LO SPETTRO DELLA MANOVRA CORRETTIVA da IL MANIFESTO
Lo spettro della manovra correttiva
La Commissione Ue rivede i conti italiani, la decisione sulla procedura di infrazione a giugno dopo le europee. Esplodono le divergenze tra la Commissione Ue e la Banca Centrale Europea sul taglio dei tassi di interesse e le politiche contro l’inflazione. Il ritratto di un continente che vivacchia, si prepara a Trump e teme la crisi tedesca.
Roberto Ciccarelli 16/02/2024
La Commissione Europea deciderà se aprire una procedura di infrazione per deficit eccessivo nei confronti anche dell’Italia a fine giugno, dopo le elezioni europee, una volta verificati i conti finali del 2023. Lo ha confermato ieri il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni. Quanto alle nuove regole di bilancio da applicare a partire dal 2025 bisognerà attendere la formalizzazione dell’accordo tra il Consiglio e il Parlamento Europeo. A partire dalla prossima estate partirà la negoziazione sui piani pluriennali di rientro nei parametri sul deficit e sul debito che sono più restrittivi anche se prevedono una transizione dai 4 ai 7 anni.
È CURIOSO NOTARE come Gentiloni, presentando ieri a Bruxelles le previsioni economiche di inverno, abbia mostrato un atteggiamento contraddittori. Da un lato, ha confermato la possibilità di una procedura di infrazione sul deficit. Quello italiano, nel 2023, era al 5,3 per cento sul Pil, sarà al 4,4 per cento nel 2024 e al 4,3 per cento nel 2025. Valori ben al di sopra della soglia del 3 per cento. Senza contare il fatto che, secondo le regole del nuovo «Patto di stabilità», il deficit dovrebbe essere ben al di sotto di questa soglia.
DALL’ALTRO LATO Gentiloni ha escluso che la Commissione chiederà al governo Meloni una «manovra correttiva», “tanto meno di fronte a cambiamenti dello zero virgola di questa o quella previsione” ha detto. E poi si è impegnato in un difficile esercizio storico-statistico attraverso il quale ha cercato di liberare l’Italia dall’immagine di «fanalino di coda» sulla crescita in Europa. «Non era fino in fondo la realtà – ha detto Gentiloni – oggi vediamo che ci sono difficoltà di crescita in alcuni paesi della Ue, la Germania, i paesi baltici che hanno avuto una crescita negativa l’anno scorso». Il problema è che la media di crescita del Pil per anno tra il 2005 e il 2022 è stata dell’1,3% per la Germania, dell’1% per la Francia, dello 0,8% per la Spagna e dello 0% per l’Italia a fronte di una media Ue dell’1,3%.
LA MEDIA STORICA della crescita è dunque zero. È questo il problema drammatico di un paese senza politica industriale, adattatosi all’economia predatoria turistica, con salari bloccati dagli anni Novanta. Le conseguenze di lungo periodo di questa scelta politica peseranno oltremodo anche sull’attuale esecutivo.
LE VALUTAZIONI di Gentiloni contrastano inoltre con quelle del suo partito per quanto riguarda le previsioni sulla crescita. A sentire il responsabile economico del Pd Antonio Misiani, o il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia la realtà è molto diversa. Entrambi parlano di un governo «fuori dalla realtà» che ha scritto «sulla sabbia» una legge di bilancio. Valutazioni fatte sulla base dei dati forniti dalla stessa Commissione che ieri ha ritoccato il Pil del 2024 al ribasso: +0,7%, meno della media Ue, prevista a +0,9% (+0,8% per l’Eurozona). Faranno meglio 20 Paesi europei, fra i quali Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e Belgio. Non è solo un problema di interpretazione dello zero virgola. È una questione politica. A Roma il Pd è contro Meloni. A Bruxelles il «suo» commissario, già presidente del consiglio, è molto più timido con il governo che ha sforato tutti i parametri con i quali Bruxelles giudica la buona condotta austeritaria. Sarà forse che Ursula Von Der Leyen, oggi alla guida della Commissione Ue, conti su un appoggio di Meloni per ottenere un’eventuale e non scontata reinvestitura? Anche in questo caso i numeretti dell’economia sono declinati in base alle convenienze e agli opportunismi.
