La megamacchina inceppata
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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La megamacchina inceppata

di Giacomo Borella, da “Gli asini“, 24 aprile 2020

Pochi giorni prima dell’inizio dell’epidemia, sulla casa qui di fronte avevano montato i ponteggi e, sopra, un mega-telone pubblicitario di una carta di credito, con lo slogan “Così sicura che puoi pagare a occhi chiusi”, lungo venti metri, e un primissimo piano del volto di una ragazza sorridente, molto grande, diciamo un quindici metri per venticinque. Poi è arrivato il virus, la clausura, e le strade di Milano si sono svuotate. Per oltre un mese quell’immenso sorriso, quegli enormi occhi, illuminati a giorno da una batteria di fari, hanno vegliato sulla strada deserta, sui passi dei rarissimi passanti che risuonavano nel silenzio, sullo sfrecciare dei principali abitanti dello spazio pubblico della città vuota: i rider africani che consegnano in bicicletta le pizze e gli hamburger. Solo la settimana scorsa una squadra di operai si è messa al lavoro (comprovate esigenze lavorative? estrema urgenza?) e ha smontato il telone, senza montarne uno nuovo: di questi tempi, nessun altro ha voluto affittare quello spazio.

L’immagine di questo spazio incorniciato e vuoto, degli schermi a led che rigirano sull’altro lato della casa, spenti, della strada tornata alla sua penombra e non più illuminata a giorno, è di quelle che la stragrande maggioranza dei sedicenti economisti commenterebbero con strazio, pensando all’economia paralizzata, al Pil a picco, alla sfiducia degli investitori. Proprio in questa situazione di malattia, di sofferenza, di impossibilità di stare con gli altri, invece questa immagine a me mette di buon umore, certe sere quando mi affaccio mi entusiasma, mi commuove e mi dà speranza.

Questo vuoto contiene una promessa, una possibilità che ora affiora con una concretezza e una chiarezza elementare: quella di lasciare un po’ in pace le città. L’aria che si fa respirabile e addirittura tersa, l’erbetta che spunta nei giunti tra le pietre dei lastricati, il silenzio straniante che risuona tra le case riempiendo l’aria lasciata libera dal rombo motorizzato, il canto dei merli, le chiome rosso-viola degli alberi di Giuda, quelle lilla delle paulonie e bianco-rosa dei ciliegi, in lontananza l’eco del tram che passa: i cantori dello sviluppo e della competizione economica, i calcolatori del “quanto ci costa” e del mancato rendimento, si affrettano a prefigurare quando e come questo vuoto pieno di stupore potrà essere di nuovo riempito di “normalità”, cioè di macchine, pubblicità e intrattenimento, e gli uomini-criceto potranno riprendere la loro diligente corsa nella ruota.

I più green specificano che si tratterà però di automezzi elettrici, perché c’è il riscaldamento globale, ignorando almeno due dettagli: che non sarebbe neanche lontanamente possibile produrre in modo rinnovabile tutta l’energia elettrica necessaria, a meno che il numero di mezzi circolanti si riducesse a una frazione di quello attuale; e che le polveri sottili, che hanno parte enorme nell’inquinamento atmosferico, sono prodotte in grande misura dallo sfregamento degli pneumatici sul suolo, e sono in rapporto al peso dell’automezzo e alla sua velocità, e che quindi saremmo semplicemente da capo. Sono comunque tutti modi per ignorare la promessa che le città trasfigurate di queste settimane ci stanno offrendo, per non prendere sul serio e lasciar cadere nel vuoto le sofferenze e il dolore di questa epidemia, per seppellire sotto una spessa coltre di merda economicistica il suo possibile tramutarsi in epifania.

Come non vedere, invece, che la città dell’aria finalmente non cancerogena, dell’ambiente acustico non più monopolizzato dai motori, la città dei merli e degli alberi di Giuda, scoperta per caso in questa epidemia, apparecchia le strade per moltitudini di biciclette e di camminatori e camminatrici, per un cambio radicale delle abitudini, delle priorità e delle velocità, e che sarebbe una festa, l’unico modo per non rovinare tutto, per non ritornare alla “normalità” dell’assurdo.

Scriveva Ivan Illich: “Noi crediamo che, domani mattina, potremmo tutti vivere in una società più pacifica, forse perfino organizzata attorno alla bicicletta, se solamente la gente credesse che la modestia può orientare le scelte politiche”.

Mentre attorno si fa già a gara a invocare colossali investimenti in infrastrutture fisiche e digitali per stimolare la cosiddetta “ripartenza”, quella che le città ci spalancano qui e ora è una prospettiva modesta, che non richiede alcun investimento, nessuna innovazione tecnologica, nessuna nuova infrastruttura: le piste ciclabili in queste settimane non sono neppure necessarie, le biciclette possono tranquillamente andare sulla strada, convivendo benissimo con il trasporto pubblico e con i pochi mezzi privati in circolazione. Per quanto impensabile, è una prospettiva realistica ed elementare, che non necessiterebbe neppure di un blocco totale del traffico, quanto di un’insubordinazione di massa alla stupidità motorizzata e al trasporto mercificato: nelle prime settimane dell’epidemia, quando il lockdown non era ancora completo, c’erano ancora moltissimi cantieri aperti e i negozi in funzione non erano solo quelli di prima necessità, eppure i mezzi in circolazione risultavano comunque pochissimi, si diluivano e disperdevano nelle strade e lo spazio urbano era già completamente trasfigurato.

