LA CAMICIA DI FORZA DELL’AUSTERITY SI PUÒ ALLENTARE. MA IL GOVERNO TACE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA CAMICIA DI FORZA DELL’AUSTERITY SI PUÒ ALLENTARE. MA IL GOVERNO TACE da IL MANIFESTO

La camicia di forza dell’austerity si può allentare. Ma il governo tace

ECONOMIA. Bisognerà pescare una trentina di miliardi entro fine anno. In teoria il boom dei profitti causato dall’inflazione aprirebbe praterie per un prelievo sui redditi da capitale. Meloni preferisce radere altri campi. Corre voce che alla fine deciderà di tagliare su investimenti al sud, sanità pubblica e contratti pubblici. Sempre la stessa musica di classe

Emiliano Brancaccio  20/06/2024

Come temuto, la minaccia dell’austerity riaffiora all’orizzonte della politica economica comunitaria. Il cartellino giallo della Commissione europea è infatti giunto: assieme ad altri sei paesi, l’Italia sarà sottoposta a una procedura d’infrazione per deficit pubblico eccessivo.

L’ammonizione di Bruxelles è in parte mitigata da un giudizio sostanzialmente positivo sul quadro macroeconomico italiano. In particolare, la Commissione nota con soddisfazione che «le condizioni del mercato del lavoro sono migliorate negli ultimi anni e non si sono tradotte in pressioni salariali». Gentiloni e colleghi, in altre parole, si rallegrano che la crescita dell’occupazione non abbia favorito lo sviluppo delle lotte sindacali. Anche per questo motivo, quando a settembre si faranno tutti i conti la Commissione sarà un po’ più indulgente col governo. Meloni e Giorgetti ringraziano, e poco importa che nell’ultimo decennio il potere d’acquisto di lavoratrici e lavoratori sia caduto di oltre 3 punti percentuali e che l’inflazione abbia pure vanificato i bonus fiscali e le minori aliquote. Il minuetto tra autorità nazionali ed europee va dunque avanti sereno, sulle spalle della classe subalterna.

Ma c’è di più. Le prime stime indicano che l’avvio della procedura d’infrazione dovrebbe implicare una stretta di altri dieci miliardi sul bilancio pubblico. In realtà, se anche l’ammonizione non fosse giunta, le nuove regole europee avrebbero comunque imposto una manovra restrittiva per rispettare il sentiero di abbattimento del debito. Sia come sia, nel complesso bisognerà pescare una trentina di miliardi entro fine anno tra minori spese e maggiori entrate. In teoria, il boom dei profitti causato dall’inflazione aprirebbe sconfinate praterie per un cospicuo prelievo sui redditi da capitale. Ma la realtà è che il governo Meloni preferisce radere altri campi. Corre voce che alla fine deciderà di tagliare su investimenti al sud, sanità pubblica e contratti dei dipendenti statali. Sempre la stessa musica di classe.

È alquanto ironico che questi primi cenni di ritorno all’austerity europea avvengano nel silenzio delle sedicenti forze «sovraniste» oggi al governo, che fino a ieri facevano dell’uscita dall’euro la panacea di ogni male nazionale. Gli agitatori che all’epoca denunciavano ogni stortura della politica economica europea appaiono oggi appagati, come pasciuti dormienti sulle cadreghe conquistate.

La disattenzione è tale che alla maggioranza di governo sembrano sfuggire alcune crepe nella nuova camicia di forza europea che, se sfruttate, potrebbero almeno allentare le future strette di bilancio.

La crepa più interessante riguarda il fatto che l’attuale regolamento Ue apre finalmente a un «dibattito sul metodo scientifico» per il calcolo del cosiddetto «Pil potenziale», vale a dire il livello di «equilibrio» dell’economia. Ancora oggi la Commissione europea utilizza un metodo a dir poco folle, che in alcuni casi ha portato a giudicare livelli di disoccupazione elevatissimi – anche superiori al 10 percento – come situazioni di «equilibrio naturale» dell’economia. Il risultato di questa metodologia anti-scientifica è stata una continua sottostima del Pil potenziale, e quindi una continua esagerazione del rapporto tra deficit pubblico e Pil potenziale. Insomma, il metodo della Commissione ha reso ancor più gravosa la politica di austerity.

Un’onda di critiche proveniente da vari premi Nobel per l’economia, e persino dal Fondo Monetario Internazionale, ha costretto il legislatore europeo a contemplare l’apertura di una discussione sulla metodologia di calcolo del Pil potenziale.

Fino a questo momento, tuttavia, nel governo italiano nessuno ha aperto bocca. Per quel che sappiamo, alle trattative di settembre sui tagli di bilancio i tecnici del ministero dell’economia si presenteranno a Bruxelles più realisti del re: ossia, con un metodo di calcolo pressoché identico a quello della Commissione.

