LA CRISI SALARIALE È SINTOMO E CAUSA DEL DECLINO ITALIANO da IL FATTO
La crisi salariale è sintomo e causa del declino italiano
Stipendi – Il calo iniziato nei Novanta è proseguito col Covid. Le cause sono su tre livelli: la rivincita del capitale globale dopo gli anni 70, il modello “tedesco” dell’Ue e le politiche del lavoro dei nostri governi
Dario Guarascio 25 Novembre 2024
La stagnazione dei salari affligge l’Italia dall’inizio degli anni 90 ed è uno dei segni più evidenti del suo declino economico. I dati recentemente forniti dall’Ocse sono impietosi: tra il 1990 e il 2020, l’Italia è l’unica economia con una contrazione del salario medio annuo (-2,9%), mentre in tutte le altre aumenta a una (Spagna, +6,2%) o, più spesso, a due cifre (Francia +31,1%, Germania +34%). Il trend discendente è continuato anche dopo la pandemia: il salario medio italiano ha mostrato un’ulteriore contrazione (-1%).
Questi dati parlano di un’emergenza che è sociale ed economica. Sul piano sociale, la stagnazione dei salari si associa a situazioni di deprivazione diffusa, le cui conseguenze sono particolarmente acute per i soggetti più fragili: minori in famiglie a basso reddito e in contesti con inadeguati sistemi di protezione sociale, persone anziane e con disabilità, migranti. A ciò va aggiunta la ben nota penalizzazione delle donne nel mercato del lavoro: in un contesto di stipendi già molto bassi, le donne italiane guadagnano ancora meno, anche a parità di professione e contratto. Da un punto di vista economico-strutturale, i salari stagnanti sono la manifestazione della riduzione del potere contrattuale del sindacato e dell’allargamento della componente precaria del lavoro. Ma riflette anche l’involuzione della struttura produttiva del Paese, con la crescita relativa di settori a basso valore aggiunto (turismo, ristorazione e servizi alla persona), bassa innovazione e competizione basata su contenimento dei costi e intenso sfruttamento.
C’è poi un elemento di circolarità che rende i salari stagnanti, al contempo, sintomo e causa del declino. A livello micro, le imprese che sanno di poter contare su lavoro docile e a basso prezzo non hanno incentivi a innovare e a investire nelle competenze. A livello macro, salari stagnanti significano debolezza della domanda aggregata, con effetti negativi sulla propensione a investire e, in generale, sulle prospettive di crescita.
Le cause? Per provare a rispondere, è necessario prendere in considerazione almeno tre dimensioni. La prima ha carattere globale. Il periodo analizzato dall’Ocse è quello del trionfo del capitale sul lavoro, favorito dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla disarticolazione geografica dei processi produttivi, dall’emergere di “monopoli intellettuali” basati sulla privatizzazione della conoscenza e delle tecnologie critiche nonché dalla svolta neoliberale in politica economica (privatizzazioni, arretramento dello Stato, flessibilizzazione del mercato del lavoro e indebolimento dei sindacati). La seconda dimensione riguarda le forme del processo di integrazione europea. Sin dall’inizio, il mantra è stato quello della libera concorrenza nel mercato unico quale vettore di convergenza e armonizzazione tra le economie: la realtà è stata un processo di gerarchizzazione, con la Germania che ha imposto all’intero continente un modello basato su moderazione salariale e promozione delle esportazioni.
Per l’Italia, questo ha significato arretramento tecnologico-produttivo rispetto alle economie dell’Est Europa, integrate nella matrice produttiva tedesca, e scivolamento verso un modello di “terziarizzazione povera”. La terza dimensione è invece strettamente nazionale. In un contesto di austerità fiscale, l’Italia si è dimostrata “più realista del re”, contenendo strenuamente la spesa pubblica, specie negli ambiti più rilevanti per la produttività e la crescita (infrastrutture, istruzione, ricerca e innovazione). Analoga solerzia per la flessibilizzazione del lavoro: dal pacchetto Treu (1997), passando per la Legge Biagi e culminando nel Jobs Act, si sono moltiplicate le forme di lavoro precario. I pochi esempi di virtuosa discontinuità – Reddito di cittadinanza, decreto Dignità, blocco dei licenziamenti e sussidi nella pandemia – sono stati subito ridimensionati una volta cambiato il governo.