È quindi una questione che attiene in primo luogo all’uscita da una mentalità e ideologia industriale, che nella cosiddetta società post-industriale è invece ancora paradossalmente in posizione di monopolio, e che presiede in modo ancora sostanzialmente esclusivo al modo in cui pensiamo le città, le scelte economiche e le nostre esistenze.

Si stracciano le vesti perché nell’ultimo mese il mercato del settore automobilistico – che in Italia, in modo diretto o indotto, comprende un milione di posti di lavoro – è crollato del 90 per cento. È la dimostrazione che le politiche economiche hanno fin qui incentivato e sostenuto un settore della produzione ipertrofico e nocivo, anziché lavorare al suo radicale ridimensionamento e riconversione. Dovrebbe forse addolorarci un crollo dei posti di lavoro nel settore della produzioni di armi, delle mine antiuomo, del cibo spazzatura, dei pesticidi, dell’industria chimica fossile? O in una prospettiva di radicale conversione ecologica lo smantellamento di intere filiere produttive tossiche è assolutamente auspicabile e semplicemente irrinunciabile?

In questo periodo molte voci insospettabili si sono levate dall’interno del sistema medico, e spesso proprio nelle zone più drammaticamente colpite dal virus, per denunciare l’alta intensità di infrastrutturazione e di industrializzazione della salute tra le cause che hanno contribuito a diffondere l’epidemia, e non a ostacolarla. Basti la lapidaria frase conclusiva della lettera dei tredici medici e operatori dell’ospedale di Bergamo pubblicata su una rivista scientifica statunitense: “più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus”. La concentrazione e l’accentramento del sistema ospedaliero, la grandissima dimensione delle strutture, la loro concezione come hub di smistamento derivata dalle dinamiche della logistica e della grande distribuzione, con sistemi ambulatoriali open space ricalcati sulla tipologia dei grandi contenitori indifferenziati per uffici, si sono affermati in questi anni come requisiti indispensabili per assicurare la competitività negli scenari del sistema medico globale e l’eccellenza della ricerca scientifica. Se sapevamo già, anche per esperienze dirette, che questa strategia portava a una progressiva disumanizzazione della cura, ora scopriamo che essa produce strutture che sono l’ideale ambiente di incubazione e diffusione del virus. Ma questa ideologia dell’industrializzazione della salute non è un cimelio del passato, bensì la prassi che attualmente governa le trasformazioni in corso, e chi vi si oppone viene trattato semplicemente come un farabutto, come un affossatore antiscientifico: è il caso, a Milano, dello smantellamento del polo medico diffuso sul territorio nel quartiere di Città Studi e del suo programmato trasloco in una struttura accentrata situata sull’area ex-Expo (un esempio estremo di pianificazione alla rovescia in cui prima si infrastruttura con fondi pubblici un’area suburbana per un brevissimo uso temporaneo e poi si è costretti a traslocarvi delle funzioni pregiate, per non lasciarla vuota); ma anche del centralissimo Policlinico, dove si sta sostituendo la vecchia struttura a padiglioni con un nuovo grande contenitore monoblocco, più “efficiente” e “razionale”.

Ben oltre le funzioni mediche e ospedaliere, questa “razionalità” vetero industrialista è la matrice che ancora ispira le trasformazioni urbane, anche quelle più liquide e postmoderne: l’accentramento che spinge verso dimensioni smisurate, l’“efficienza” che vuole costruzioni che più che edifici devono essere grandi contenitori indifferenziati (e qui vengono chiamate le archistar per camuffare e infiocchettare la loro agghiacciante monotonia), la grande scala delle strutture che a sua volta implica la dislocazione extraurbana, con il corollario obbligato di infrastrutture e consumi, ma che quando invece opera interventi di “rigenerazione” dentro al tessuto urbano riesce a generare comunque paesaggi suburbani o disurbani anche all’interno della città. La scala gigante è la dimensione imposta dalla finanziarizzazione dell’urbanistica, dal marketing urbano globale: il fondo d’investimento australiano, o il grande investitore del Qatar, ma anche la Cassa Depositi e Prestiti (quell’antico e strano operatore privato di proprietà per l’ottanta e passa per cento del ministero delle finanze) non si muovono mica per i bruscolini. Quindi i grandi poli ospedalieri, la grande distribuzione commerciale, i grattacieli delle corporation, gli stadi, i grandi contenitori dell’intrattenimento, eccetera. Su questi temi delle trasformazioni urbane delle grandi città diventate tasselli della finanza urbanistica globale, sul piano delle politiche locali non si intravvedono neanche lontanamente abbozzi di contro-strategie, neppure tra i pochi che sembrano cercarle, mentre a tutti gli altri basta celebrarne i fasti e le sorti progressive (ed è la ragione per cui l’attuale amministrazione milanese di centro-sinistra, tutto sommato decente, sulle questioni urbanistiche fa una politica che non si distingue in niente dalla precedente di centro-destra). Questo che di fatto è un modello unico, ha una inesorabile origine finanziaria, ma fa presa su un immaginario diffuso e pervasivo, a cui sembrano non esistere alternative. Ed è almeno su questo immaginario che dobbiamo tentare di incidere.

