FURBIZIA E MALIZIA DEL GREENWASHING da IL MANIFESTO
Perché mi dimetto dopo l’accordo tra l’università Bicocca e l’Eni
Lo scorso 15 febbraio, l’Università di Milano-Bicocca e Eni hanno firmato un Joint Research Agreement (accordo di ricerca congiunta) della durata di cinque anni, in cui si sono impegnate a […]
Marco Grasso* 17/11/2022
Lo scorso 15 febbraio, l’Università di Milano-Bicocca e Eni hanno firmato un Joint Research Agreement (accordo di ricerca congiunta) della durata di cinque anni, in cui si sono impegnate a collaborare su «progetti di ricerca di interesse comune» relativi alla transizione energetica (batterie, geotermia, geo-bio-idro-chimica di reservoir fratturati, e fusione magnetica, tra le altre cose).
Dopo diversi tentativi infruttuosi di ottenere chiarimenti su questa partnership, ho deciso di dimettermi dall’incarico di direttore dell’unità di ricerca Antropocene del Centro di Studi Interdisciplinari in Economia, Psicologia e Scienze Sociali (Ciseps) dell’Università Bicocca.
L’unità Antropocene si occupa, tra l’altro, di questioni legate alla transizione energetica, che è appunto al centro dell’accordo fra l’università e Eni. Con le dimissioni da questo incarico intendo prendere le distanze ufficialmente dall’accordo che non condivido fra la mia università e il gigante italiano dei combustibili fossili.
I motivi di questa non condivisione sono diversi e non derivano da pregiudizi ideologici, quanto piuttosto dalla mia conoscenza della questione che deriva da anni di ricerca e di pubblicazioni scientifiche sul ruolo e le responsabilità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici.
In generale, sono preoccupato da tale collaborazione in un ambito di ricerca – la transizione energetica – che aspira a risolvere i problemi che Eni, e il resto dell’industria petrolifera mondiale, causa e continua a esacerbare. Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica.
A mio parere questo tipo di collaborazioni contravvengono agli impegni dichiarati dalle università – e anche dalla mia università – per la sostenibilità. Le compagnie dei combustibili fossili hanno nascosto, banalizzato e distorto la scienza dei cambiamenti climatici per decenni. Oggi, nonostante la scienza ci dica incontrovertibilmente che nessun investimento in nuovi progetti fossili sia possibile se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, le maggiori compagnie di combustibili fossili – e anche Eni – continuano a pianificare nuovi progetti di estrazione incompatibili con gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi.
Sebbene le compagnie fossili si presentino come leader della sostenibilità, i loro investimenti fossili continuano a essere enormemente maggiori di quelli in energie rinnovabili, che rappresentano solo una piccola percentuale del totale delle loro spese in conto capitale. Perciò ritengo che la pretesa dell’industria fossile di essere leader della transizione energetica non dovrebbe essere presa sul serio: collaborare con questa industria è contrario agli impegni delle istituzioni accademiche per il clima.
I partenariati di ricerca delle università con le compagnie dei combustibili fossili giocano un ruolo chiave nel greenwashing della reputazione di queste compagnie. Essi forniscono loro la tanto necessaria legittimità scientifica e culturale. Legittimità preziosa, poiché permette a queste compagnie di presentarsi all’opinione pubblica, alla politica, ai media e ai loro azionisti come agenti che collaborano con istituzioni accademiche pubbliche autorevoli su soluzioni per la transizione, rendendo più verde la loro reputazione e offuscando il loro coinvolgimento nell’ostruzionismo climatico, nonché avvallando le false soluzioni che sostengono.
Infine, temo che le università che mantengono stretti legami con l’industria dei combustibili fossili possano incorrere in un sostanziale rischio reputazionale. Collaborando con l’industria fossile, oltre a violare le loro stesse politiche e i loro principi, minano la loro missione sociale e accademica. Sempre più spesso, la partnership con l’industria dei combustibili fossili sta erodendo la fiducia negli impegni delle istituzioni scientifiche per l’azione sul clima, portando un certo numero di esse – tra cui, per esempio, le Università di Oxford nel Regno Unito e di Princeton negli Stati Uniti – a tagliare ogni legame con l’industria, e moltissime altre in giro per il mondo a disinvestire dai fossili.
In sintesi, ritengo che le università siano vitali per pensare una transizione ecologica rapida e giusta. Tuttavia, i nostri sforzi a me sembrano minati dalla prossimità al mondo dei combustibili fossili. L’accademia e la scienza non dovrebbero aiutare, neanche involontariamente, il greenwashing fossile; piuttosto dovrebbero impegnarsi, almeno per quanto riguarda le questioni climatiche, per cambiare radicalmente una situazione che non è più accettabile, che è diventata, come dice il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, una «pazzia morale ed economica», che potrebbe portarci al «suicidio collettivo».
