“LE POPOLAZIONI PIÙ FRAGILI SONO COLPITE DA INGIUSTIZIE ECONOMICHE E CLIMATICHE” da IL MANIFESTO
«Le popolazioni più fragili sono colpite da ingiustizie economiche e climatiche»
INTERVISTA A TONINO PERNA, PRESIDENTE DI «L20» «Il piano Mattei è il solito approccio all’Africa: rapina delle risorse energetiche e fondi blocca migranti». Tra paesi più ricchi e più poveri la disparità delle emissioni climalteranti pro capite è più alta della diseguaglianza di reddito
Marinella Correggia 17/04/2025
Esattamente settant’anni fa, con una Dichiarazione in dieci punti sulla promozione della pace nel mondo e la cooperazione fra i popoli, si concludeva la storica conferenza di Bandung in Indonesia: l’incontro fra 29 Stati afro-asiatici che irrompevano sulla scena mondiale proponendo la decolonizzazione, il neutralismo, la soluzione dei conflitti con mezzi pacifici, il riequilibrio fra Nord e Sud. Dei venti paesi che attualmente sono considerati i più poveri al mondo (malgrado la loro importanza e le loro rapinate risorse), parteciparono allo storico evento solo Afghanistan e Liberia; gli altri erano ancora colonie. Oggi, per guardare il mondo con gli occhi di questi Ultimi venti (Last 20), lavora l’associazione L20, nata in occasione dell’incontro in Italia del G20, il club dei 20 paesi più «avanzati». L20 è presieduta da Tonino Perna, docente universitario, sociologo ed economista, fondatore dell’Ong Cric di Reggio Calabria. Un impegno di tanti decenni, diviso fra il Sud dell’Italia e il Sud del mondo.
Perché sostenete che i venti paesi al centro dei rapporti annuali e dell’attività dell’associazione «L20» sono colpiti da un’ingiustizia che è anche climatica?
Il World Inequality Lab, curato dal Global Change Institute, rivela un dato significativo: fra i paesi più ricchi e quelli più poveri (o meglio impoveriti), la disparità nelle emissioni climalteranti pro capite è maggiore della stessa diseguaglianza di reddito. E paradossalmente sono proprio i paesi L20 a subire gli impatti peggiori di una crisi planetaria della quale sono poco responsabili. L’Africa sub-sahariana contribuisce alle emissioni globali nella misura del 4-5%; ma è quella che sta pagando di più gli effetti della crisi eco-sistemica. Eppure, nei confronti di quelle realtà si registra da tempo una caduta dell’attenzione e dunque della solidarietà internazionale.
Anche i conflitti che devastano i cosiddetti «Ultimi» sono oscurati?
Sì. Oltre i due terzi dei paesi L20 sono coinvolti in guerre, o lo sono stati negli ultimi due decenni. I conflitti armati sono una causa centrale dell’immiserimento per questi paesi. Eppure gli economisti mainstream hanno ignorato sistematicamente il ruolo dei conflitti in tutte le teorie dello sviluppo insegnate nelle università.
Il rapporto «Last Twenty 2024» richiama la centralità dei processi di pace e dialogo. Ma la comunità internazionale sembra incapace di trovare vie d’uscita alle guerre, spesso fomentate dall’esterno.
Prendiamo i casi, pur molto diversi, del Sudan (anche se non fa parte degli L20, il nostro ultimo rapporto vi dedica un approfondimento), della Repubblica democratica del Congo, di Haiti, e dei paesi afflitti dal terrorismo in questi ultimi anni. Cosa può fare un’associazione di rappresentanti della società civile di fronte a questa sfida enorme? Il senso di impotenza ci colpisce tutti. Un lavoro da portare avanti è dare voce ai migranti che provengono da realtà sconvolte dalla violenza: sia per influenzare l’opinione pubblica europea sia per mettere in moto una rete. Ed è necessario creare sinergie tra gli attori impegnati nella cooperazione popolare negli L20.
Le diseguaglianze sociali interne, nei paesi «L20», sono un fattore aggravante?
In realtà i più poveri tra gli L20 hanno un indice di diseguaglianza sociale basso (Malawi, Ciad, Repubblica Democratica del Congo fra gli altri); con alcune eccezioni come la Repubblica Centrafricana.
Quale ruolo hanno e avranno i nuovi blocchi internazionali rispetto ai paesi «L20»?
