L’EUROPA DI IERI, OGGI, DOMANI da FUORICOLLANA
L’Europa ieri, oggi, domani
Antonio Cantaro 31/03/2025
È tempo di un sano e impietoso esame dei tanti lati oscuri della storia dell’Unione, preludio indispensabile per una azione politica autonoma. Ogni riferimento alla Cina e al nascente universo dei Brics è voluto. Tutto il resto è noia, peggio complicità.
Ci sono due modi con cui usualmente si parla dell’integrazione europea, delle sue finalità, del suo presente, del suo futuro. Un primo modo è quello di demonizzare eventi e vicende che ne sono all’origine. Un secondo è quello di monumentalizzare quegli eventi e quelle vicende. Approcci entrambi sbagliati, forieri di scelte improvvide. Dovrò per forza di cose confrontarmi con entrambi questi due approcci ideologici, ma mi sforzerò di farne venire alla luce un terzo: storicizzare sempre il discorso, parlare dell’Europa reale, dei suoi lati oscuri non meno che dei suoi lati luminosi.
Grande è la confusione sotto il cielo
Oggi questo approccio non è di moda. Grande è la confusione sotto il cielo. E, con buona pace del compagno Mao, la situazione non è affatto eccellente. A noi tocca fare opera di pulizia nell’oceano di propaganda, di bugie e veleni che vengono quotidianamente sparsi. Ci tocca, se desideriamo realmente costruire un’Unione che i popoli europei possano sentire come loro.
Mettetevi comodi, siate pazienti. Alcuni resteranno delusi. Parlerò male della destra, ma sarò critico e sferzante anche con la sinistra. Con la sinistra che flirta con l’Europa retorica, con l’Europa delle anime belle al centro delle fintamente letterarie rappresentazioni di queste settimane. L’Europa da talk show, da cabaret. L’Europa che si pone la domanda sbagliata – perché non siamo stati invitati da Trump al tavolo delle trattative tra Russi e Ucraini? – invece di chiedersi perché non siamo stati noi a convocare quel tavolo il giorno dopo l’inizio della sciagurata operazione militare speciale di Vladimir Putin.
Per non perdere il filo del discorso metto subito sul tavolo le Cinque Europe di cui vi parlerò. Primo: l’Europa del Manifesto di Ventotene. Secondo: l’Europa comunitaria, l’Europa dagli anni ‘50 sino alla fine degli anni ’80. Terzo: l’Europa di Maastricht, l’Europa di fine e inizio secolo. Quarto: l’Europa di oggi, l’Europa di fronte al nuovo disordine mondiale. Quinto: l’Europa di domani, il precipizio in cui rischiamo di finire se “non facciamo la cosa giusta”.
La cosa giusta che evocherò alla fine del mio discorso si chiama – dal punto di vista politico, geo-politico e geo-economico – apertura alla Cina e al sempre più vasto mondo dei Brics. La “mossa del cavallo”, metafora riduttiva ma che rende l’idea.
L’Europa di Ventotene
Il mio excursus inizia con il Manifesto più citato e meno letto nel nostro Paese, Il Manifesto di Ventotene. Comincerò, dunque, con l’approccio demonizzante per eccellenza, l’approccio della “Giorgia nazionale”, fintamente nazionale: «non so se questa Europa è la vostra, ma non è certo la mia», dice compiaciuta, con se stessa, la Presidente del Consiglio.
Giorgia Meloni continua a soffrire di una fastidiosa forma di allergia per le parole antifascismo e comunismo. Non potendo frontalmente attaccare l’antifascismo, ha nelle scorse settimane provato a screditarne surrettiziamente la credibilità etichettandolo come una declinazione del comunismo e del totalitarismo sovietico. Ricostruzione ardita, storiograficamente tossica. Scritto nel confino di Ventotene e uscito nel 1941 – l’anno più nero, quando il nazismo e il fascismo dominavano l’Europa e si dava avvio alla Shoa – il Manifesto è opera sì di tre antifascisti, pluri-carcerati e condannati dal regime. Ma nessuno di loro – né Spinelli, né Rossi, né Colorni – era comunista. Spinelli comunista lo era stato. Ma, espulso nel 1937 per le sue posizioni antistaliniste, fonderà nel 1943 il Movimento federalista europeo. Rossi era un radicale e liberale di sinistra. Colorni, morto nella lotta di resistenza, era un giellista e un socialista (https://www.eticapa.it/eticapa/wp-content/uploads/2025/03/Cosa-c%C3%A8-scritto-nel-Manifesto-di-Ventotene.pdf).