È tutto ben visibile se si guarda ai dati. Fatta eccezione per il recente rimbalzo post-Covid, che ha visto una leggera ripresa del lavoro a tempo indeterminato, i dati di lungo periodo mostrano come la creazione di occupazione in Italia tenda a caratterizzarsi prevalentemente per lavoro temporaneo e, spesso, a bassa intensità oraria (l’inadeguatezza dei salari è dovuta anche al fatto che si lavora poche ore). Il dato più allarmante è l’inerzia della politica: nonostante l’enormità della crisi salariale non si vedono cambiamenti nelle politiche del lavoro. In questo senso, lo smantellamento del Rdc, l’ostracismo verso il salario minimo, le aggressioni al diritto di sciopero e l’assenza di qualunque misura per ridurre le forme di precariato rappresentano un plastico esempio della situazione drammatica in cui versa il lavoro italiano.
Il “peccato originale” del 1992 e la “rivolta sociale” di Landini
Alle origini – Per chiamare alla difesa dei salari serve rigettare la concertazione e gli accordi che avviarono la sconfitta dei lavoratori
Giuliano Garavini 25 Novembre 2024
Cgil e Uil hanno proclamato uno sciopero generale per il 29 novembre. Lo sciopero è sacrosanto. Con la ripresa post-Covid, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, banche, assicurazioni e società energetiche hanno accumulato i maggiori utili della loro storia recente. Per i lavoratori italiani invece i costi della vita sono aumentati a dismisura, la qualità dei servizi pubblici, non solo nel settore sanitario, è in costante calo, tariffe e bollette non smettono di rincarare. Tutto ciò, mentre il governo Meloni si è impegnato all’austerità imposta dal nuovo Patto di stabilità della Ue che prevede tagli o maggiori entrate per oltre 10 miliardi l’anno.
È sulla rediviva “questione salariale” che voglio però soffermarmi. Come risaputo l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui in trent’anni, a partire dal 1990, i salari reali siano diminuiti a fronte, ad esempio, di un loro aumento di un terzo in Francia e Germania. Con l’impennata dell’inflazione dopo la crisi Ucraina, derivata dall’aumento dei prezzi dell’energia, dei prodotti agricoli, dalla rottura delle catene del valore, i salari reali si sono inabissati: in Italia sono diminuiti del 3,3% nel 2022 e di oltre il 4% nel 2023 secondi i dati della Ue. Come ci ha spiegato l’economista tedesca Isabella Weber, l’inflazione recente è trainata dai profitti e dall’instabilità geopolitica mentre a portarne il peso sono i cittadini che per vivere devono lavorare.
Nel settore pubblico, ad esempio, il governo Meloni a fronte di un aumento dei prezzi del 17% nel triennio 2022-2024 propone un aumento dei salari del 5,7%. In pratica, i lavoratori del pubblico impiego vedranno ridotti in termini reali i loro salari di oltre l’11%. L’inflazione è un nemico subdolo: non c’è nemmeno bisogno di abbassare i salari, si può far finta di aumentarli in termini nominali.
È dunque sacrosanto l’appello di Maurizio Landini alla “rivolta sociale” per non permettere l’ennesima mazzata sul lavoro a favore dei percettori di rendite e profitti. C’è da augurarsi che lo sciopero sia il più partecipato e combattivo possibile. C’è però una questione ineludibile: quanto è predisposto a mobilitare tutte le risorse di combattività dei lavoratori il sindacato confederale quando chiama alla difesa dei salari?
Per rispondere a questa domanda è inevitabile risalire al momento in cui è cominciata la “deflazione salariale”: il “peccato originale” che fino a oggi pesa come un macigno sulle spalle dei lavoratori. Nel luglio del 1992, nel pieno dell’attacco alla lira, il governo presieduto da Giuliano Amato prese misure senza precedenti per tagliare la spesa pubblica, aumentare le entrate (incluso il celebre “prelievo forzoso” dai conti correnti) e avviare il processo di privatizzazione degli enti pubblici. La ciliegina sulla torta a garanzia del sostengo dei “mercati finanziari” – i quali già il 2 giugno al cospetto dell’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, avevano espresso i loro desiderata sullo yacht reale Britannia – fu l’accordo sul “costo del lavoro” del 31 luglio. Il segretario generale della Cgil Bruno Trentin firmò il testo per poi rassegnare le dimissioni (in seguito ritirate).
