L’OCCIDENTE CHE SI RIARMA NON OTTERRÀ MAI LA PACE da IL FATTO
L’occidente che si riarma non otterrà mai la pace
Domenico Gallo 3 Agosto 2024
L’Angelus del Papa (domenica 28 luglio): “E mentre nel mondo c’è tanta gente che soffre per le calamità e la fame, si continua a costruire e vendere armi e a bruciare risorse alimentando guerre grandi e piccole. Questo è uno scandalo che la comunità internazionale non dovrebbe tollerare, e contraddice lo spirito di fratellanza dei Giochi olimpici appena iniziati. Non dimentichiamo, fratelli e sorelle: la guerra è una sconfitta!”.
L’Angelus della Nato (giovedì 11 luglio): “Accogliamo con favore il fatto che più di due terzi degli alleati abbiano rispettato il loro impegno di almeno il 2% del Pil annuo di spesa per la difesa ed elogiamo quegli alleati che lo hanno superato. Gli alleati stanno facendo passi avanti: la spesa per la difesa degli alleati europei e del Canada è cresciuta del 18% nel 2024, l’aumento più grande degli ultimi decenni… Riaffermiamo che, in molti casi, sarà necessaria una spesa superiore al 2% del Pil per rimediare alle carenze esistenti e soddisfare i requisiti in tutti i settori derivanti da un ordine di sicurezza più contestato”.
Evidentemente la Comunità internazionale, almeno quella parte che si identifica nel cosiddetto “Occidente collettivo”, non trae alcuno scandalo dal “costruire e vendere armi e a bruciare risorse alimentando guerre grandi e piccole”. Al contrario, la corsa al riarmo viene “benedetta” e incoraggiata al punto da complimentarsi con gli alleati europei e il Canada che hanno accresciuto la spesa militare del 18%. Dopo l’ultima svolta compiuta a Washington al vertice della Nato, lo spreco delle risorse, causato dalla corsa agli armamenti, è diventato una questione assolutamente secondaria. Il vero problema è l’estrema pericolosità dei nuovi sistemi d’arma che si vogliono schierare. Abbiamo già segnalato (sul Fatto del 17.07) che il programmato schieramento in Germania di missili Tomahawk e di missili ipersonici costituisce un salto di qualità nel confronto fra blocchi militari, destinato a far crescere la tensione. Non c’è da meravigliarsi se i russi risponderanno all’escalation occidentale con la stessa moneta. Infatti, domenica scorsa il presidente Putin, in occasione di una parata della marina militare russa a San Pietroburgo, ha dichiarato: “Se gli Stati Uniti schiereranno i loro missili a lungo raggio in Germania a partire dal 2026, la Russia si considererà libera dalla moratoria precedentemente dichiarata unilateralmente sullo spiegamento dei nostri mezzi di attacco a medio e corto raggio, compreso l’aumento delle capacità delle forze costiere della nostra Marina”. Putin ha giustificato questa scelta osservando che “le importanti strutture di controllo statali e militari russe, i nostri centri amministrativi e industriali e le infrastrutture di difesa finiranno nel poligono missilistico statunitense, e il tempo di volo di tali missili, che potrebbero essere equipaggiati con testate nucleari in futuro, verso il nostro territorio è di circa dieci minuti”.
La scontata reazione della Russia mette in evidenza quanto sia fallace la pretesa di incrementare la sicurezza di una parte a scapito dell’altra. Nel confronto fra potenze militari, non esiste una sicurezza unilaterale, la sicurezza non può che essere collettiva; la sicurezza non si persegue con il riarmo, ma con i processi di disarmo, come avvenne con la stipula del Trattato Inf, che portò all’eliminazione di 2.692 missili puntati sulle nostre teste e a un abbassamento sostanziale del rischio e delle tensioni internazionali.
Pochi sanno che la tensione fra i due blocchi era arrivata a un punto tale che, nel novembre del 1983, il potere militare sovietico interpretò l’esercitazione militare della Nato “Able Archer”, nella quale si simulava il lancio di 350 missili nucleari contro l’Unione Sovietica, come un attacco realmente in corso e mise 300 missili balistici in stato d’allerta, pronti al lancio. La catastrofe fu evitata grazie alle informazioni di una spia inserita nella Nato, l’agente Topazio (Rainer Rupp), che riuscì a comunicare che l’attacco era solo simulato. Domani lo schieramento dei missili ipersonici americani in Europa porterà – di nuovo – a livelli altissimi il rischio di una catastrofe nucleare, che potrà avverarsi anche per errore. Se, per un guasto, un computer russo dovesse rilevare un attacco con euromissili, il tempo di volo di dieci minuti è troppo breve per una qualunque reazione umana. Sarà un algoritmo a decidere se gli equivalenti euromissili russi debbano essere lanciati o meno. Le oligarchie finanziarie, come ci avverte Elena Basile, hanno messo in conto un olocausto nucleare ristretto ad alcuni popoli. È mai possibile che una lunga storia che, attraverso passioni, rivoluzioni e lotte di liberazione, ha portato nei secoli l’Europa dei lumi a costruire un patrimonio di civiltà, dove le libertà e i diritti dell’uomo regnano sovrani, debba concludersi per decisione di un algoritmo?