Nessuno di loro voleva importare in Europa e in Italia il socialismo sovietico. Eppure, la Signora Meloni prova malamente a estrarre dal Manifesto di Ventotene dei passaggi che inchioderebbero i loro autori al campo di coloro che volevano allora, e vorrebbero oggi, un’Europa totalitaria e antidemocratica. Una delle parole “incriminate” è quella in cui il Manifesto fa riferimento alla necessità storico-politica di dar vita a un “partito rivoluzionario”. Ma il partito di cui parla il Manifesto non è – basterebbe saper legger e far di conto – un partito marxista-leninista, ma un ampio movimento politico con al centro della propria azione (leggo tra virgolette) «l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni di vita più umane». Insomma, quel programma di giustizia sociale che sarà limpidamente declinato nella Costituzione da tutte le forze popolari che avevano fatto la resistenza. E che condividevano tutte l’esigenza di grandi e radicali cambiamenti in grado di fornire una risposta diversa – una risposta democratica, progressiva, Signora Meloni – da quella fornita dal fascismo alla crisi dello Stato liberale ottocentesco.
Nessun dogmatismo social-comunista, dunque. La bussola dell’auspicato movimento non potrà essere – è scritto a chiare lettere nel Manifesto – «il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita o tollerata solo in via provvisoria (…)». Segue, a scanso di equivoci, l’esplicita critica alla Russia di Stalin.
Alcuni sospettano che il Presidente del Consiglio abbia, di fronte alle divisioni della propria maggioranza sul tema del riarmo, deciso a tavolino di mandare la palla nel campo delle opposizioni; di buttarla in caciara, come si dice a Roma. Può darsi. Come che sia, siamo di fronte a una demonizzazione di Ventotene che si prefigge una più ampia finalità: accreditare l’idea che l’odiata l’Europa delle tecno-burocrazie di Bruxelles affondi le sue radici nelle culture dell’antifascismo e del costituzionalismo democratico-sociale.
Due piccioni con una fava, dal punto di vista di Giorgia né fascista né antifascista, né europeista né antieuropeista. Dunque, ben posizionata nell’arte della quadratura del cerchio di cui è maestra: rafforzare militarmente gli Stati membri (non l’Europa) per difendersi da Putin perché questo piace agli USA, non rafforzare politicamente l’Europa perché questo non piace agli USA ((https://www.libertaegiustizia.it/2025/03/20/le-parole-di-meloni-e-leuropa preda-del-piu-forte/).
Se così fosse, e credo di non essere lontano dalla verità, dobbiamo chiederci se la monumentalizzazione del Manifesto di Ventotene in cui rischia di cadere il discorso di coloro che fondatamente ne denunciano un uso strumentale non finisca per decontestualizzare anch’esso il Manifesto. Per consegnare in mano ai sovranisti nostrani una immeritata arma retorica e propagandistica.
Mitizzare un Manifesto che ha un’influenza limitata, assai modesta, sulla odierna identità e azione dell’Unione europea mette oggettivamente in ombra l’Europa reale degli ultimi 80 anni. È un parlar d’altro agli occhi dei tanti che, con qualche fondata ragione, dubitano delle magnifiche e progressive sorti dell’Unione. Un’Europa, oggi, delle tecno-burocrazie, dell’establishment finanziario, quanto mai distante dai progetti emancipatori contenuti nelle costituzioni del secondo dopoguerra, anche quando a guidarla vi sono forze che impropriamente si autodefiniscono democratiche e di progresso.
L’Europa comunitaria
Non sempre è stato così. Altro è stata la seconda Europa, l’Europa dell’altro ieri, l’Europa dei risorti Stati nazionali e sociali del secondo dopoguerra; l’Europa, tra gli anni ‘50 e ’80, delle tre Comunità economiche. Un’Europa certamente funzionalista e mercatista quando scrive nero su bianco nei Trattati il principio dell’economia aperta e in libera concorrenza ma che, a differenza di quanto, pur acutamente, sostenuto da Alessandro Somma (https://www.lafionda.org/2025/03/22/ventotene-tra-mito-e-tabu/), era tutt’altro che ostile all’emancipazione del mondo del lavoro, a uno sviluppo equilibrato dei territori e delle comunità del Vecchio continente.