Cosa firmò Trentin? In pratica firmò l’abolizione della “scala mobile”, la rinuncia alla contrattazione e l’impegno alla moderazione salariale a oltranza con riferimento alla “inflazione programmata”, come via maestra per abbattere l’inflazione, rafforzare la stabilità del cambio e rendere più competitive le imprese italiane. Cosa avrebbe ottenuto il sindacato in cambio del disarmo unilaterale su un pilastro della sua azione in difesa dei lavoratori: interventi sulle tariffe, lotta all’evasione, promozione dell’occupazione, investimenti pubblici. Trentin aveva siglato una cosa certa, la riduzione dei tenore di vita dei lavoratori, in favore di impegni generici nel migliore dei casi, in malafede nel peggiore. Nel luglio ’93 il nuovo protocollo sulla politica dei redditi firmato sotto l’auspicio del premier Carlo Azeglio Ciampi avrebbe dato impulso alla cosiddetta “concertazione”, sostanzialmente confermando l’impianto di moderazione salariale del 1992.
Le critiche a questa scelta furono durissime già allora. Si ricordano i bulloni ai comizi sindacali e gli “autoconvocati”. Non si ricorda però che Sergio Garavini (padre di chi scrive), assieme a Trentin il dirigente sindacale più autorevole della Cgil negli anni 80 e in quel momento coordinatore di Rifondazione comunista, commentava alla Camera già il 5 agosto del ’92 che “certi dirigenti sindacali sembrano avere occhi soltanto per la Borsa o il tasso di sconto”. Garavini disse che quello del 31 luglio non poteva esser definito “un vero e proprio accordo sindacale”, ma che “erano state semplicemente sottoscritte drastiche e discutibili esigenze prospettate dal padronato e dal governo”. Sostenne che l’accordo non era “da responsabili ma da irresponsabili” perché “ha lacerato in profondità il rapporto tra sindacati e lavoratori, un rapporto già in crisi”, senza “una sola indicazione positiva a sostegno dell’occupazione e dell’attività economica”: “Mi perdoni il ministro del Lavoro, ma negli utili 15-20 anni ho sentito decine di volte i discorsi sulla politica attiva del lavoro e ho contato soltanto centinaia di migliaia di licenziamenti”. Con la deflazione salariale, diceva Garavini (l’intervento è ancora disponibile su Radio Radicale), “le imprese sono incoraggiate a sfruttare di più i lavoratori, ma non a sviluppare le tecnologie, a innovare i prodotti, a elevare la qualità”.
La storia successiva avrebbe confermato la sostanza di questi ammonimenti. Lo spostamento della ricchezza verso rendite e profitti e la diseguaglianza dei redditi si impennò subito, gli investimenti furono negativi, le politiche sull’occupazione si sarebbero rivelate licenziamenti di massa, la decisione di privatizzare i servizi pubblici svelava quanto fossero in malafede le promesse del governo sulle tariffe – il libero mercato avrebbe significato l’aumento di quasi tutte le tariffe, con estremo godimento degli azionisti italiani ed esteri delle aziende privatizzate. In altre parole, la scelta strategica del 1992 dei sindacati confederali è stata un completo fallimento.
Dunque, va benissimo lo sciopero generale del 29 novembre, nonché il ritorno della “questione salariale”, ma questo dovrà andare di pari passo con il superamento della logica della “concertazione” o, peggio, del “dialogo sociale” quale che sia il governo (quelli di centro-sinistra non hanno fatto meglio di quelli di centro-destra che hanno rifiutato il dialogo), con il rifiuto del Patto di stabilità europeo che impone nuova austerità e dunque inevitabilmente compressione di salari pubblici, investimenti e scadimento dei servizi, con il faticoso coinvolgimento democratico dei lavoratori nei luoghi di lavoro, senza timore di restare esclusi dai vari “tavoli”. Il movimento dei lavoratori forse ritroverà la capacità, smarrita nel tempo nonostante gli sforzi generosi, di sviluppare una intelligente e duratura “lotta sociale”, obiettivo migliore e meno estemporaneo della “rivolta sociale”.
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