INDIANI D’AMERICA: “IL RISVEGLIO DOPO LE PROVE DI ETNOCIDIO” da IL MANIFESTO
Indiani d’America, il risveglio dopo le prove di etnocidio
Saggi Dopo le enormi ripercussioni della Seconda guerra mondiale sulle comunità indigene, storici e artisti iniziarono a riscrivere la storia dei propri antenati: «Tempi di rivolta» di Aram Mattioli, da Einaudi
Bruno Cartosio 05/01/2025
Esiste un filone della storia degli Stati Uniti di cui «tutti» sanno o credono di conoscere i tratti essenziali. Sono più o meno universalmente noti perché hanno caratterizzato una letteratura e poi un cinema che hanno fatto il giro del mondo. Sono cose dell’Ottocento, anche se romanzi e racconti, film e serie televisive le collocano in un passato temporalmente vago, in luoghi convenzionali e vicende spesso ripetitive. Non vale lo stesso per gli statunitensi.
Cavallo Pazzo e Toro Seduto; Custer e Little Big Horn; Wounded Knee; la prateria e i pionieri; Buffalo Bill e i bisonti, la ferrovia, l’espansione e la conquista a mano armata sono stati i perni su cui si è incardinata l’epopea nazionale. Fatti e figure elementari di una storia e mitologia della nazione elaborata in piena coscienza, e grande disinvoltura, a partire dagli anni stessi in cui i fatti accadevano. L’American Indian, sempre uguale a sé stesso nonostante le grandi diversità che attraversavano le popolazioni, è stato al centro della scena. Era il nemico necessario che forniva ai bianchi le buone ragioni per la loro conquista del continente con le armi: tanto ubiquo e selvaggio, quanto combattente valoroso, quindi tanto maggiore il merito di chi lo combatteva e lo ha sconfitto. Valore dei vincitori e intrinseca giustificazione dello sterminio perpetrato sui vinti.
Dopo la fine delle cosiddette guerre indiane negli anni Ottanta dell’Ottocento, i sopravvissuti erano stati confinati in decine di riserve. Hanno resistito ed è iniziata da lì la loro ricrescita, e con essa la parte, da un lato, meno «epica» della loro esistenza e, dall’altro, più ricca di voci con cui i first peoples hanno parlato di sé, rigenerato le proprie culture e ricostruito la propria storia. Ed è dal loro nuovo protagonismo che prende avvio Tempi di rivolta, di Aram Mattioli (Einaudi, pp. 381, € 32,00): tra queste pagine lo studioso svizzero si dedica con paziente acribia e ampio sguardo a ripercorrere la vicenda delle popolazioni indiane degli Stati Uniti nel Novecento e a scrivere la storia delle loro lotte in difesa dei diritti, delle culture e delle identità, oltre che delle terre rimaste in loro possesso, che i governi volevano espropriare.
La «Legge Dawes» del 1887 introdusse il frazionamento delle riserve in quanto proprietà comunitarie, con l’assegnazione di lotti a singoli e famiglie e con il ritorno allo Stato delle parti che rimanevano non assegnate. E due anni più tardi, il commissario agli Affari indiani Thomas J. Morgan affermò che «il sistema delle riserve appartiene a uno stato di cose in via di estinzione e smetterà presto di esistere (…) Gli indiani devono conformarsi ai modi dell’uomo bianco, con le buone se vogliono, con le cattive se necessario».
All’inizio del Novecento, quando un compiaciuto Theodore Roosevelt salutò la «polverizzazione» delle «masse tribali», gli indiani erano ridotti a duecentomila e di bisonti in libertà ne restavano trecento. L’estinzione fisica di entrambi, così a lungo perseguita, era a portata di mano. E come scrive Mattioli, in parallelo con il brutale, continuo restringimento dei «loro» spazi (tra il 1880 e il 1934, le loro terre furono ridotte di due terzi) la politica condivisa dei governi «fu niente meno che una politica di tentato etnocidio».