Un’Europa socialdemocratica anche quando non sapeva di esserlo, analogamente a quanto avveniva con il New Deal dall’altra parte dell’Atlantico (G. Gerstle, 2024). Le classi dirigenti dei paesi che aderiscono al progetto comunitario non intendevano, infatti, cancellare con un tratto di penna gli Stati nazionali e le tutele che questi cominciavano ad apprestare per i loro popoli. Aderiscono alla Comunità economica per accrescere il benessere e la ricchezza delle loro nazioni. Come? Eliminando gli ostacoli al funzionamento dei mercati (libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi, dei capitali) che limitavano la forza espansiva e progressiva dei commerci. Ma esigendo, nello stesso tempo e con eguale forza, che la “decisione politico-economica” di dar vita a un mercato aperto e in libera concorrenza non avvenisse a scapito degli Stati sociali che nel frattempo venivano consolidandosi a livello nazionale.
Un grande compromesso costituzionale fondato su una “separazione funzionale” tra la sfera del mercato comune, posta sotto l’autorità della normativa e della giurisprudenza sovranazionale, e la sfera del Welfare State, posta sotto l’autorità degli Stati membri (S. Giubboni, 2003). Un compromesso scolpito nell’espressione “Smith all’estero e Keynes in patria” che ha consentito per diversi decenni uno sviluppo autonomo degli Stati sociali nazionali europei. Un’autonomia compatibile con la “costituzione economica internazionale” disegnata dagli accordi di Bretton Woods del 1944 e dall’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio di Ginevra nel 1947. Per un verso, infatti, il sistema di cambi fissi, ancorati al dollaro, garantiva, una certa stabilità monetaria e finanziaria che impediva movimenti di capitali fini a sé stessi, movimenti svincolati da un corrispondente scambio di merci e servizi. Per altro verso, l’apertura al commercio internazionale era bilanciata dell’intervento pubblico in economia a fini redistributivi (F. Losurdo, 2016).
Il diritto – si è detto – di “ballare al proprio ritmo per gli Stati membri del sistema di Bretton Woods che avevano rimosso le restrizioni al commercio con l’estero e non discriminavano tra partner commerciali” (A. Carabelli, M. Cedrini, 2014). Un sovranismo buono e giusto Signora Meloni, Signora Schlein. Il sano sovranismo dei Trenta gloriosi successivi alla seconda guerra mondiale, quando il vincolo esterno, europeo e atlantico, imponeva un progressivo smantellamento delle barriere tariffarie e normative al commercio, ma non intaccava la possibilità per ciascuno Stato nazionale di modellare il Welfare secondo le proprie specifiche esigenze e vocazioni.
Sto parlando degli anni dell’intervento pubblico per il pieno impiego, delle politiche industriali e della concertazione con le parti sociali. Sto parlando degli anni in cui l’Europa conosce, parallelamente all’edificazione delle istituzioni del mercato comune, il più alto livello di benessere economico e sicurezza sociale della sua storia. Sino a quando – ahinoi – l’infrangersi nei primi anni ‘70 dello ‘scudo’ difensivo apprestato dal sistema di Bretton Woods aprirà il “vaso di Pandora” della libera circolazione dei capitali finanziari. Un evento che segna l’inizio del declino della sovranità sociale degli Stati europei, sempre più condizionati nell’esercizio delle loro funzioni dal vincolo della stabilità monetaria e finanziaria che aprirà le porte alle politiche di austerità a opera anche di forze progressiste. Forze progressiste – ahinoi – che non sanno nemmeno di essere culturalmente e politicamente neoliberali.
L’Europa di Maastricht
Siamo così giunti all’Europa di ieri, all’Europa di fine millennio e inizio XXI secolo. All’Europa dei quaranta ingloriosi. A Maastricht, il lato oscuro dell’Unione.
Il processo di integrazione sovranazionale muta forma e finalità. L’edificazione dei sistemi di protezione sociale era stata, dopo il disastro della pima e della seconda guerra mondiale, il principale fattore di rilegittimazione etico-politica delle classi dirigenti europee. Ben oltre il federalismo visionario alla Spinelli. Ora invece, con il declino dell’ordine di Bretton Woods, il mantenimento dei livelli di prestazioni erogate dal welfare dipende in misura sempre maggiore dalla capacità di rifinanziare il debito sovrano sui mercati, dalla capacità dello Stato di guadagnarsi e mantenere la loro ‘fiducia’.