L’assassinio del capo di Hamas viola il diritto internazionale
Filoreto D’Agostino 3 Agosto 2024
L’assassinio di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, va esaminato non solo sotto il profilo bellico, come episodio nel quale viene eliminato un nemico pericoloso, ma anche alla luce delle condizioni del momento e del diritto internazionale. È noto, infatti, che l’ucciso conferiva al Cairo con la controparte ebraica e i rappresentanti di alcuni Stati (tra cui Egitto e Qatar) nella trattativa diretta alla restituzione degli ostaggi del 7 ottobre 2023 e alla cessazione delle attività militari nella Striscia di Gaza. Sono queste peculiari circostanze che inducono a ritenere che, nello specifico caso e indipendentemente da ogni altra considerazione politica, Israele abbia violato i precetti generali del diritto internazionale. Per rendersene conto occorre muovere proprio dal contesto egiziano, dove si svolge un dialogo purtroppo privo di risultati, tra i due contendenti: lo Stato ebraico e l’organizzazione Hamas.
Mentre sulla natura di soggetto di diritto internazionale d’Israele non possono sussistere dubbi perché de facto o de iure quasi tutti gli Stati lo hanno riconosciuto, altrettanto non si può affermare per Hamas, indicata da molti Stati come organizzazione terroristica. Il giurista deve astenersi da valutazioni enfatiche e politicamente orientate e osservare il fenomeno nella sua realtà fattuale. Alla stregua di quel dato non v’è dubbio che, seppure in senso limitato, non può escludersi la personalità (o, forse, uno status) internazionale, quanto meno pro tempore, di Hamas. La prova è data proprio dal contegno della controparte sotto un duplice riguardo: a) in primo luogo perché da molti mesi opera in un territorio (la Striscia di Gaza) nel quale non riesce a sradicare la presenza di quella organizzazione che vi agisce, esercitando sulla popolazione un potere caratterizzato dall’effettività. Se solo lo strumento bellico condiziona la vita dei palestinesi della striscia, vuol dire che, nonostante le distruzioni e altri misfatti, quell’area è ancora sotto il dominio di Hamas. A quest’ultima si deve quindi riconoscere uno status internazionale, seppure per il tempo necessario alla trattativa e nei limiti della permanenza e stabilità del governo occulto, ma effettivo, del territorio; b) l’aver accettato di partecipare a una trattativa nella quale sono coinvolti altri Stati implica necessariamente che l’intera questione non possa essere inquadrata e qualificata come fenomeno interno. Siamo, quindi, nell’ambito di una missione ad hoc, cioè disposta al di fuori degli ordinari canali diplomatici e con agenti non necessariamente scelti tra i ranghi della diplomazia ufficiale e destinata a risolvere la questione ostaggi e fine dell’attività bellica. È di tutta evidenza, peraltro, che tale missione ha una fortissima connotazione politica.
Proprio queste considerazioni unite alla specificità della sede cairota inducono a richiamare le conseguenze che i giudici egiziani hanno tratto proprio dalla caratterizzazione politica della missione. Il 16 gennaio 1962 il tribunale della Rau (Repubbliche arabe unite delle quali l’Egitto di Nasser era la capofila) in vertenza Rau/Commissione francese per la proprietà in Egitto, assegnava ai componenti di missione ad hoc di carattere politico il trattamento di missione diplomatica. La conseguenza è di tutta evidenza: Haniyeh, in quanto membro della trattativa instaurata come missione ad hoc, godeva del trattamento d’immunità diplomatica paragonabile a quella di un ambasciatore in missione. Per questa sua qualità doveva ritenersi intangibile da atti di violenza e la sua vita avrebbe dovuto essere difesa proprio da Israele anche per assicurare un contegno leale nell’ambito della trattativa alla quale si sono impegnati altri stati nonché l’amministrazione americana. Quell’assassinio, purtroppo, viola il diritto internazionale e delude i sentimenti di quanti sperano nella pace.
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