“LA SOCIETÀ DELLA PRESTAZIONE” CHE INTERROGA IL PRESENTE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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“LA SOCIETÀ DELLA PRESTAZIONE” CHE INTERROGA IL PRESENTE da IL MANIFESTO

«La società della prestazione» che interroga il presente

SCAFFALE Torna in libreria il volume di Federico Chicchi e Anna Simone per Futura editrice

Marco Rovelli  09/01/2025

Se ogni tempo è definito da una costellazione di concetti chiave che esprimono il suo «spirito», il suo senso proprio, costituendone le qualità eminenti, uno dei concetti chiave per intendere il nostro tempo è senza dubbio quello di prestazione. Quando il sociologo Federico Chicchi e la sociologa Anna Simone hanno pensato e scritto a quattro mani La società della prestazione, ci hanno fornito uno strumento concettuale fondamentale per afferrare il senso profondo della nostra società, e delle sue tendenze evolutive. Pubblicato nel 2017,  adesso l’editore Futura lo ripubblica in una nuova edizione (pp. 248, euro 15), con una nuova introduzione e dei concisi aggiornamenti in chiusura di ogni capitolo.

IL CONCETTO DI PRESTAZIONE mira al cuore della trasformazione non solo sociale ma antropologica che chiamiamo neoliberale. La Legge che nella società degli individui li chiama a «essere imprenditori di se stessi» è fondata sulla quantità, sulla contabilizzazione della vita, sull’ingiunzione ubiquitaria a produrre se stessi in un’incessante misurazione di sé. Questo è il paradosso della società della prestazione: tutto è misurabile, ma non c’è mai fine a questo processo di crescita, che dunque è dismisura. Da questo punto di vista, fanno notare Chicchi e Simone, Lacan aveva ben visto già all’inizio degli anni settanta come il capitalismo sia mosso da una logica di cancellazione del limite. La società della prestazione «non è altro che un paradigma fondato sullo sfruttamento del desiderio. Un modo di trattare, condurre il desiderio e di renderlo commerciabile». Ma il desiderio «disciplinato» in questo modo produce sofferenza per il soggetto della società neoliberale. E anche da questo punto di vista il libro di Chicchi e Simone mette a tema una questione fondamentale della nostra contemporaneità, oggi sotto gli occhi di tutti assai più che negli anni in cui questo saggio veniva elaborato: il tema della sofferenza psichica e delle «patologie del desiderio». Nella società in cui bisogna prodursi senza mai incepparsi e dove il fallimento è il Male, il desiderio precipita in una «patologia narcisista e cinica» (ciò per cui la lacaniana Colette Soler ha coniato il termine di narcinismo), che si esprime in varie forme di sofferenza depressive e ansiose. Ma, al contempo, il sintomo diventa l’espressione di una resistenza: qualcosa, nel corpo, resiste alla performatività assoluta, si sottrae, reclama il proprio «diritto di fallire».

SONO DIVERSE LE QUESTIONI su cui Chicchi e Simone si soffermano negli aggiornamenti: una delle più rilevanti è certamente quella dell’accelerazione della rivoluzione digitale, «provvidenziale alleato» di un capitalismo prestazionale in crisi. In particolare, «la diffusione delle piattaforme digitali ha reso possibile introdurre, in questi anni, trasversalmente alle diverse sfere della vita, nuove e quantomai pervasive tecniche di misurazione e valutazione delle attività sociali». Anche la parte finale, quella delle «figure per resistere», che poi sono le «aree dove la traduzione della vita in oggetti prestazionali si inceppa», trova nuovi varchi di possibilità: oltre alla misura (coltivata per far fronte alla dismisura sociale), il desiderio (sottratto al suo sfruttamento prestazionale e rigenerato tornando ad essere «quello spazio originario di connessione con il godimento che va nella direzione dell’amore») e l’arte (intesa come legame sociale fondato su creatività e invenzione, che possa costituire una nuova sensibilità comune), si aggiungono nuove figure: conflitto, restituzione e materialismo sensibile. Conflitto come spazio dove si può sedimentare la prospettiva di un orizzonte altro, e come pratica della relazione; restituzione come costruzione di nuove alleanze e rivendicazione della necessità di una trama affettiva e sociale non mercificabile che favorisca la cura materiale e simbolica della vita; materialismo sensibile come creazione di nuove istituzioni della cooperazione sociale tra i corpi, facendo del corpo «uno strumento della sottrazione e, al contempo, della generazione di nuovi spazi del conflitto per dare vita a un sentire comune decisamente più sensibile».