Il mutamento della “costituzione economica internazionale” ha ricadute destrutturanti sulla “costituzione economica comunitaria”. Nella sfera microeconomica si capovolgono i rapporti di forza tra Stato e mercato, in conseguenza della costituzionalizzazione del “principio del mutuo riconoscimento” e dell’esasperazione della concorrenza al ribasso delle tutele. Nella sfera macroeconomica il Trattato di Maastricht pone al vertice il valore della stabilità monetaria, attribuendone l’esclusiva custodia alla Banca centrale europea la quale, solo subordinatamente al vincolo antinflazionistico, è autorizzata a sostenere le “politiche economiche generali dell’Unione”. Parallelamente è introdotto il principio delle “finanze pubbliche sane”: il debito pubblico di ciascun paese non può superare il 60 per cento del PIL e il deficit annuale il 3 per cento.
Gli ambiti concessi agli Stati membri per il perseguimento di autonome politiche redistributive vengono pesantemente ristretti in forza di vincoli sempre più stringenti fino ad arrivare con il patto di stabilità a sancire la regola del saldo di bilancio in pareggio e poi con il c.d. “patto di bilancio” (Fiscal compact) la recezione del principio del pareggio anche negli ordinamenti interni. Mentre, per far fronte alla crisi dei debiti sovrani si istituisce un “fondo salva Stati” (Trattato MES) per il sostegno finanziario degli Stati a rischio di solvibilità, un sostegno condizionato all’adozione di piani di aggiustamento strutturale sotto la vigilanza di un organismo ibrido, la c.d. troika, composto dai rappresentanti della BCE, della Commissione europea e del Fondo monetario internazionale (FMI). Ne sanno qualcosa i pensionati greci, e non solo loro.
Il valore della stabilità macroeconomica è uno degli sciagurati pilastri dell’ordine di Maastricht. Altrettanto sciagurato è il pilastro della competitività, quella competitività che mister Draghi, ancora in questi mesi e in queste settimane, continua a invocare come la nostra ancora di salvezza.
Già a partire dal Trattato di Amsterdam, si progetta a una politica sociale comune che dovrebbe porre riparo alla cura dimagrante a cui sono sottoposti welfare e tutele lavoristiche. La politica sociale comune viene, però, espressamente subordinata alla “necessità di mantenere la competitività dell’economia dell’Unione”, all’imperativo di integrare, a qualsiasi prezzo, lo spazio europeo nella globalizzazione. E invero, le “riforme strutturali”, il cui punto di riferimento è l’“Agenda 2010” del Governo rosso-verde Schroeder, vengono finalizzate a rendere “sostenibili” i sistemi di welfare al fine di vincere la battaglia competitiva con gli altri grandi spazi mondiali (F. Losurdo, 2016).
È questo il segno delle politiche volte a condizionare a precisi comportamenti ‘attivi’ i livelli salariali dei lavoratori, chiamati a riqualificarsi continuamente, ad accettare qualsiasi proposta d’occupazione, a condizionare la sicurezza del posto in cambio di un’estesa e perniciosa flessibilità. Il prezzo, lo vediamo quotidianamente, è un numero spaventoso di infortuni, non solo di morti sul lavoro ma anche di morti di lavoro (https://fuoricollana.it/morti-sul-lavoro-morti-di-lavoro/). E al pari dei diritti sociali individuali anche i diritti sociali collettivi (sciopero, contrattazione collettiva) vengono condizionati al pieno dispiegarsi delle libertà economiche, come emerge da un risalente e inquietante filone giurisprudenziale. La lotta di classe non è affatto finita. È che nei “quaranta ingloriosi” l’hanno vinta i capitalisti.
L’Europa di oggi
Stabilità finanziaria e riforme strutturali hanno trovato la loro saldatura nel corso della crisi finanziaria del primo e del secondo decennio del XXI secolo. L’austerità può condurre all’insolvenza degli Stati più fragili e allora la si accompagna con riforme strutturali dirette a incrementare la domanda esterna e a compensare la contrazione della domanda interna. La chiamano, senza alcun pudore, austerità espansiva (A. Guazzarotti, 2024), un modello ‘a rime obbligate’ che i Trattati qualificano “economia sociale di mercato fortemente competitiva”. Dove vedano il sociale non è chiaro.