UN DISCORSO SIMILE potrebbe essere fatto con i Cinque Stelle che hanno votato la «maggioranza Ursula». Ieri erano impegnati a dimostrare le difficoltà di Meloni sull’economia. Sono rimasti colpiti dal fatto che, per la Commissione Ue, il calo del Pil italiano sia stato dovuto anche alla graduale eliminazione del Superbonus. Ma non sembrano avere percepito che Gentiloni ha definito «ragionevole» il taglio voluto dal governo.
IERI È EMERSA una significativa divergenza di opinioni sul rapporto decisivo tra salari e inflazione tra la Commissione Ue e la presidente della Banca centrale europea Lagarde in audizione all’Europarlamento. Gentiloni ha esortato quest’ultima a tagliare i tassi di interesse sostenendo l’esistenza di una robusta crescita dei salari che ora sta «decelerando». Tale crescita «consentirà di recuperare le perdite passate nei redditi reali dei lavoratori senza alimentare l’inflazione». Solo un paio di ore prima, Lagarde aveva detto il contrario: «La crescita salariale continua ad essere forte e si prevede che diventerà un motore sempre più importante della dinamica dell’inflazione nei prossimi trimestri, riflettendo la tensione sui mercati del lavoro e le richieste dei lavoratori di compensare l’inflazione». Scenari simili non riguardano l’Italia dove i salari resteranno sostanzialmente bloccati. Senza che all’orizzonte si diffonda una politica meno effimera di opposizione.
GENTILONI ha prospettato una grande incertezza legata alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente e ha confermato il piccolo cabotaggio di un’Europa che ragiona con la logica del meno peggio. La crescita economica nell’area euro è nettamente inferiore a quanto stimato a novembre: 0,8% contro 1,2%. Nel 2025, dicono, che tornerà ai valori della metà dello scorso decennio, 1,5%. Il problema resta la Germania da cui dipende l’economia europea. Quando ci si trova in una palude fa bene parlare della luce in fondo al tunnel. Al termine del quale potrebbe trovare Trump alla Casa Bianca e il rilancio della sua rivoluzione reazionaria. Pudicamente ieri la Commissione Ue ha definito questa possibilità come un «fattore di incertezza». L’Europa, vaso di coccio, ostaggio dei suoi incub
Quella rovinosa caduta della politica dei redditi
SCAFFALE. «L’inflazione in Italia: cause, conseguenze e politiche», a cura di Mario Pianta, per Carocci
Roberto Ciccarelli 23/11/2023
L’inflazione è un conflitto sulla redistribuzione del reddito, non una sfortuna che cade dal cielo. Per la precisione, scrive Mario Pianta nell’introduzione a L’inflazione in Italia: cause, conseguenze e politiche (Carocci, pp. 150, euro 18), è un conflitto di classe tra chi intende garantire i profitti e chi cerca di difendere i diritti e aumentare il potere di acquisto dei salari.
QUESTA IDEA, ispirata al grande economista Michal Kalecki, è preziosa in un momento in cui l’inflazione – spinta dall’aumento dei prezzi delle materie prime dalle nuove guerre e dalle distorsioni dell’offerta durante il post-pandemia – è stata interpretata come un fenomeno puramente monetario. Una simile ricostruzione è basata su un’analogia storicamente decontestualizzata con un’altra stagione inflattiva, quella degli anni Settanta. Quest’ultima ingenerò una spirale tra l’aumento dei prezzi e quello dei salari, al punto che pur aumentando questi ultimi non bastavano a recuperare il potere di acquisto perduto. Per interrompere questo meccanismo, la banca centrale americana (Fed), in coincidenza con la svolta neoliberale della politica globale, inaugurò una politica monetarista che represse i salari e mise le ali al potere oligopolistico delle corporations al centro dell’attuale capitalismo finanziario.
