LA LEZIONE DELLA REALTÀ E LA DECOSTRUZIONE DI LOGICHE BELLICISTE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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LA LEZIONE DELLA REALTÀ E LA DECOSTRUZIONE DI LOGICHE BELLICISTE da IL MANIFESTO

La lezione della realtà e la decostruzione di retoriche belliciste

SCAFFALE. «Pace», l’ultimo libro di Arianna Arisi Rota pubblicato da Il Mulino indaga la storia di un concetto necessario

Manfredi Alberti  24/08/2024

L’epoca che ci tocca vivere è segnata dalla normalizzazione dalla guerra e dalla diffusione di una retorica bellicista. La corsa al riarmo, da sempre facile fonte di profitto per una parte della borghesia e strumento diversivo rispetto alle crisi di natura politica e finanziaria, è oggi accompagnata da irresponsabili annunci di imminenti e inevitabili guerre mondiali. In questo scenario la pace è diventata non solo un’idea scomoda, ma persino un tabù.

CHI LA INVOCA come orizzonte necessario e ineludibile, e come unica alternativa all’apocalisse nucleare, è quasi ridicolizzato. Parlare di pace, invece, si deve. Perché, come ricorda la storica Arianna Arisi Rota nel suo ultimo lavoro, prima ancora di realizzarla, la pace si deve pensare, e pensare come qualcosa di possibile, oltre che di auspicabile (Pace, il Mulino, pp. 112, euro 12).
L’agile ma ricco testo di Arisi Rota è un prezioso excursus, storico e teorico al contempo, sui diversi significati che la pace ha assunto nella storia, con evidenti lezioni anche per l’oggi. Concetto e condizione dalla natura poliedrica, la pace, ci ricorda l’autrice, è quasi bandita dal lessico politico della nostra epoca, in quanto implica un’attitudine al riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni che mal si concilia con il fanatico bellicismo che sembra sempre più diffuso nelle cancellerie di molte delle grandi potenze mondiali (a cominciare dai paesi della Nato, viene da ribadire). Richiede la pazienza e la fatica della mediazione, il superamento della logica binaria amico/nemico, in cui esistono solo bianco e nero, e dunque il coraggio di accettare l’esistenza delle zone grigie. Il che implica il confronto con la complessità delle dinamiche geopolitiche e il riconoscimento delle corresponsabilità che spesso caratterizzano la genesi dei conflitti fra Stati (diversa considerazione merita naturalmente l’attuale annientamento del popolo palestinese, parte di una dinamica genocidaria di tipo coloniale).

Oggi colpisce il fatto che l’Unione europea, originariamente nata per consolidare la pace nel continente, stia dismettendo la capacità di autocritica e l’attitudine alla mediazione, immaginando contrapposizioni naturali fra buoni e cattivi, democrazie e dittature, Stati liberi e Stati canaglia, mostrando di fatto – insieme al resto dell’Occidente – un mai estinto senso di superiorità verso tutto ciò che è altro da sé.

LA PACE NON È SINONIMO di perfezione, certo. La pace intesa come dominio assoluto di una forza egemone (sul modello della pax romana, ai tempi dell’impero) non è un obiettivo desiderabile. Ci sono state in passato e ci potranno essere in futuro paci ingiuste, o meglio, insostenibili. Come lo fu la pace di Versailles del 1919, impropriamente punitiva nei confronti della Germania, come ammonì a suo tempo, inascoltato, il grande economista John Maynard Keynes. Da questo punto di vista, come suggerisce il testo di Arisi Rota, dovremmo forse cominciare a guardare sotto una nuova luce il modello del Congresso di Vienna del 1814-15, il quale, diversamente dal trattato che pose fine alla Prima guerra mondiale, non aveva contemplato l’umiliazione del paese sconfitto (in quel caso la Francia), fondandosi sulla logica dell’equilibrio fra gli Stati e sul principio della proporzione e dell’accettabilità.