Capitolo chiuso? Per i conquistatori gli indiani erano un problema secondario, servivano per l’agiografia marziale di sé stessi, oppure erano evocati nei modi di quella «nostalgia imperialista» che porta a innalzare elegie per quanto si è distrutto e non esiste più. Erano i decenni del darwinismo sociale e – Vangelo nel mondo anglosassone dall’America all’Oceania – della celebrazione della superiorità razziale dei popoli bianchi di lingua inglese. Non mancarono – come è noto – le voci di protesta indiane – e afroamericane, e le denunce di antirazzisti, anticolonialisti e antimperialisti. Tuttavia, nonostante le brutalità subite, non tutte le riserve furono smembrate; anzi, le chiamate a resistere ebbero l’effetto di stimolare il risveglio dei movimenti identitari e rivendicativi sia nelle «colonie interne», sia tra quanti a poco a poco le abbandonavano per le città.
Il Novecento fu il secolo che vide la conclusione, spesso positiva, di numerose battaglie politiche e legali magari iniziate decenni prima e condotte con esemplare ostinazione. La prima fu quella del pueblo di Taos che rivendicava la restituzione del Blue Lake, a loro sacro: si prolungò per oltre sessant’anni e si chiuse con successo nel 1970. Non ebbe un epilogo positivo, invece, la vicenda che negli anni Venti portò le Sei nazioni irochesi, la cui riserva stava a cavallo tra Stati uniti e Canada, a chiedere alla Società delle Nazioni il loro riconoscimento come Stato indipendente. Le mobilitazioni ebbero una forte valenza ricompositiva, ma si incrociarono con la (assai tardiva ed equivoca, come spiega Mattioli) concessione nel 1924 della cittadinanza agli indiani, che inevitabilmente recideva alla radice ogni aspirazione scissionista.
Altre mobilitazioni di popolo avvennero negli anni del New Deal nella grande riserva Navajo, quando il governo impose l’abbattimento in massa del gran numero di pecore e capre che impoverivano in modo grave il terreno della riserva. Si prolungarono fino ai primi anni Cinquanta, e il loro esito, scontato, fu negativo per i tanti pastori della riserva.
Come per gli afroamericani, gli anni della Seconda guerra mondiale ebbero ripercussioni senza precedenti «sulle comunità indigene»: tanto sui 29.000 combattenti, quanto sui più di 40.000 urbanizzati, uomini e donne, che lavorarono nell’industria bellica. Subito dopo, anche i progetti governativi di Relocation (ricollocazione) favorirono il trasloco degli indiani fuori dalle riserve. E nel fermento politico-culturale delle città crebbero e trovarono sbocchi gli artisti e i molti scrittori e storici che avrebbero poi contribuito in prima persona a riscrivere la storia dei loro antenati e della sopraffazione bianca: in definitiva, degli stessi Stati Uniti. Ma quando in quegli stessi decenni, magari anche sull’onda dei movimenti di liberazione neri, essi diedero vita a nuove mobilitazioni sociali e politiche lo fecero tornando alle riserve. È questa la parte finale, sul nuovo tempo della rivolta, che dà il titolo al libro di Mattioli.
A volte la protesta fu spettacolarizzata, come nell’occupazione del carcere abbandonato di Alcatraz sull’isola omonima, fra il1969 e il 71, oppure estremizzata, come nell’occupazione e nella difesa con le armi del sito di Wounded Knee da parte dei Sioux dell’American Indian Movement (1973). Infine, nei decenni successivi, la rivolta divenne difesa della vita e dell’ambiente: nelle agitazioni contro la sterilizzazione forzata e proditoria delle donne indiane nei reparti di ostetricia degli ospedali e nelle straordinarie mobilitazioni delle nazioni del Sudovest e delle Black Hills contro la mortifera estrazione dell’uranio (i padroni facevano lavorare gli indiani senza protezioni) o contro l’impiego delle aree poco popolose della riserva Navajo come luoghi per la discarica di rifiuti tossici o radioattivi.
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