LA GUERRA DI ISRAELE ALL’ACQUA: GAZA HA SETE E MUORE LENTAMENTE da IL MANIFESTO
La guerra di Israele all’acqua: Gaza ha sete e muore lentamente
Hanno zero I raid, il blocco degli aiuti e i danni subiti dalla rete idrica hanno fatto crollare le possibilità di approvvigionamento. 1.700 km di condutture distrutti o danneggiati: l’85% è inservibile. Tre litri a testa al giorno
Michele Giorgio 16/04/2025
A Gaza l’acqua è un bene quasi introvabile. Soprattutto al nord martoriato dai bombardamenti. La rete idrica è stata gravemente danneggiata a Shajaiya, sobborgo orientale di Gaza city, teatro in questi ultimi giorni di una delle incursioni devastanti lanciate dall’esercito israeliano in vari punti di Gaza. Forniva il 70% dell’acqua potabile agli abitanti del capoluogo. Ma l’acqua è poca ovunque nella Striscia. Ormai non resta che camminare tra le macerie, sulle strade piene di fango con la pioggia e di polvere nelle giornate asciutte, e aspettare in fila per ore ai punti di distribuzione il proprio turno per riempiere una tanica, sperando di non restare uccisi nei raid aerei. I 18 mesi di offensiva israeliana contro Gaza sono segnati anche dalle stragi di chi aspettava acqua e cibo. E alla paura si aggiungono la frustrazione e l’ansia di non riuscire a procurarsi da bere e da mangiare. I litigi sono sempre frequenti tra chi è disperato. Chi non ha forza e pazienza beve acqua sporca o raccoglie la pioggia nel migliore dei casi.
Da sette settimane non entrano aiuti umanitari a Gaza. Le autorità locali hanno lanciato ieri un altro appello per l’ingresso immediato di generi di prima necessità. Israele però non allenta la morsa e blocca gli aiuti pensando che questa pressione costringerà Hamas a liberare gli ostaggi. Assieme alla fame, la sete è l’altro spettro che la popolazione affronta da tempo. E dovrà farlo ancora di più nei prossimi mesi. Con la fine della stagione fredda e l’inizio di quella più calda, bere sarà una sfida quotidiana. «Aspetto l’acqua da stamattina», ha raccontato Fatena Abu Hamdan di Zaitun a un reporter locale «non ci sono stazioni di servizio né autocisterne in arrivo. Non c’è acqua. I valichi sono chiusi». Adel Al Hourani, di Khan Yunis, è uno dei tanti anziani che accompagnano alle autocisterne i bambini piccoli con in mano bottiglie di plastica vuote da riempire. «Percorro lunghe distanze – dice – mi stanco, sono vecchio, è difficile camminare tanto ogni giorno per prendere l’acqua». Husni Mhana, del Comune di Gaza, non nasconde la gravità della situazione: «Stiamo vivendo una vera e propria crisi di sete. Rischiamo una catastrofe se non cambierà la situazione e avremo a disposizione più acqua».
La crisi idrica ha superato la soglia dell’emergenza per diventare un crimine umanitario, denunciano i palestinesi e varie parti internazionali. La mancanza d’acqua è solo l’ultima delle privazioni inflitte a una popolazione intrappolata tra un assedio militare e il collasso di ogni servizio. La sete diffusa dice che persino un diritto fondamentale, poter bere, non è riconosciuto da chi portava avanti una guerra senza fine, ufficialmente contro Hamas e per la liberazione degli ostaggi, che però pagano i civili. Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha parlato apertamente di crimine di guerra. «Israele ha tagliato l’acqua come ha tagliato l’ingresso degli aiuti, bombardato le cliniche, assediato i civili. Nulla è stato risparmiato, nemmeno la sete». Il suo predecessore, Michael Lynk, ha dichiarato che «la negazione dell’accesso all’acqua a un’intera popolazione sotto assedio costituisce una violazione gravissima del diritto internazionale umanitario».
La decisione di Israele di interrompere l’erogazione di energia elettrica nella Striscia e la mancanza di carburante limita fortemente le operazioni di desalinizzazione. A gennaio, l’unico impianto ancora operativo nel nord della Striscia è stato colpito da un raid aereo. «Abbiamo chiesto ripetutamente che venisse riallacciato alla rete elettrica» ha spiegato Juliette Touma, portavoce dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi boicottata da Israele, «senza energia non possiamo desalinizzare, senza desalinizzazione la gente beve acqua contaminata e questo uccide lentamente». Poi a marzo è stata tagliata l’elettricità all’impianto nel sud, che funzionava già a capacità ridotta. Rosalia Bollen, funzionaria dell’Unicef a Gaza, ha avvertito che 600.000 persone che avevano riacquistato l’accesso all’acqua potabile nel novembre 2024 sono nuovamente isolate. Le agenzie delle Nazioni unite stimano che 1,8 milioni di persone, di cui oltre la metà bambini, abbiano urgente bisogno di acqua, servizi igienici e assistenza igienico-sanitaria mentre i livelli di approvvigionamento sono scesi a una media di 3-5 litri pro capite al giorno. Ben al di sotto dei 15 litri considerati il minimo vitale in situazioni d’emergenza secondo l’Oms. Secondo un rapporto della ong internazionale Oxfam sui crimini di guerra legati all’acqua, la popolazione di Gaza aveva accesso a 82,7 litri a persona al giorno prima del 7 ottobre 2023. Ora la città di Rafah, praticamente rasa al suolo nelle ultime settimane, ha meno del 5% di quella quantità e i governatorati della Striscia di Gaza settentrionale hanno meno del 7%, ovvero 5,7 litri a persona al giorno.