QUARANT’ANNI DOPO, una simile giustificazione delle attuali politiche anti-inflattive non solo è scorretta, ma risponde a un preciso progetto politico per di più basato su un curioso ragionamento ispirato alla logica delle aspettative. Dato che oggi c’è l’inflazione, e i lavoratori chiederanno l’aumento dei salari, allora si introducono misure che frenano la possibilità di chiedere tali aumenti. In pratica, per evitare che i salari salgano domani, bisogna punire oggi i lavoratori e i consumatori.
ALLA TESI propagata dalle banche centrali e dai governi, il libro ne contrappone un’altra per cui l’inflazione sia stata generata dai super-profitti e che le politiche adottate per domarla servano a consolidare i profitti dell’impresa e a piegare la resistenza della forza lavoro. Le conseguenze di questo rovesciamento aprono nuove prospettive sull’attuale conflitto distributivo. I saggi di Leopoldo Nascia, Mario Pianta, Giuseppe Simone; Valeria Cirillo, Rinaldo Evangelista, Matteo Lucchese; Vincenzo Maccarrone; Guilherme Spinato Morlin, Marco Stamegna e Simone D’Alessandro; Claudio Gnesutta analizzano in questa prospettiva molti aspetti della vita politico-economica in Italia, in particolare durante i governi Draghi e Meloni.
Dalla loro inchiesta collettiva emerge il fatto che la politica dei bonus sulla quale è costruita anche la prossima legge di bilancio, e quella delle misure compensative a sostegno dei salari, sono estremamente costose ma hanno effetti contenuti sulle diseguaglianze esistenti. E, in aggiunta, premiano di più i ceti medio-alti.
Per contrastare gli effetti dell’«inflazione da profitti» – detta anche «inflazione del venditore» – servirebbe invece un salario minimo indicizzato; rinnovare i contratti e vincolare l’accesso alle risorse pubbliche alle imprese che producono buona occupazione; limitare la speculazione finanziaria; tassare i super-profitti; fissare al 4% l’obiettivo dell’inflazione (e non al 2% come pensa di fare la Bce); una politica fiscale progressiva e espansiva, coordinata a quella monetaria, le cui misure restrittive andrebbero allentate.
QUESTE SOLUZIONI, in fondo ragionevoli, stentano ad essere adottate a causa degli sfavorevoli rapporti di forza in vigore. Le ragioni sono spiegate nell’ultimo capitolo che, a partire dal caso italiano, allarga lo sguardo al mondo. Claudio Gnesutta analizza lo scenario di una stagflazione persistente in cui sarà accentuato uno sviluppo diseguale e autoritario in un contesto internazionale sempre più conflittuale. La politica economica resta limitata alla ripartizione dei costi derivanti dai mutamenti del quadro internazionale. In mancanza di un forte contrasto alle politiche in corso il loro potere di acquisto dei salari rischia di non essere recuperato, anche quando l’inflazione tornerà ai valori prestabiliti.
In questa prospettiva l’inflazione «da profitti» resta un conflitto interno al capitale, tra detentori dei profitti e quelli delle rendite, mentre il conflitto con il lavoro non sembra essere destinato a una contrapposizione organica. La situazione è aggravata dalla mancanza di istituzioni politiche capaci di negoziare, e regolamentare, il conflitto in cui si resta subalterni. È difficile tornare al passato quando esisteva un’idea di «politica dei redditi», contrattata da imprese e sindacati. Quella idea di sviluppo produttivo e di crescita sociale è stata scardinata da un modello di capitalismo autoritario che cresce in una società frammentata. Ciò però non elimina la necessità di trovare altre soluzioni, una volta compresi i limiti di quelle precedenti.
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