Ciò che è chiaro, già prima della crisi pandemica e della guerra russo-ucraina, è che una società attraversata da crescenti diseguaglianze e dall’insicurezza generalizzata non è più la società prefigurata dalla triade liberté égalité fraternitè e dalle costituzioni democratico-sociali degli Stati membri. È, anzi, la leva che continuamente rischia di travolgere l’Unione, la sua legittimità, il brodo di coltura di cui si alimentano sovranismi nazionalistici e secessionismi.
Siamo così giunti all’Europa del terzo decennio del XXI secolo, all’Europa di oggi. A un’Unione che ha negli ultimi tre anni coltivato l’illusione di uscire dal deficit di credibilità delle sue classi dirigenti – deficit di cui l’ineffabile Signora Ursula è l’icona vivente – sperimentando frammenti di economia di guerra e della società europea come di una società di guerra.
In attesa di cosa? In attesa di una improbabile caduta della Russia che avrebbe dovuto aprirle nuovi mercati e nuove occasioni di inediti e predatori profitti. Un’Unione che ora, in questi giorni, in queste ore, ipocritamente si scandalizza se prova a farlo chi – Donald Trump e gli uomini della sua amministrazione- è da tempo avvezzo alla pratica brutale della logica di potenza, della politica come al tavolo del gioco del risiko, della politica del prima spari e poi pensi perché lo hai fatto (https://fuoricollana.it/trump-o-del-governo-del-padrino/). Della politica del “francamente io me ne infischio”.
Piange – ha scritto Michele Prospero – la baronessa con il consulente speciale al seguito fermato solo dalla inesorabilità dell’orologio, perché al telefono i due autocrati hanno concordato le tappe della tregua. Draghi lamenta il tradimento del “nostro maggiore alleato” e scandisce il proposito di “proteggerci difendendoci”. L’Europa risponde all’annuncio di un silenzio delle bombe con la volontà di riarmo e con lo stanziamento di nuovi aiuti militari all’Ucraina. Tentando di sabotare le trattative, i governi del Vecchio Continente non hanno ancora metabolizzato che la struttura delle relazioni internazionali è cambiata in maniera profonda (M. Prospero, 2025).
Non vedono i governi dell’Unione che il vicino Putin, a motivo della sicurezza minacciata, ha dato uno scossone militare a un ordine unipolare già in palese affanno. Non per caso l’America fuggiva dalle molteplici operazioni di “polizia internazionale” in cui era impegnata. I costi delle guerre in nome della espansione della democrazia parevano insostenibili anche per la nazione indispensabile. Tornando alla Casa Bianca, Trump ha strapazzato le compatibilità interne alla potenza non più egemone. Invece di agire nella situazione nuova ricorrendo a categorie aggiornate, Draghi e l’élite di Parigi e Berlino rimangono aggrappati a una ideologia sorpassata. Urlano perché il comandante in capo, preso atto che la guerra per procura è persa, ha telefonato all’Hitler moscovita per concordare una soluzione. Per chi sognava di imporre un cambiamento di regime in Russia, dovrebbe trattarsi di un salutare bagno di realtà.
E invece no. E invece prevale la postura tutto chiacchiere e distintivo. Von der Leyen torna a riciclare il motto per cui se vuoi la pace devi preparare la guerra e il suo consigliere Draghi garantisce che attraverso la produzione di missili ci sarà “certamente” – bontà sua – un maggiore ritorno industriale”. Leonardo & C e, soprattutto, le multinazionali statunitensi dei missili brindano. Già Marx aveva censurato gli esiti catastrofici della realpolitik orientata agli armamenti quando annotava che “con l’aiuto del vecchio e fidato si vis pacem, para bellum, ecco cominciare una di quelle guerre di civiltà la cui futile barbarie ricorda i più bei tempi dei saccheggi cavallereschi, mentre la loro sottile perfidia appartiene in esclusiva alla più moderna età della borghesia imperialista”.