* professore ordinario di geografia economica e politica all’Università di Milano-Bicocca, si occupa di politiche ambientali e di governance del clima. Ha lavorato presso Birbeck, University of London ed è stato Visiting Scholar in università e centri di ricerca in Europa, Stati Uniti e Australia
Futuro in bilico per un continente
AFRICA. In un mondo che dice di impegnarsi per la fuoriuscita dall’era dei combustibili, l’avvenire o sarà solare e sostenibile oppure cupo e all’insegna di una nuova predazione per sostenere la «green economy»
Marinella Correggia 17/11/2022
L’Africa al bivio. Quale sarà il suo futuro in un mondo che declama l’impegno per la fine dei combustibili fossili? La visione ottimistica prevede: una proliferazione di tecnologie pulite su piccola e media scala in grado di rispondere alle necessità quotidiane e di alleviare la fatica di vivere; foreste, torbiere e mangrovie protette come tanti panda e fonte di sopravvivenza dignitosa; sistemi agroalimentari nutrienti e resistenti alle alee climatiche.
VISIONE PESSIMISTICA: un acutizzarsi degli eventi atmosferici estremi nel continente; foreste ed ecosistemi utilizzati come false soluzioni di mercato (offsets) per compensare i ritardi dei paesi ricchi nella fuoriuscita dal fossile; l’Africa come luogo di approvvigionamento per il gas; e perfino un neo-estrattivismo, relativo ai minerali necessari alla green economy post-fossile.
L’AFRICAN ECONOMIC OUTLOOK 2022 della Banca africana di sviluppo ha calcolato che per «la transizione energetica giusta e il sostegno alla resilienza climatica» il continente avrà bisogno di 1.600 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2030; finora ne ha ricevuti meno di 20 (altro che Piano Marshall), mentre a causa del caos climatico perde ogni anno fra il 5 e il 15% del Pil. Tutto questo considerando, sempre secondo il rapporto, che l’Africa nel suo insieme «è responsabile di un mero 3% delle emissioni storicamente accumulate a livello mondiale»; per un confronto, il solo settore militare globale emette almeno il 5,5% dei gas serra, denuncia il rapporto Estimating the military’s global greenhouse gas emissions dell’Osservatorio conflitti e ambiente.
IL DOSSIER «VERDE PETROLIO», pubblicato dalla rivista Nigrizia in vista della Conferenza Onu sul clima Cop27, si sofferma sulle attuali contraddizioni nell’approccio internazionale all’energia in Africa. Un continente che dipende ancora molto dalle fonti fossili, per i consumi interni e l’export. La Repubblica democratica del Congo (Rdc) a fine luglio ha messo all’asta i diritti di sfruttamento di petrolio e gas per 27 blocchi, alcuni dei quali nella foresta e a ridosso del parco Virunga, santuario degli ultimi gorilla di montagna. E se il greggio africano in futuro conoscerà incertezze, per i costi dello sfruttamento e la mancata esplorazione di nuovi giacimenti, la corsa al gas alternativo a quello russo vede una serie di nuovi accordi europei con paesi africani. Ha avuto molta risonanza la prima nave di Gnl – gas naturale liquefatto – in arrivo dagli impianti Eni in Mozambico. La corsa all’oro fossile non si ferma.
L’ENERGIA PULITA E ACCESSIBILE, obiettivo n.7 dei Sustainable Development Goals dell’Onu, da raggiungere entro il vicinissimo 2030, è ancora un miraggio per centinaia di milioni di africani. Nel 2007 Greenpeace dedicò alle rinnovabili per i paesi poveri una edizione del rapporto Energy (R)evolution. Un accesso stabile all’elettricità manca a due africani su cinque, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea). Per la quale l’Africa ha il 60% delle migliori risorse solari ma totalizza per ora solo l’1% della capacità di generazione solare; eppure, per le aree rurali, questa è la fonte di elettricità più economica e pratica. Alcune delle infrastrutture già realizzate – centrali fotovoltaiche, parchi eolici, impianti idroelettrici – sono su larga o larghissima scala e in genere in partenariato con compagnie internazionali (le elenca un video di New Africa Channel): Marocco, Sudafrica, Ghana, Egitto, Botswana, Congo Brazzaville, Rdc. Si punta molto sul potenziale di idrogeno verde.