Anziché correggere misure del Pil insensate e foriere di ulteriore austerity, Giorgetti e soci preferiscono forse tosare ancora un po’ sanità e stipendi? Anche su questa mistificazione «di classe» della scienza macroeconomica europea sarebbe ora di battere un colpo.

Nato, + 18% di spesa militare: Berlino e altri 22 oltre il 2%

ITALIA: 1,4% – Farnesina: “L’impegno si misura oltre il pil”. Biden: “Alleanza più grande, forte e unita”

COSIMO CARIDI  19 GIUGNO 2024

Il riarmo della Nato procede spedito. Dal 2021, il numero di membri dell’Alleanza che hanno raggiunto e superato il 2% del Pil destinato alla difesa è quasi quadruplicato. Erano sei l’anno prima dell’invasione russa dell’Ucraina, sono 23 oggi. I dati fanno parte del report annuale della Nato presentato lunedì sera dal Segretario Generale, Jens Stoltenberg, a Washington. Dopo il discorso e le domande della stampa, il capo dell’Alleanza atlantica ha incontrato Joe Biden alla Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti si è rivolto al massimo militare della Nato con grande affetto, chiamandolo pal (“amico”). Biden ha detto che l’Alleanza è diventata “più grande, più forte e più unita di quanto non sia mai stata” durante il mandato di Stoltenberg.

In effetti la Nato era in uno “stato di morte cerebrale” (Emmanuel Macron, 2019) e negli ultimi due anni è tornata a essere il luogo dove si comunicano al mondo le decisioni politiche ed economiche più importanti. Il 2% del Pil è un obiettivo di spesa di cui si parlò per la prima nel 2006, in un vertice a Riga, in Lettonia. Nel 2014, anno in cui l’attuale capo dell’Alleanza ha iniziato il suo primo mandato, è stato chiesto a tutti i membri di aumentare la propria spesa militare fino al 2%. L’annessione della Crimea da parte della Russia fu usata come campanello di allarme. Quell’anno solo tre Paesi spendevano quanto richiesto: Usa, Regno Unito e Grecia. Oggi sono 32 i Paesi che formano la coalizione e appena otto, tra cui l’Italia, non hanno raggiunto la soglia di spesa richiesta. Caso a parte per l’Islanda, che pur facendo parte della Nato, non ha un esercito e quindi non ha obblighi di investimento. Quelle diffuse lunedì sera sono previsioni di spesa, cioè quanto i vari governi hanno allocato per il comparto militare per l’anno corrente. Secondo questi dati, in Europa l’incremento della spesa militare, rispetto allo scorso anno, è del 18%. La media Nato è di circa la metà: dieci punti percentuali più del 2023, portando alla cifra di 1,5 trilioni di dollari spesi. Il passo più lungo è stato fatto nell’Est Europa. Polonia ed Estonia sono arrivate rispettivamente al 4,12% e 3,4%. Ma in termini assoluti il grande balzo in avanti è della Germania. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale Berlino spenderà oltre il 2% del Pil in Difesa. Si tratta di oltre 90 miliardi di euro, usati per mantenere i circa 180 mila uomini della Bundeswehr (forze armate) e comprare armamenti. Il primo obiettivo raggiunto da Stoltenberg è aver spinto tutti i membri Nato a usare almeno il 20% del budget destinato alla Difesa per l’acquisto di equipaggiamenti. Dopo oltre due anni di invio di armi in Ucraina, gli arsenali di tutta l’Alleanza vengono riempiti con nuove armi. A chiudere la classifica con meno dell’1,3% del Pil in armi ci sono Spagna, Slovenia e Lussemburgo. Poi il Canada con l’1,37% e a cinque posti dalla fine l’Italia, 1,49%.

Roma detiene però un altro primato: circa il 60% della spesa è destinato al pagamento di stipendi e pensioni del personale militare. “Non siamo contrari ad arrivare al 2% – ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in audizione al Senato – ma non può essere una cifra puramente contabile perché noi siamo un Paese che ha una presenza militare molto importante all’interno della Nato”. Secondo il titolare della Farnesina, l’Italia è impegnata “nel Mediterraneo e nei Balcani” contro il traffico di droga e di armi “con diverse missioni Nato e non solo” e tutti questi scenari operativi andrebbero conteggiati per arrivare al 2%. Tra tre settimane si terrà negli Usa un importante vertice Nato, l’ultimo della gestione Stoltenberg-Biden. A preoccupare è il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. L’ex presidente è scettico nei confronti della guerra in Ucraina e a febbraio ha detto “se voi non pagate, noi non vi proteggeremo”. Il riferimento è a un possibile attacco russo contro gli alleati.

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