Secondo un’inchiesta dell’agenzia Reuters, l’85% delle infrastrutture idriche di Gaza è inservibile. Più di 1.700 chilometri di condutture sono stati distrutti o danneggiati. I pozzi sono contaminati. Gli impianti di desalinizzazione hanno ridotto la loro capacità di produzione da 18.000 a soli 3.000 metri cubi al giorno. L’acqua non basta nemmeno per gli ospedali. «Non siamo più in grado di garantire acqua potabile a nessuno, neppure ai feriti. E ogni giorno riceviamo centinaia di segnalazioni di bambini ammalati per aver bevuto acqua sporca», racconta Suhail al Astal del comune di Khan Yunis. Il rischio di malattie infettive si è moltiplicato. Il ministero della Sanità di Gaza ha registrato tra febbraio e aprile oltre 46.000 nuovi casi settimanali di diarrea acuta, infezioni intestinali e patologie legate alla contaminazione idrica.
Gaza, colpito l’ospedale da campo: medico ucciso nella «zona sicura» di Mawasi
Palestina 51mila le vittime palestinesi in 18 mesi, una stima al ribasso. Israele chiede il disarmo di Hamas, il movimento rifiuta la proposta di tregua
Chiara Cruciati 16/04/2025
A pochi giorni dal bombardamento che ha ridotto in macerie i più importanti reparti dell’ospedale battista al-Ahli di Gaza City, chirurgia e pronto soccorso, ieri l’esercito israeliano ha preso di mira l’ingresso nord della clinica da campo Kuwaiti, nella mega tendopoli di al-Mawasi, nel sud di Gaza.
L’ospedale è stato aperto negli ultimi mesi tra le migliaia di tende lungo la costa meridionale della Striscia. Presidio di base ma fondamentale in un contesto di pressoché totale collasso del sistema sanitario: al Kuwaiti Field Hospital si tampona la crisi di cura e soccorso, con alcune ambulanze ancora integre. Il raid che ha centrato l’ingresso ha risparmiato quelle parcheggiate a poche decine di metri.
Non ha risparmiato la vita di un medico, ucciso sul colpo. Altri nove sanitari sono rimasti feriti, due sono in condizioni critiche. Al-Mawasi è stata designata dallo stesso Israele «zona umanitaria sicura», ma viene colpita quasi ogni giorno, rendendo di fatto inutile il rispetto degli ordini di evacuazione dell’esercito di occupazione: a Gaza nessun luogo è sicuro.
IERI IL BILANCIO delle vittime palestinesi in 18 mesi di offensiva israeliana ha sfondato quota 51mila. È una stima al ribasso: non tiene conto dei 15mila dispersi (anche questi stimati) e delle persone uccise dalla fame, la sete, le mancate cure di malattie croniche. 116mila i feriti, di cui almeno un quarto rese disabili a vita. Dal 18 marzo, giorno in cui Israele ha rotto la tregua entrata in vigore un paio di mesi prima, i palestinesi uccisi sono oltre 1.600, una media di 60 al giorno, altissima: l’offensiva è ripresa con una violenza simile a quella delle prime settimane dal 7 ottobre e l’attacco di Hamas nel sud di Israele.
L’impressione è che il governo Netanyahu stia mettendo a frutto la predisposizione alla pulizia etnica dell’amministrazione Trump: stesse pratiche militari di prima (devastazione su larga scala, raid indiscriminati, sfollamento di massa e occupazione di terre) ma a una velocità ancora maggiore.
Netanyahu ha fretta: con in casa un clima sempre più ostile e fuori una comunità internazionale che non interviene nemmeno di fronte al taglio totale degli aiuti alla popolazione palestinese, preme sull’acceleratore della riduzione di Gaza a uno spazio ancora più piccolo e iper-controllato, senza infrastrutture né servizi. Un luogo invivibile che costringa un pezzo di popolazione ad andarsene per pura disperazione e istinto di sopravvivenza. Anche per questo, tra Il Cairo e Doha, il negoziato non avanza.
La proposta di Tel Aviv era chiaramente destinata alla bocciatura da parte di Hamas: sei settimane di tregua in cambio di metà degli ostaggi israeliani ancora vivi e del disarmo del movimento islamico. Nessun accenno al cessate il fuoco permanente e al ritiro israeliano, da cui l’ovvio rifiuto di Hamas, sostenuto dalle altre fazioni palestinesi che – come il marxista Fronte popolare per la Liberazione della Palestina – ha ribadito che «le armi della resistenza appartengono al popolo e non sono oggetto di negoziato…Nessun partito accetterebbe di abbassarle e lasciare il nostro popolo senza protezione».
NELLE STESSE ORE, mentre Netanyahu entrava con le truppe a Gaza nord, il portavoce delle Brigate al-Qassam, Abu Obeida, riportava della perdita di contatti con il gruppo che detiene il soldato statunitense-israeliano Edan Alexander, dopo un raid israeliano che «deliberatamente ha provato a ucciderlo».
Non c’è pace nemmeno nel resto dei Territori palestinesi occupati, Cisgiordania e Gerusalemme est. Altri arresti di massa e attacchi dei coloni che si aggiungono alla lista che ieri Ocha, l’ufficio dell’Onu per le attività umanitarie, ha raccolto nel suo ultimo rapporto: «sfollamento senza precedenti», con oltre 44mila palestinesi cacciati dalle proprie comunità e oltre 2mila case demolite tra gennaio 2024 e febbraio 2025; e quasi 600 uccisi nello stesso periodo, di cui 109 bambini.
Intanto a Gerusalemme continuano gli assalti dei coloni alla Spianata delle Moschee, in occasione della Pasqua ebraica. Anche ieri circa 700 israeliani sono entrati protetti dalla polizia. La città vecchia di Gerusalemme è ormai diventata un presidio militare.
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