MA… PIU’ GREEN ECONOMY uguale più estrattivismo? Secondo The New Colonialism, un rapporto del movimento War on Want di qualche anno fa, 101 compagnie (in maggioranza britanniche) quotate alla Borsa di Londra avevano operazioni minerarie in 37 paesi dell’Africa subsahariana, dall’oro al platino, di diamanti al rame, e poi ai combustibili fossili. E la tanto promessa green economy mondiale, per produrre batterie, motori elettrici, pannelli, turbine etc… ha uno scheletro nell’armadio: il suo grande bisogno di risorse minerali, abbondanti in alcune aree dell’Africa, soprattutto il Congo Rdc: rame, cobalto, nickel, litio. E’ dunque corsa fra compagnie occidentali e cinesi. I paesi africani cercheranno di incamerare quote maggiori di raffinazione e trasformazione, per ricavare valore aggiunto. Ma i finanziamenti esteri scarseggiano, e soprattutto rimangono il pesante danno ambientale, lo sfruttamento della manodopera anche infantile, la violazione dei diritti umani.
INVECE SU SCALA LOCALE, mille tecnologie appropriate, economiche ed ecologiche possono risparmiare risorse e fatica «illuminando» la vita anche fuori dalla rete. Dispositivi in parte auto costruibili (ormai amati anche dagli occidentali fai-da-te) servono a illuminare, conservare alimenti, cucinare, potabilizzare l’acqua, pomparla, costruire… La rete Solar Cookers International (presente alla Cop27) da decenni divulga e finanzia cucine, forni, essiccatori, per trattare il cibo e depurare l’acqua risparmiando in legna da ardere, salvando così alberi ed emissioni, evitando fatica nella raccolta manuale e il mortale affumicamento indoor. Un’alternativa sono le «stufette migliorate», ormai molto diffuse. Utilissimi i kit solari fuori-rete per la piccola illuminazione, i tricicli per il trasporto merci, le pompe manuali non affaticanti che rispolverano antichi metodi estrattivi. Curioso ed essenziale il frigorifero senza corrente, uno sviluppo del «frigo africano» lanciato 30 anni fa dall’insegnante ghanese Mohammed Bah Abba. E poi gli strumenti per la potabilizzazione a livello di comunità ideati del gruppo Antenna–scienza per tutti, che si dedica anche allo sviluppo di batterie non inquinanti ed economiche. Progetti utili anche a stimolare la creatività dei giovani nelle aree rurali e a sostenere sistemi agroalimentari nutrienti, meno vulnerabili, adatti al futuro. Pochi i fondi pubblici destinati a questi progetti replicabili.
QUANTO AL RUOLO DI ALBERI E FORESTE, forse riprende slancio il progetto della «Grande muraglia verde», iniziato nel 2007. Oltre venti Stati africani vogliono creare entro il 2030 una barriera di alberi (una «meraviglia mondiale», precisa il sito), lungo il continente africano da ovest a est, per bloccare la desertificazione, creare milioni di ettari di nuovi habitat naturali e dare lavoro a milioni di persone. Un po’ il sogno del presidente rivoluzionario burkinabè Thomas Sankara negli anni 1980: «Ogni villaggio un bosco». In compenso, altrove in Africa le antiche foreste sono sotto pressione per l’espandersi delle attività estrattive, per il prelievo di legname e per la pratica agricola del taglia e brucia. Da anni opera come meccanismo internazionale la Central Africa Forest Initiative (Cafi), dedicata alla seconda foresta primaria del mondo dopo quella amazzonica. In grado di assorbire il 4% delle emissioni di gas serra annue mondiali, l’ecosistema ha perso due milioni di ettari fra il 2015 e il 2020, mentre 1,5 milioni sono degradati. Conta 10.000 specie di piante e animali; 40 milioni di persone vi trovano habitat, cibo, principi medicinali, energia. La foresta è oggetto di diversi progetti Redd+, fondi assegnati in cambio della riduzione delle emissioni grazie alla riduzione della deforestazione, ma che sembrano funzionare solo molto parzialmente. E viene criticato da più parti il semplicistico mercato delle indulgenze, i carbon offsets, con cui i grandi inquinatori compensano le proprie emissioni finanziando piantumazioni di alberi.