Invece di annunciare un gigantesco piano di riarmo, per essere riconosciuta tra alcuni lustri come partner temuto grazie ai fucili, l’Europa dovrebbe giocare qui e ora le sue carte politico-culturali. Il suo ruolo dovrebbe risiedere nella progettazione delle istituzioni di un nuovo ordine internazionale in grado di gestire una sicurezza cooperativa (confini, armi, commercio, ambiente, malattie, flussi migratori). Peccato però che, per farsi valere con la visione che caratterizza ogni grande politica, capace di una integrazione e convergenza delle diverse potenze, servano statisti. Una merce rara – conclude Prospero – nella post-politica ridotta a comunicazione volgare o alle sparate di supertecnici che con i carri armati promettono la riduzione delle bollette (M. Prospero, 2015).
L’Europa di domani
Non vogliamo, non possiamo, non dobbiamo, rassegnarci a questa deriva del Vecchio Continente. È vero che gli altri – non solo il Padrino, Donald Trump – non stanno ad aspettarci. È vero che non è scritto in nessuna tavola della legge che il mondo abbia eternamente bisogno di noi. È vero che una Storia senza l’Europa non è più una prospettiva remota.
Tante volte mi è capitato di ricordare la profetica attualità della constatazione dei ragazzi tunisini delle primavere arabe. Dicevano: l’Europa sta invecchiando, un’evidenza demografica. E, aggiungevano, sta invecchiando male. E, tuttavia, voi mi insegnate, che è possibile invecchiare bene.
Dobbiamo trovare la strada – sarà una strada lunga e piena di ostacoli – per mandare a casa finti sovranisti e finti europeisti, smascherando gli opportunismi e i velleitarismi di entrambi. Quella strada ha un nome, ritorno della politica.
Ritorno della politica significa, innanzitutto, tornare ad analizzare rigorosamente il campo delle forze e degli interessi che si muovono nel mondo e delle strategie che sono in campo. La banalità che la globalizzazione è finita lasciamola ai futurologi. Con Trump è ‘semplicemente’ diventato manifesto che si è aperta una nuova fase per il dominio della globalizzazione e che le forme di questo dominio sono diverse da quelle del defunto ordine neoliberale.
Questa è la verità e la verità, ci ha insegnato, Gramsci contiene sempre in sé un nucleo ‘rivoluzionario’. Stiamo, dunque, ai fatti senza timore di essere presi per putiniani e per trumpisti. C’è ne siamo fatti una ragione in questi tre anni che ci separano dall’operazione militare speciale della Russia, c’è ne faremo ancora una ragione nei prossimi mesi.
Ha scritto Mario Barcellona nel web magazine fuoricollana.it, che da qualche anno dirigo insieme a Federico Losurdo, parole limpide, parole di verità, che condivido interamente. E con queste concluderò il mio discorso.
Il ReArm Europe della von der Leyen si fonda tutto su di una doppia premessa: la minaccia russa verso l’intera Europa e il prossimo abbandono americano del vecchio continente alle mire espansionistiche di Putin. Non è necessario essere esperti di geopolitica per capire che entrambe queste premesse sono radicalmente insostenibili. L’idea di una minaccia russa verso l’intera Europa è assolutamente priva di fondamento: se ci son voluti ben tre anni perché la Russia riuscisse ad affermare la propria supremazia sull’esercito ucraino (ancorché sostenuto dall’Occidente), come si può pensare che si proponga di muovere guerra all’intera Europa o anche solo ai paesi baltici, l’una e gli altri protetti – come sono – non solo dall’ombrello NATO ma anche dalla clausola di difesa reciproca dell’art. 42 del Trattato UE?
Putin sarà pure un imperialista guerrafondaio, ma non è né pazzo né stupido. Mentre l’assimilazione della sua strategia a quella della Germania nazista è del tutto superficiale e antistorica. Come lo è la similitudine con il patto di Monaco del 1938. E questo non perché Putin sia da ritenere più buono di Hitler, ma semplicemente perché la sua principale forza militare (l’atomica) è essenzialmente un’arma difensiva, perché con 140 milioni di abitanti e un PIL di poco più di 2000 miliardi di dollari non può fronteggiare una UE con 450 milioni di abitanti e un PIL di 18,500 miliardi di dollari e perché, soprattutto, il suo problema non è quello di aver più territorio ma quello, opposto, di aver troppo territorio e poco popolo che lo abiti e ne valorizzi le grandi risorse.
