ITALIA: “ALTRO CHE RIPRESA”. L’AUTOCELEBRAZIONE SI SCONTRA CON LA REALTÀ da IL MANIFESTO
Altro che «ripresa», Italia fanalino di coda per redditi in Europa
Reddito di Esclusione. I dati Eurostat smentiscono la retorica dell’esecutivo Meloni: in calo nell’ultimo anno, dal 2008 solo la Grecia fa peggio di noi. Nel «Quadro di valutazione sociale» la confutazione dei successi su occupazione e calo della povertà
Nina Valoti 04/09/2024
«Record dell’occupazione», «calo della povertà». In questi mesi la gran cassa del governo Meloni continua a citare dati che delineano l’Italia come un eden in controtendenza con gli altri principali paesi europei. Ora arriva Eurostat – con i dati pubblicati nel “Quadro di valutazione sociale” che monitora il progresso sociale in tutta Europa – a confutare in gran parte questa narrazione. L’istituto statistico di comparazione europea mette nero su bianco numeri che certificano come il nostro paese sia in coda nel continente sia nell’ultimo anno che nell’ultimo decennio.
IL REDDITO DISPONIBILE REALE lordo delle famiglie nel 2023 diminuisce e si attesta oltre sei punti al di sotto di quello del 2008. Se nei 27 paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il 2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle famiglie siano gravi e continuino a peggiore, nonostante gli annunci del governo.
Per quanto riguarda il reddito l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 – 108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima ripresa.
«I DATI EUROSTAT confermano che il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non rappresenta di per sé una buona notizia se non affiancato da qualità e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e dignitoso. Per noi le priorità restano il contrasto ad ogni forma di precarietà, sfruttamento e illegalità nel lavoro e l’aumento delle retribuzioni – commenta la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli – . Le condizioni di discontinuità e povertà della condizione del lavoro, dovute ad esempio a part-time, appalti e subappalti, che si riscontrano in molti settori pubblici e privati, sono le condizioni che vanno rimosse per costruire una nuova cultura del lavoro con standard più alti: è la strada per colmare le distanze rispetto al resto dei paesi europei, soprattutto per giovani e donne», conclude Gabrielli.
«Nel nostro paese c’è un’emergenza legata ai redditi ma resta anche quella del lavoro povero – spiega il segretario confederale della Uil Santo Biondo – . Non si rinnovano i contratti e quindi non si riesce a recuperare il potere d’acquisto perso con l’inflazione. L’aumento dell’occupazione – sottolinea – non ci dà grandi input in termini di entusiasmo, aumenta il lavoro a bassa qualificazione e a orario ridotto, spesso il part time è involontario. Aspettiamo cosa il governo dirà con la legge di Bilancio. I dati ci dicono che le famiglie non stanno così bene. Abbiamo la più alta percentuale in Europa di lavoratori che sono sotto gli 11mila euro l’anno. Il lavoro – conclude – deve essere centrale nelle politiche del governo», conclude Biondo.
Per la Cisl «c’è la necessità di un esame della congiuntura fra governo e sindacato tesa a conseguire la sottoscrizione di un nuovo “Patto di politica dei redditi” con l’obiettivo di calmierare prezzi e tariffe», spiega il segretario confederale Ignazio Ganga.
CRITICA ANCHE CONFESERCENTI. «Sui redditi si sono persi vent’anni: per superare il livello del 2008 bisognerà attendere almeno il 2028. L’inflazione – spiega la confederazione – ha fatto perdere 2,2 punti di reddito, ma i rinnovi del 2024 consentiranno un recupero. Sul dato del reddito lordo disponibile degli italiani nello scorso anno – afferma Confesercenti – pesa ancora l’impennata dell’inflazione. Un’impennata che ha avuto un impatto molto rilevante sulle famiglie, con un costo di circa 2,2 punti di reddito lordo reale tra il 2021 ed il 2023. Adesso, però, è in atto un’inversione di tendenza, anche grazie alla tornata di rinnovi contrattuali: secondo le nostre stime nel 2024 ci sarà un recupero di 2,9 punti, che permetterà di superare, anche se di poco, i redditi del 2021. I livelli del 2008, però, precedenti alle tre grandi crisi – quella finanziaria, quella del debito sovrano e quella innescata dal Covid – sono ancora lontani. Secondo le nostre previsioni, ai ritmi attuali occorrerà aspettare il 2028: un ventennio perduto», conclude Confesercenti.