In questo scenario postmoderno, ora abbiamo fatto la scoperta molto medievale che queste strutture massificate e massificanti sono ideali per la diffusione delle epidemie. Ma naturalmente non è questo il punto. Il punto è che questo virus detestabile e schifoso, per il quale non abbiamo la minima simpatia, ha inceppato per un momento l’ingranaggio della megamacchina, che tra le molte altre cose fa girare anche le rotelle della trasformazione delle città in senso disumano. Ciò che cerco di dire è che di fronte a questa sospensione, proprio per onorare le sofferenze prodotte dall’epidemia, noi dovremmo riconoscere gli spazi che si sono liberati, le crepe che si sono aperte. Così come può darci speranza l’assenza di un mega-telone pubblicitario, e farci mettere a fuoco il fatto che se diventassero pochissimi quelli così grulli da comprare una cosa perché gli viene consigliato da una ragazza con la faccia grande venti metri, allora anche il dispositivo della comunicazione si incepperebbe, e il bombardamento pubblicitario andrebbe a picco; così come dal silenzio e dallo stupore di cui l’epidemia ha riempito le strade affiora un’epifania che potrebbe avvenire domattina se disertassimo la corsa al consumo di energia fossile e constatassimo che la nostra energia metabolica è quasi sempre sufficiente per pedalare e camminare nelle città. Allo stesso modo, la sospensione dell’ingranaggio della megamacchina ci chiama a ricostruire i meccanismi su cui essa si fonda e a reinventare possibile alternative praticabili. Ci accorgiamo che la gran parte dei fattori che producono lo stravolgimento degli equilibri ecologici hanno origine nell’abuso tecnologico che risponde a un sovradimensionamento smisurato delle esigenze di comodità e comfort, nella perdita di capacità di affrontare una quota di fatica, di impegno somatico e di adattamento. L’aria condizionata è la risposta standardizzata, energivora e climalterante a una condizione ambientale alla quale per millenni si è risposto da un lato con dispositivi costruttivi allo stesso tempo elementari e sofisticati, che creavano naturalmente un microclima interno un poco più fresco e meno umido, e dall’altro con una pennichella nelle ore più calde. Così l’inventiva umana è stata annientata dall’abuso tecnologico standardizzato. E lo stesso vale, in quota variabile ma assolutamente determinante e decisiva per gli equilibri ecologici, per il riscaldamento, gli spostamenti, la produzione, l’alimentazione, le comunicazioni, eccetera. La distruzione degli equilibri ecologici non è un prodotto della tecnologia, ma del suo abuso e della sua perdita di misura (la bicicletta e l’avvitatore sono due magnifici esempi di tecnologia appropriata e sobria, conviviale avrebbe detto Illich). Quando oggi un variegato plotone di tromboni ci dice che ora non dobbiamo sentirci in colpa per il nostro stile di vita, per i nostri sprechi e lussi, per i nostri grattacieli e centri commerciali, ma anzi è semmai il momento di rivendicarli (Pierluigi Battista, “Corriere della Sera”, 3 aprile), che di fronte alle esigenze della “ripartenza” – quanto mi fa vomitare questo termine telecronistico – il nemico principale sarà il pauperismo (Angelo Panebianco, “Corriere della Sera”, 26 marzo), quando propaganda una indiscriminata e fantomatica innovazione tecnologica e deplora i nostri ritardi nella produzione di infrastrutture digitali sempre insufficienti (Riccardo Luna, forse il peggiore, tutti i giorni su “Repubblica”), o magnifica un’“architettura della trasparenza” come se fossimo ancora negli anni Trenta e il surriscaldamento globale non fosse ancora iniziato (Renzo Piano, nel suo videomessaggio sul sito del “Corriere”, 4 aprile), ecco, quando ci dicono questo, stanno esattamente riaffermando la coazione all’abuso tecnologico su cui si fonda la megamacchina. Stanno ribadendo il micidiale ricatto secondo il quale la modernità è un monoblocco che va difeso a scatola chiusa, che se vogliamo l’aspirina e l’antibiotico allora ci dobbiamo sciroppare anche le centrali nucleari, che c’è poco da fare gli schizzinosi e non c’è spazio per il discernimento, perché si tratta di difendere la Scienza e il Progresso, prendere o lasciare. Così vogliono mettere una pietra sopra all’enorme ripensamento che la quiete che ha trasfigurato le città potrebbe innescare. Ed è esattamente ciò che non ci possiamo permettere, pensando alla futura apocalisse ambientale, al confronto della quale l’attuale epidemia sarebbe solo uno scherzo.

di Giacomo Borrella

Rivista Gli Asini di aprile 2020

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