LE NOSTRE VITE TEMERARIE CONTRO OGNI ASSEDIO da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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LE NOSTRE VITE TEMERARIE CONTRO OGNI ASSEDIO da IL MANIFESTO

Le nostre vite temerarie contro ogni assedio

25 novembre L’editoriale del nostro inserto dedicato alla «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e di genere»

La violenza maschile è un fenomeno sistemico. E non basta fare finta che la sua radice patriarcale, bianca, eterosessuale e guerrafondaia si sia estinta.

Non bastano le narrazioni restauratorie delle destre al governo, di questo Paese e di una buona fetta del mondo, per credere che i corpi delle donne non siano ancora campi di disprezzo e di battaglia prediletti dai fascismi e dalle loro spartizioni.

Del resto c’è un’abbondanza di elaborazioni, pratiche e alleanze di lotte che quotidianamente lavora, che non si automodera e determina – ogni giorno – la temerarietà delle nostre vite, anche quando le oppressioni, di genere classe e razza sembrano volerci assediare. Affettivamente, economicamente, nelle scelte e negli orientamenti sessuali, nelle vite di ciascuna e ciascuno.

Quello che abbiamo avuto in eredità in questa epoca dell’oltraggio è una insipienza etica e politica senza pari.

Se c’è una destra reazionaria che ora può svuotare i diritti acquisiti e risputarceli addosso è perché il rancore ha avuto il sopravvento rispetto alla possibilità di confronti e conflitti da aprire su temi importanti.

Dall’edicola alla piazza, questo inserto è nato dunque dal desiderio comune di partecipare alla «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e di genere» non come un atto rituale. Da oltre cinquant’anni il collettivo del manifesto e la sua redazione allargata e «mobile» – chi l’ha attraversata e chi arriverà – si interroga, non senza contraddizioni, sui guadagni del movimento delle donne, della differenza sessuale e dei femminismi fino a seguire i più recenti movimenti transfemministi, non solo italiani. C’è una storia e una storicizzazione possibile anche di queste insorgenze.

Se quando parliamo di violenza maschile sulle donne raccontiamo qualcosa che è alle radici storiche delle nostre civiltà, non è sufficiente fare il conto delle vittime.

Ecco perché «furore»: una parola politica già disarmata, da rilanciare nei nostri luoghi come passione del presente.

Non una di meno, appunti sull’ondata femminista

Movimenti Dopo le piazze argentine del 2016, la marea dilaga ovunque. Per non ritirarsi più

Carlotta Cossutta  23/11/2024

Non una di meno in Italia nasce dalla rabbia diffusa che segue alla morte di Sara di Pietrantonio, ventiduenne bruciata viva dall’ex fidanzato a Roma nel maggio 2016 – e dalla volontà di trasformare il lutto in un fatto collettivo e in un motore di protesta.

«Ci vogliamo vive» si grida da otto anni nelle piazze, una frase che è al contempo una promessa di lottare e l’apertura di uno spazio in cui quella vita è possibile. Da quello spazio oggi, guardo a questi otto anni di mobilitazioni come a un processo davvero politico e personale, nel quale è cambiato il discorso pubblico come sono cambiate le nostre vite.

Non è un caso, infatti, che oggi si parli di nuovo di patriarcato, anche solo per negarne l’esistenza o dichiararne la morte. Si tratta di una parola che proprio Non una di meno ha contribuito a riportare nel dibattito pubblico per segnalare che la violenza non è un dato accidentale, ma rafforza una struttura sociale radicata nella sottomissione delle donne e di tutti i soggetti femminilizzati. Una struttura che vediamo all’opera nei 104 femminicidi del 2024, ma anche nell’assenza di un congedo di paternità, in una disparità salariale ancora fortissima, in un lavoro riproduttivo schiacciato tra la gratuità e lo sfruttamento ma sempre appannaggio delle donne. In questi anni le mobilitazioni del 25 novembre e dell’8 marzo hanno saputo illuminare questa struttura, per mostrarne la persistenza ma anche le maglie che non tengono, le possibilità di resistenza e di sovversione. Questo processo di costruzione si è nutrito di riflessioni e analisi, ma anche dello sforzo di costruire una infrastruttura che consentisse a un’organizzazione radicalmente orizzontale, di agire e restare allo stesso tempo un processo aperto.

Il lavoro più impegnativo, in questo senso, è stata la scrittura collettiva del Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e di genere, presentato nel 2017. Si è trattato di una scrittura lunga un anno, in cui le assemblee territoriali hanno dato linfa ai tavoli di lavoro nazionali che affrontavano i diversi aspetti della violenza (dall’educazione ai tribunali, dalla salute al lavoro) che poi sono stati ri-assemblati in un discorso unico. Un lavoro che ha messo in luce la sfida più grande di Non una di meno: costruire sintesi e mediazioni al rialzo, seguendo una pratica del consenso che evita di votare e di creare quindi minoranze e maggioranze e che prova a capire quali sono i modi per essere tutte convinte. Il Piano è diventato così un perimetro condiviso, ma costantemente messo alla prova e i cui contenuti sono stati messi in pratica negli scioperi dell’8 marzo.

Ed proprio nelle pratiche abbiamo incontrato altre sfide: come ripensare lo sciopero a partire dal lavoro femminilizzato e riproduttivo? Come superare la frammentazione sindacale senza perdere il contatto coi sindacati? Come reagire alla Cgil che caparbiamente rifiuta di pensare lo sciopero come politico? Non una di meno ha scelto l’autonomia da sindacati e partiti per riuscire a entrare in relazione con tutte le strutture e le gerarchie. Le indizioni dello sciopero dell’8 marzo da parte di alcuni settori della Cgil dimostrano che è possibile agire ricostruendo partecipazione e discorso politico dal basso. Una esperienza tanto più preziosa in tempi di apparente disaffezione dalla politica, che forse è soprattutto disaffezione da certe forme della politica.

Non è un caso che questo movimento abbia saputo tenere insieme generazioni e storie politiche diverse: non senza conflitti, certo, ma forti di un ottimismo della volontà di pensarsi insieme anche a partire dalle proprie differenze. Un metodo lento, sicuramente, e a tratti circolare, in cui torniamo spesso sugli stessi nodi che hanno prodotto anche fratture – come la discussione sul sex work o la scelta stessa dell’autonomia. Ma anche grazie a questa lentezza Nudm è stata uno spazio di crescita politica collettiva.

Capire come utilizzare i discorsi e le lotte di questi anni non per produrre rituali o recinti identitari, ma per nutrire passaggi di testimone e di generazione, è una delle sfide interne più cruciali. Una necessità che è nel Dna del movimento che è capace di esistere nelle province più impensate e di restare in relazione con il mondo. Proprio questa relazione ci interroga su cosa voglia dire essere transfemministe dentro alla guerra e al genocidio. Una sfida che è tanto più cruciale quanto più i discorsi delle destre usano la guerra per rafforzare la nazione razzista e la famiglia patriarcale. Il nostro compito deve ancora una volta essere quello di “eterna ironia della comunità”: mettere in crisi la presunta unità della nazione rifiutando la retorica della famiglia utile a garantire la bianchezza e l’eterosessualità. E in fondo, forse, quindi, la sfida è poi una sola: come essere marea senza dover essere identiche?

Domande aperte, che possono trovare risposta solo in una politica che è anche modificazione totale della vita, nelle strade impreviste che facciamo quando le attraversiamo insieme. Per questo continuiamo a ritrovarci in piazza, come faremo oggi a Roma e a Palermo.

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