Failing Nature, tredici aree naturali in Ue dove la biodiversità è a rischio
RAPPORTO DI GREENPEACE. L’Europa è anche responsabile del 16% della deforestazione mondiale
Marinella Correggia 17/11/2022
Nella protezione della natura e del clima, l’Unione europea deve fare ordine in casa propria, una realtà spesso lontana dalle dichiarazioni ufficiali e dalle stesse normative: è una tirata d’orecchi il rapporto di Greenpeace Failing Nature: how life and biodiversity are destroyed in Europe. Diffuso ieri, nella giornata che la Conferenza delle parti sul clima Cop27 ha dedicato alla biodiversità, in vista della Cop15 della Convenzione Onu sulla diversità biologica (Cbd), in dicembre a Montreal.
Il rapporto dell’organizzazione ecologista si sofferma su 13 situazioni europee nelle quali foreste (pozzi naturali di carbonio), laghi, coste, zone umide e le loro specie viventi sono minacciate a seconda dei casi da: zootecnia, agricoltura intensiva, prelievo forestale eccessivo, elevata estrazione di risorse naturali, pesca, edilizia, infrastrutture.
In Austria e Ungheria il lago Neuseidl, protetto da molti accordi internazionali e nazionali per via della presenza di 300 specie di uccelli rari, oltre che rotta per i migratori, è a rischio a causa delle infrastrutture turistiche. Le proteste degli abitanti, l’attenzione dei media e cause legali hanno messo un freno al peggio. A Bruxelles è l’espansione edilizia a minacciare e decurtare boschi urbani e perirurbani, contraddicendo lo stesso Green Deal. In Bulgaria il Mar Nero e i suoi cetacei sono disastrati dalla pesca industriale (di molluschi molto richiesti) con reti indiscriminate; il resto lo fanno la plastica e l’eutrofizzazione.
In Danimarca «la produzione zootecnica intensiva mette in pericolo la vita nell’Oceano», spiega il video Desert Ocean Under Water di Greenpeace danese. Nel Paese più coltivato d’Europa, principalmente per nutrire le proprie stalle, liquami e fertilizzanti finiscono in acqua fino al mare creando aree morte. Il messaggio chiave è: ridimensionare di molto gli allevamenti. Anche la Germania nel Mar del Nord non si comporta bene: una specie nativa di balena è minacciata dalla pesca (by-catch) e il resto lo potrebbe fare lo sfruttamento di un giacimento di gas.
Sempre in Germania, il prelievo di legname mette a rischio le foreste di faggi, e solo il 2% delle sue foreste gode di una protezione totale. «Primavera silenziosa» in Italia, dove l’agricoltura industriale con grande uso di pesticidi e la frammentazione degli habitat fanno molte vittime e fra queste le api, preziosi insetti impollinatori. Olanda: la contaminazione da nitrati, collegata a vari fattori fra i quali allevamenti, aviazione, industrie e traffico, richiede interventi urgenti per salvare almeno i 14 habitat più a rischio.
E in Polonia a rischio sono i Carpazi, le cui importanti foreste, habitat di tante specie, sulla carta sono fra le più protette d’Europa e per metà incluse nella Rete Natura 2000, ma l’azienda statale che preleva il legname intensifica le attività, fra lobby e conflitti di interessi. Essenziale è allargare le aree di protezione rigida. Il taglio eccessivo minaccia anche i Carpazi in Romania; le foreste primarie che ospitano migliaia di specie animali e vegetali si sono dimezzate negli ultimi venti anni; è però il tema ambientale più dibattuto nel Paese grazie ad attivisti e media. E grazie a un intenso impegno civico, forse si salverà in Spagna la più grande laguna europea, Mar Menor, ricchissima di specie di aria, terra e acqua. Quasi ammazzata da massicce costruzioni turistiche, inquinamento, agricoltura e zootecnia, due mesi fa è diventata il primo ecosistema in Europa a cui è stato riconosciuto uno status giuridico.
Bando poi alle ipocrisie. In Svizzera un gigantesco macello per polli è spacciato come innovazione agroalimentare. E in Svezia, le foreste e le loro tante specie sono attaccate dalla pratica massiccia ed esentasse di una «falsa soluzione» alle emissioni da combustibili fossili: i biocombustibili da legname. Ma «la crisi climatica non si può risolvere con la distruzione della natura».
Poi l’Europa fa danni anche a casa d’altri: è responsabile del 16% della deforestazione mondiale legata al commercio internazionale (dato Wwf del 2021). Greenpeace invita allora i governi europei ad appoggiare, alla Cop15, «un accordo globale per proteggere almeno il 30% del suolo e degli oceani entro il 2030, riconoscendo inoltre i diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali, finanziando adeguatamente le misure di conservazione e tagliano le sovvenzioni alle attività distruttive». Dopotutto, «la natura è il nostro sistema di sostegno vitale.
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