annunciato dall’azienda, proprio per dare tempo – ad esempio con un congelamento fino a giugno – alla nuova amministrazione di potersi esprimere e considerare eventuali alternative.
Trump erediterebbe però anche una patata bollente. Nel 2020 era stato lui per primo a proporre la vendita di TikTok, ma il suo mandato era terminato prima di trovare una sponda legislativa. Recentemente, il presidente entrante ha invece invertito la rotta, facendo mostra di ammirare l’utilità di una piattaforma che aveva invece denunciato come pericolosa per la sicurezza nazionale.
La conversione era stata agevolata da una serie di versamenti alla sua recente campagna elettorale da parte del maggiore azionista americano di Bytedance, il finanziere Jeff Yaas.
Da nuovo presidente Trump non potrà però rimandare per sempre la pratica TikTok, in cui dovrà decidere fra gli interessi economici della classe oligarchica della sua corte e la presunta insidia cinese che si allinea anche con la sua narrazione prevalente e la guerra dei dazi contro Pechino.
La chiusura di TikTok di certo provocherebbe diffusi malumori nella base di utenti ed elettori che lo utilizzano oltre che per svago come strumento economico.
Le stime dicono che, attorno a TikTok, piccole imprese e individui sviluppano un volume di affari del valore di 25 miliardi di dollari all’anno, generando imposte per 5 miliardi e più di 220.000 impieghi.
La questione potrebbe forzare la mano di Trump riguardo al comparto digitale in generale, obbligandolo a sposare un dirigismo contrario al liberismo invocato dalle classi imprenditoriali.
Trump e i suoi sostenitori nella destra Maga hanno ripetutamente denunciato lo strapotere delle piattaforme, colpevoli di una presunta “censura” della destra. La nuova amministrazione si presenta però ora con una forte componente di Silicon Valley, rappresentata ai vertici da Elon Musk e dal vicepresidente Vance.
Da Biden, il nuovo presidente erediterà anche una serie di cause antitrust contro lo strapotere dei colossi digitali, quelle ad esempio contro i monopoli di Google e Amazon.
Lo stile di Trump è solitamente di usare il proprio potere come minaccia per favorire interessi in cui è sovente personalmente investito. Nel primo mandato, ad esempio, si oppose alla fusione di AT&T e Time Warner (quest’ultima, casa madre dell’odiata Cnn). Allo stesso tempo non ebbe nulla da ridire sull’acquisizione (questa si, in odore di monopolio) fra Disney e la Fox dell’amico Rupert Murdoch.
Anche le sorti ultime di TikTok potrebbero dipendere dai calcoli e tornaconti di Trump Inc.
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