Tutte queste sono cose già dette e ripetute. Ma il punto è che se anche Putin fosse pazzo o stupido a non reggere proprio è la seconda, e fondamentale, premessa del ReArm, e cioè quella di un prossimo abbandono americano dell’Europa. Trump può dire quel che vuole, ma nessuno può seriamente pensare che gli USA possano proporsi di abbandonare il vecchio continente alle mire espansionistiche della Russia. Un’area geopolitica composta da UE e Russia avrebbe una popolazione quasi doppia rispetto a quella degli USA e un PIL di oltre 18.000 miliardi di dollari, supportati dalle immense risorse naturali siberiane (e quindi con grandi prospettive di sviluppo).
È perciò, assolutamente impensabile che gli USA, il cui problema esistenziale è quello di contenere la Cina, favoriscano la formazione di un terzo polo ostile di siffatte dimensioni. Gli USA, dunque – anche obtorto collo – non possono permettere che la Russia conquisti l’Europa o comunque la assoggetti alla sua egemonia. E questo per il loro strategico interesse e non per antica affezione o comunanza di valori civili.
Quel che Trump chiede, e che con esso gli USA chiedono non da oggi, è un maggior coinvolgimento finanziario della UE nel costo della difesa del blocco occidentale. E, soprattutto che – giusto o sbagliato che sia – essa si adegui al warning di “non disturbare il guidatore” mentre si accinge a mettere in opera la sua strategia cruciale, quella di impedire che una Russia messa alle corde in Ucraina si consegni nelle mani della Cina, così sommando il suo potere atomico e le sue grandi risorse naturali a un apparato industriale, quello cinese, formidabile – competitivo anche sui terreni più avanzati dell’intelligenza artificiale – e a una popolazione di quasi un miliardo e mezzo di persone (https://fuoricollana.it/la-schlein-il-pd-e-il-rearm-europe/).
Poiché questo – conclude Mario Barcellona – non è tempo di “sommessi avvisi” bisogna dire, forte e apertamente, che chi di queste premesse si avvale per sostenere la rispondenza del ReArm a un “interesse esistenziale” dell’Europa o ha smesso di ragionare o non parla in buona fede.
Temo, aggiungo, si tratti di entrambe le cose. E aggiungo ancora – mi perdonino le tante anime belle della sinistra liberal – che è tempo di smetterla di rifugiarsi in un’onirica età dell’innocenza. È tempo di un impietoso esame dei troppi lati oscuri della nostra storia passata e recente, preludio indispensabile per una azione politica autonoma dell’Unione. Ogni riferimento alla Cina e al nascente universo dei Brics è voluto. Tutto il resto è noia, peggio è complicità ((https://fuoricollana.it/trump-o-del-governo-del-padrino/).
Riferimenti bibliografici
Barcellona, La Schlein, il PD e il ReArm Europe, fuoricollana.it
Cantaro, Morti sul lavoro, morti di lavoro, fuoricollana.it
Cantaro, Trump. O del governo del padrino, fuoricollana.it,
Carabelli, M. Cedrini, Secondo KEYNES, Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods, Roma, Castelvecchi, 2014,
Di Salvatore, Il vero volto di Meloni sull’Europa, “Libertàgiustizia”, 20 marzo 2025.
Gerstle, Ascesa e declino dell’ordine neoliberale. L’America e il mondo nell’era del libero mercato, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2024.
Giubboni, Diritti sociali e mercato. La dimensione sociale dell’integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2003
Guazzarotti, Debito e democrazia. Per una critica del vincolo esterno, Egea, Milano, 2014
Losurdo, Lo Stato sociale condizionato. Stabilità e crescita nell’ordinamento costituzionale, Giappichelli, Giappichelli, Torino, 2026.
Melis, Cosa c’è scritto nel “Manifesto di Ventotene”, “Nuova Etica Pubblica”, 21 marzo 2025.
Prospero, L’ossessione di Mario Draghi: il terrore che l’Occidente che si sgretoli, “L’Unità”, 21 marzo 2025.
Rossi, A. Spinelli, Il manifesto di Ventotene (rist. anast.), a cura di S. Pistone, CELID, Torino 2004.
Somma, Ventotene tra mito e tabù, “La Fionda”, 22 marzo 2025.
[Lectio tenuta venerdì 28 marzo 2025 all’Assemblea dello Spi Abruzzo Molise]
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