Dalla metà del secolo scorso abbiamo registrato un’accelerazione nel mutamento tecnologico, mentre la geopolitica si trasformava più lentamente. Certo, con la caduta del muro di Berlino il mondo sembrava diventato unipolare. In pochi anni, l’emergere della Cina e il distacco della Russia dal G8 hanno riprodotto blocchi contrapposti e la ricreazione del Nemico. E oggi, mentre stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi con oltre sessanta conflitti disseminati, si registra una forte spinta verso un mondo multipolare, in particolare con i Brics. Naturalmente per gli L20 esiste una maggiore libertà di scelta, ma anche il rischio di sostituire i vecchi padroni con i nuovi. Lo vediamo nel Sahel (i cui paesi fanno stabilmente parte degli L20), dove la Francia regnava sovrana dalla fine del XIX secolo ed è stata estromessa dalla Russia. Quanto alla Cina, come è noto è riuscita in un quarto di secolo ad acquistare terreni e miniere nell’Africa sub-sahariana.
Quali prospettive offre il piano Mattei, certo guidato da due questioni, migrazione e approvvigionamento energetico?
Nessuna, temo; è il solito approccio all’Africa che è prevalso in questi anni: rapina delle risorse e finanziamenti per bloccare i flussi migratori. Intanto, piano Mattei a parte, nell’era Trump con il blocco dei fondi dell’Usaid vengono colpite le popolazioni più fragili del pianeta: quelle che vivono nei campi profughi. Come associazione L20 abbiamo raccolto firme prestigiose per chiedere a Lula da Silva, in qualità di presidente pro tempore dei Brics, di creare un fondo per quei paesi, per sopperire ai tagli di Washington.
Nel mese di ottobre, l’associazione «L20» terrà un incontro ad Assisi, centrato sulle migrazioni e sulla diaspora. Anche contro gli stereotipi.
Vogliamo incontrare i rappresentanti della società civile dei paesi L20 per affrontare insieme alcuni temi cruciali, come quello del debito esterno e dei conflitti, ma anche del fair trade come alternativa concreta al free trade e al neo-protezionismo. E siccome pensiamo che sia importante interessare l’opinione pubblica occidentale a quanto succede là, cercheremo di mettere insieme artisti e fotografi di quei paesi in una grande mostra. Gli L20 vengono sia oscurati che stereotipati, visti come realtà sottosviluppate che sopravvivono grazie agli aiuti internazionali. Siccome non è così, occorre un’altra narrazione, che valorizzi le loro capacità. Un esempio? Nella tormentata Somalia lavora da tempo Bilan Media, una squadra di reporter, la prima di sole donne nel paese. Le loro inchieste, i loro reportage raggiungono milioni di persone.
I 20 paesi più poveri nella tempesta globale
RAPPORTO «LAST20» Lo stato dell’arte delle popolazioni in fondo a tutte le graduatorie socioeconomiche e ambientali documentato dal nuovo rapporto Last Twenty 2024
Marinella Correggia 17/04/2025
La notizia che il presidente statunitense Donald Trump ha ordinato di cancellare la misura di risparmio idrico che limitava a 9 litri al minuto il flusso nelle docce non è probabilmente arrivata agli oltre 2,2 miliardi di terrestri umani privi di un accesso all’acqua che sia sufficiente, sicuro, vicino a casa, stabile. Benché negli ultimi decenni la situazione a livello mondiale sia migliorata molto, in tante realtà appare tuttora un lusso il consumo pro capite di 20 litri giornalieri e perfino 10 – per tutti gli usi.
INSIEME ALLA CARENZA DI ACQUA potabile gestita in modo sicuro, scarseggiano idonei servizi igienico-sanitari (comprese le semplici strutture per il lavaggio delle mani con il sapone). Ne deriva un impatto diretto sulla mortalità nei paesi più impoveriti, come emerge negli approfondimenti settoriali offerti dal rapporto Last Twenty 2024 (edizioni Città del sole, 2025), a cura dell’associazione italiana L20.
MA ECCOLI, I PAESI L20, ovvero gli Ultimi 20, quelli collocati al fondo nelle graduatorie socioeconomiche mondiali. In ordine alfabetico sono questi: Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Ciad, Eritrea, Gambia, Haiti, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Repubblica centrafricana, Repubblica democratica del Congo (Rdc), Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan,Togo, Yemen. Una lista aggiornata ogni anno. Il criterio base + il prodotto interno lordo (Pil) pro capite a prezzi costanti e a parità di potere d’acquisto, ma il rapporto analizza i dati relativi all’insieme delle condizioni di vita, per proporre precise raccomandazioni – anche agli attori internazionali.
LE CRISI CHE AFFLIGGONO I PAESI L20 sono multifattoriali. Conflitti distruttivi, cambiamenti climatici, sfruttamento internazionale, terrorismo (soprattutto nel Sahel), difficoltà economiche, cattiva governance. Per questo, fra le strategie generali necessarie, il rapporto suggerisce: la riduzione della dipendenza dalle esportazioni di materie prime, fonte di vulnerabilità e conflitti; l’attenzione massima ai cambiamenti climatici, in particolare promuovendo l’adattamento nelle regioni più vulnerabili; la ricerca di percorsi ed esperienze alternative di sviluppo umano e civile; decisi negoziati di pace. La cooperazione internazionale (in fondo, una «restituzione») deve fare la sua parte.