Il culto della performance batte il ritmo del capitale umano

Libri “La società della prestazione” di Federico Chicchi e Anna Simone (Ediesse): reddito, arte e desiderio, tre modi per resistere e emanciparsi dall’Io-crazia dominante

Roberto Ciccarelli  29/06/2017

Jordan Belfort, protagonista del Lupo di Wall Street di Martin Scorsese, ha l’obiettivo arricchirsi attraverso la truffa e il raggiro. È un accumulatore di denaro e un eccesso vivente; consuma droghe così come fa strage di piccoli risparmiatori creduloni. All’opposto Daniel Blake, protagonista dell’omonimo film di Ken Loach, è un operaio sessantenne non digitalizzato. Ha perso il lavoro ed è costretto ad adattarsi, inutilmente, alla logica totalitaria della valutazione imposta dalle agenzie delle “politiche attive”. Belfort è il capitalista selvaggio in una società passata dal lavoro salariato al lavoro della prestazione. Blake è l’uomo vulnerabile che resiste in una società dove il welfare state non corrisponde più al compromesso tra capitale e lavoro. Il primo incarna la pulsione di morte del capitale finanziario fino all’auto-distruzione. Il secondo difende la condizione di “cittadino” e muore di infarto prima di un’udienza che avrebbe riconosciuto i suoi diritti.

Belfort e Blake sono le polarità opposte della cupa società della prestazione in cui viviamo. La formula, efficace, è il titolo di un libro, scritto a quattro mani, da Federico Chicchi e Anna Simone (Ediesse, collana Fondamenti, pp. 205, 12 euro) dove si racconta la fine del soggetto produttivo – e il lutto che questo comporta a sinistra e a destra – e la nascita di un soggetto prestazionale che sviluppa il “capitale umano” sul mercato. Nella società della prestazione la vita è assoggettata all’imperativo della concorrenza. La sua regola è: diventare imprenditori di se stessi. Questo “soggetto-impresa” è l’incarnazione di un nuovo modello di umanità basata sulla responsabilità diretta dell’iniziativa privata. La sua vita consiste nell’accumulazione di un “capitale” umano, sociale e relazionale nella disperata ricerca di reputazione, di credito e di reddito. Chi resta estraneo al culto della performance è escluso sino a morirne, come Daniel Blake. Chi, come Jordan Belfort, è al centro di questo sistema, mette in scena il delirio di onnipotenza di un Io tirannico che incarna l’idea di impresa.

Il modello neoliberale della società della prestazione è strutturato a tutti i livelli. Le politiche pubbliche sono gestite attraverso la contrattualizzazione, la managerializzazione e la concorrenza. È la Governance without government, un modo di governare senza rappresentanza che riduce la politica a tecnica e lo stato di diritto costituzionale a un mercato. La vita è gestita con i manuali del management aziendale e aumenta il potenziale prestazionale dei gruppi, delle reti e dei singoli cittadini. Questo è il pane quotidiano di chi frequenta, o lavora, nelle scuole e nelle università dove le istituzioni formano soggettività flessibili conformi a un “quasi-mercato” regolato attraverso sistemi della valutazione e meccanismi premiali. Ed è la normalità per chi si affaccia nel privato dove il management del sé persegue lo stesso obiettivo: auto-motivazione, flessibilità, responsabilità e creazione di un “portafoglio delle competenze”.

In questa cornice l’essere umano è spogliato dalla sua identità sociale ed è trasformato in un imprenditore che accumula un capitale costituito dalla somma delle sue “soft skills”. Le relazioni sono trasformate in transazioni commerciali dove il capitale è trasferito da un vissuto meno redditizio a uno più redditizio anche in termini simbolici e affettivi.

Sono i caposaldi di un’antropologia neoliberale fondata sul “paradosso dell’autonomia”. Prima autonomia significava meno costrizioni e più libertà politica, oggi significa l’opposto: auto-sfruttamento nel nome dell’auto-affermazione di sé sul mercato. Nella società dell’Io – l’“Io-crazia” – l’azione coincide con la sanzione, l’evocazione di una potenza con l’interiorizzazione dell’impotenza. Si spiega così la diffusione della depressione, il lato oscuro dell’iperattivismo della società della prestazione. Il doppio vincolo tra performance e depressione blocca ogni possibile individuazione alternativa. Questo è il problema dell’“etopolitica” contemporanea dove il concetto di “riforma” coincide con “repressione”, l’evocazione di una libertà con il rafforzamento dell’isolamento.

Il libro di Chicchi e Simone formula una teoria della liberazione basata sul reddito di base, una misura che permette ai soggetti vulnerabili di allontanare il ricatto del lavoro povero e precario; sul desiderio come rigenerazione e cura del sé e degli altri; sull’arte che libera il soggetto dalla miseria prestazionale e lo spinge verso “l’invenzione sociale” di un soggetto capace di sfidare l’imprevisto divenendo esso stesso imprevisto.

Resta il problema di come si affermi un “desiderio dissidente” che non sia, di nuovo e ancora, catturato dall’inesausta affermazione del sé imprenditoriale. “Non conta la meta o l’oggetto del desiderio – ha scritto lo psicoanalista Elvio Fachinelli – ma lo stato del desiderio”. Questo stato va tenuto aperto per differenziare il già saputo (sentire) dall’ancora da sapere (da vivere), altrimenti il desiderio muore insieme al possibile. È la premessa per un nuovo agire politico dell’autonomia a cui sono state sottratte persino le parole. La società della prestazione si combatte con una “via etica dell’umano”, sostengono gli autori. Una scommessa contro l’epoca del disincanto, dell’egolatria e del risentimento.

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