L’autocelebrazione si scontra con la realtà
Economia italiana. La stagnazione dei salari italiani non dipende solo dalla crescita anemica della produttività, ma da precise scelte di politica economica effettuate da governi di vario orientamento politico
Andrea Roventini 04/09/2024
Gli ultimi dati economici di Eurostat mostrano inequivocabilmente che il re, o la regina, è nudo. Contrariamente a quanto sostenuto incessantemente dalla premier Meloni, l’economia italiana non se la sta passando troppo bene: nel 2023, il reddito disponibile reale lordo delle famiglie è in calo a fronte di una crescita di quello medio dell’Unione europea. Più precisamente, fatto 100 il reddito italiano del 2008, quello del 2023 è pari a 93,74, mentre quello del 2022 si attestava a 94,15. Solo la Grecia, che ha attraversato una gravissima crisi finanziaria accompagnata da misure di austerità fiscale draconiane, ha fatto peggio di noi in Europa. È vero che alcuni indicatori come il tasso di occupazione e quello di disoccupazione sono migliorati nell’ultimo anno, ma sono ancora inferiori alle media Ue.
Il deludente andamento dei redditi italiani è dovuto al calo dei salari reali che sono stati erosi dell’inflazione. Secondo i dati Istat, nel triennio 2021-2023 mentre i prezzi al consumo crescevano del 17,3%, i salari aumentavano solo del 4,7%. Tale dinamica non è riconducibile solo alla recente spinta inflazionistica dovuta principalmente allo shock energetico, ma viene da più lontano: l’Italia è l’unico Paese sviluppato dove i salari reali non sono cresciuti negli ultimi trent’anni (Ocse), con un calo decennale del 4,5% (Istat).
La stagnazione dei salari italiani non dipende solo dalla crescita anemica della produttività, ma da precise scelte di politica economica effettuate da governi di vario orientamento politico. Studi empirici di ricercatori del Fondo monetario internazionale e della Banca d’Italia mostrano infatti che le riforme strutturali per flessibilizzare il mercato del lavoro italiano hanno portato a una crescita dei contratti a termine e di quelli part-time, aumentando la precarietà e la disuguaglianza salariale. La maggiore flessibilità del lavoro può aver contribuito a rallentare la crescita economica del nostro Paese, dato che chi deve saltare da un contratto a tempo determinato all’altro non riesce ad accumulare competenze ed esperienza.
Tale situazione richiede un irrigidimento del mercato del lavoro, per esempio seguendo l’esempio spagnolo, e l’introduzione del salario minimo. Numerose ricerche empiriche hanno infatti mostrato che il salario minimo aumenta le retribuzioni dei lavoratori senza ridurre l’occupazione. Non solo, in Paesi come la Germania e il Brasile, il salario minimo ha aumentato la produttività, riallocando i lavoratori presso le imprese più competitive. Inoltre, in tempi d’inflazione, un salario minimo indicizzato, come ad esempio quello presente in Francia, protegge le retribuzioni dei lavoratori, soprattutto quando la debolezza dei sindacati si manifesta in un’assenza di conflitto sociale. Purtroppo, il governo Meloni ha ignorato i risultati delle ricerche economiche più recenti, perseguendo un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e opponendosi strenuamente all’introduzione del salario minimo.
Il peggioramento della condizione economica dei lavoratori a basso e medio reddito potrebbe essere alleviato da interventi fiscali, ma le scelte del governo sono pressoché inutili o, peggio, vanno nella direzione opposta. Come mostra il recente rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una cospicua fetta dei tagli fiscali è stata divorata dal fiscal drag, perché a fronte di un’alta inflazione non sono stati aumentati i limiti di reddito imponibile dei vari scaglioni. Oltre a questo gioco delle tre carte, con una serie di provvedimenti il governo ha ridotto la progressività del nostro sistema fiscale (es. estensione dei regimi forfettari) e indebolito la lotta all’evasione fiscale (es. condoni e concordato preventivo). Questi interventi avvengono in un sistema fiscale già sostanzialmente “flat”, dove il 5% più ricco degli italiani paga un’aliquota effettiva inferiore al resto della popolazione.
Nonostante i proclami auto-celebrativi degli esponenti della maggioranza, l’economia italiana non sta andando a gonfie vele, ma sta navigando in acque pericolose. A fronte di una crescita del Pil moderata e in calo nel prossimo anno, il governo sta perseguendo una politica economica volta esclusivamente a ottenere il consenso delle categorie di elettori che lo sostengono, ignorando l’aumento delle disuguaglianze ed evitando di stabilizzare le finanze pubbliche. La narrazione panglossiana della premier Meloni potrebbe presto scontrarsi duramente con la realtà, quando gli ingenti fondi del Pnrr finiranno e le nuove regole fiscali europee imporranno un’improrogabile correzione di bilancio.
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