I DATI DEMOGRAFICI RIVELANO un’età mediana ponderata molto bassa, 16,99 anni; elevati livelli di mortalità infantile (in media 47,9 decessi per 1000 nati vivi) e di mortalità sotto i cinque anni (70 decessi per mille nati vivi); un’aspettativa di vita assai limitata; alti tassi di fertilità. Complessi gli interventi necessari: misure di prevenzione per ridurre la mortalità infantile, accesso ai servizi idrici, igienico-sanitari e a una buona alimentazione, investimenti in istruzione e sanità e programmi di pianificazione familiare. E forti investimenti in alloggi, trasporti, scuole, sanità, lavoro. Da superare poi i divari di genere nella partecipazione economica femminile (il Mozambico si distingue per i progressi avvenuti – è salito al 27° posto a livello globale – e anche il Burundi non se la cava male. I punteggi più bassi in Ciad e Mali).
DENUTRIZIONE E INSICUREZZA alimentare rimangono sfide gravi, con peggioramenti significativi rispetto a dieci anni fa a causa di conflitti, violenza ed emergenze ambientali. Secondo il Global Hunger Index, in alcuni paesi come Gambia e Burkina Faso la percentuale di bambini deperiti (malnutrizione acuta) è diminuita, in altri come Niger e Yemen rimane grave. La malnutrizione cronica (rachitismo) colpisce oltre il 40% dei bambini in Afghanistan, Burundi e Niger. Pratiche agricole sostenibili per produrre localmente cibo nutriente (affrontando il cambiamento climatico) e interventi nutrizionali mirati devono accompagnarsi al potenziamento dell’assistenza sanitaria e dei servizi idrici e igienici.
CRESCE L’URBANIZZAZIONE. Nel 2030 riguarderà oltre il 60% della popolazione, attualmente la media dei paesi Last20 oscilla fra il 30% e il 50%. In Ciad, Congo Rdc e Afghanistan, intorno all’80% della popolazione urbana sopravvive in baraccopoli. La pianificazione urbana sostenibile è fondamentale per un percorso verso condizioni di vita dignitose.
IL TASSO DI ALFABETIZZAZIONE degli adulti, strumento fondamentale per lo sviluppo umano e sociale, riflette disuguaglianze fra i paesi e i generi, ma si registrano anche significativi passi avanti, ad esempio in Congo Rdc. In Ciad invece sa scrivere solo il 18,9% della popolazione femminile. Il Madagascar, invece, ha quasi azzerato il divario uomini-donne.
SORPRESE. IL DEBITO ESTERO in molti L20 presenta percentuali rispetto al Pil basse, se confrontate con quelle dei paesi occidentali. Eppure in diversi casi c’è il rischio di default: a causa del pesante servizio del debito. Diversi interventi si rendono necessari: ristrutturazione del debito, accesso al credito, supporto internazionale (magari con la tassazione dei super-ricchi), potenziare le economie locali per una minore dipendenza. Le rimesse dei migranti – stimate intorno ai 100 miliardi di dollari l’anno per la sola Africa – sono un elemento vitale dell’economia dei paesi L20. Ben più dell’aiuto allo sviluppo. Le transazioni vanno rese meno costose e capaci di investire in percorsi di sviluppo sostenibile.
SE I PAESI «L20» NEL 2023 HANNO prodotto 14 milioni di rifugiati e richiedenti asilo (l’Afghanistan guida la classifica), va detto che gli sfollati interni sono oltre 23 milioni (in testa Yemen, Burkina Faso, Rdc, Somalia, Afghanistan, Ciad e Sud Sudan). E sono gli stessi paesi impoveriti a ospitare i rifugiati da paesi vicini.
LE SPESE MILITARI SONO un indicatore importante. Haiti ha sciolto l’esercito (dopo una serie di colpi di Stato) nel 1995, trasferendo la sicurezza alla Polizia, così ha una spesa militare pari allo 0,07% del Pil. Ma criminalità, gang e continue emergenze rendono il paese vulnerabile. Burkina Faso, Sud Sudan, Ciad e Mali hanno spese militari intorno al 3% del Pil: un impegno significativo dovuto ai conflitti interni. Molto inferiori quelle di Madagascar e Congo Rdc (malgrado la guerra permanente in Kivu). In Somalia, invece, oltre il 20% della spesa pubblica va al comparto della difesa.
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