QUELLA PACE FU VISSUTA come una prigionia (intellettuale, politica e non solo) da parte della «generazione romantica» che avrebbe animato i moti liberali della prima metà dell’Ottocento; eppure, come evidenziato da Antonio Gramsci, non impedì il dispiegarsi delle trasformazioni modernizzatrici innescate dalla Rivoluzione francese, seppure in forma di «rivoluzione passiva».
Ritornando sul terreno dell’economia (uno dei pochi, forse, a restare sullo sfondo nel libro di Arisi Rota), va ricordato che in un mondo sempre più interconnesso come l’attuale non sono ammissibili chiusure nazionalistiche, e non può essere elusa la questione di un nuovo governo dell’economia mondiale, come fondamento per una pace stabile. Il multilateralismo, il principio dell’equilibrio e la limitazione reciproca dei poteri, ma anche la cooperazione economica, sono i pilastri da cui si dovrà ripartire per superare le attuali tensioni geopolitiche globali. Abbandonando, come spesso ricordato da Emiliano Brancaccio dalle colonne di questo giornale, la presunzione del blocco dei paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti di poter mantenere ad libitum un atteggiamento ostile nei confronti del grande rivale cinese e più in generale dei paesi del cosiddetto Sud globale.

La cura che cambia il futuro

Nuova finanza pubblica. La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari

Marco Bersani  24/08/2024

È Più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Così scriveva il filosofo Mark Fisher, rendendo palese una contraddizione fondamentale che attraversa il tempo presente, nel quale, da una parte, l’espandersi della guerra, l’estensione della crisi eco-climatica, l’aumento della diseguaglianza sociale e l’espropriazione di democrazia stanno consumando rapidamente il futuro di tutte e tutti; dall’altra, resta preponderante la convinzione che l’insieme di queste crisi non abbia alcuna pregnanza «sistemica», ma che, al contrario, saranno ancora una volta il mercato e le innovazioni tecnologiche (questa volta green e digital) a rimettere il mondo sui giusti binari.

«Non è possibile risolvere i problemi utilizzando lo stesso modello di pensiero che li ha creati» diceva Albert Einstein, chiarendo come il problema non sia solo rimettere il mondo sui giusti binari, ma porre radicalmente in discussione la direzione verso la quale quei binari portano. Ciò che oggi sembra mancare non sono tanto le lotte, le vertenze, le pratiche che suggeriscano nuove modalità di organizzare le relazioni sociali, bensì la fiducia in un orizzonte di cambiamento generale, fuori e oltre la dimensione capitalistica.

È proprio su questo terreno che vanno invece avviate due rivoluzioni culturali. La prima serve a rovesciare la «cosmogonia» della narrazione liberista, che considera l’economia come l’universo dentro il quale tutto accade, la società come un luogo unicamente deputato all’estrazione di valore, la natura come serbatoio esterno da cui estrarre beni all’infinito.

L’inversione di rotta deve al contrario affermare come sia la natura l’universo dentro il quale tutto accade, la società sia il luogo dove le persone decidono come organizzare la vita comune e l’economia torni ad essere semplicemente il luogo dentro il quale la società determina come produrre e scambiarsi beni e servizi. La seconda rivoluzione culturale serve a rovesciare l’ideologia liberista dell’autonomia dell’individuo.

Una narrazione che esalta l’indipendenza e che favoleggia dell’uomo artefice del proprio destino e dell’uomo «che non deve chiedere mai». Uomo non a caso, verrebbe da dire. Perché la vita reale non è fatta di indipendenza, bensì di relazione.

È dunque il paradigma della cura – di sé, dell’altra, dell’altro, del vivente, del pianeta – quello su cui può essere riorganizzata una società capace di futuro e radicalmente alternativa a quella attuale, basata sul paradigma del profitto. Si tratta di ripensare un altro modello ecologico, sociale e relazionale a partire dal «prendersi cura di» come riconoscimento della vulnerabilità dell’esistenza e dell’interdipendenza fra le persone e fra queste e la natura dentro la quale sono immerse. E si tratta del «prendersi cura con» come nuovo fondamento della relazione sociale e base di una nuova democrazia.

Forse è proprio il paradigma della cura così inteso a poter diventare l’elemento di convergenza di tutte le culture ed esperienze altre: sia perché rappresenta ciò di cui c’è assoluto bisogno in un momento storico in cui è a rischio l’esistenza della vita umana sulla Terra, sia perché intorno a quel paradigma è possibile costruire una nuova società, che sia ecosocialista e femminista invece che capitalista e patriarcale; equa, inclusiva e solidale invece che predatoria, escludente e diseguale.

Approfondiremo queste riflessioni nell’Università di Attac Italia, che si terrà a Cecina Mare (in provincia di Livorno) il 13-15 settembre prossimi.

Lo faremo con Marco Bersani, Federica D’Alessio, Maria Francesca De Tullio, Elena Gerebizza, Clara Mattei, Lara Monticelli, Beatrice Negro, Marco Rovelli, Stefano Risso, Marco Schiaffino, Michela Tuozzo, Alessandro Volpi.

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