IL VERO PROBLEMA È IL MILITARISMO DI ISRAELE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL VERO PROBLEMA È IL MILITARISMO DI ISRAELE da IL MANIFESTO

Biden: «Quasi fatta per la tregua a Gaza». Ma Bibi rema contro

GUERRA A OLTRANZA. Il presidente Usa sbandiera i progressi nel negoziato, negoziatore israeliano lo smentisce: «Netanyahu ostacola l’accordo con continue nuove richieste». Ieri altri quattro operatori umanitari uccisi mentre distribuivano aiuti nella Striscia

Marco Boccitto  13/07/2024

L’annuncio lo ha dato ieri Joe Biden, quindi il beneficio d’inventario è d’obbligo. Fatto sta che ci sarebbe l’ok di entrambe le parti sull’accordo in tre fasi formulato dalla Casa bianca per arrivare a una tregua e alla liberazione degli ostaggi. «C’è ancora da lavorarci – ha aggiunto il presidente Usa – perché ci sono questioni complesse da affrontare, ma sia Israele che Hamas hanno concordato sull’impianto generale dell’intesa».

RESTA DA CAPIRE quale potrebbe essere il punto d’incontro tra il cessate il fuoco permanente a cui punta Hamas e le reiterate dichiarazioni del primo ministro israeliano Netanyahu, secondo cui «la guerra andrà avanti fino a quando saranno raggiunti tutti gli obiettivi». In primo luogo, quindi, l’annientamento del movimento islamico. Ma Biden è fiducioso: «La mia squadra sta facendo progressi e sono determinato a portare a casa il risultato», ha detto. Un auspicio da leggere forse nella dinamica di una campagna elettorale in salita, in cui il presidente Usa deve dimostrare al Paese di avere il controllo della situazione e di saper fare fino in fondo il suo lavoro.

A gelare l’ottimismo di Biden ci ha pensato però poco dopo un alto funzionario israeliano coinvolto nel negoziato. Al Times of Israel ha raccontato in forma anonima come Netanyahu stia ostacolando l’accordo con continue nuove richieste destinate a bloccare i colloqui «per settimane». Secondo la fonte «poi potrebbe non esserci nessuno da riportare a casa». Hamas da parte sua pretende garanzie scritte sul rispetto della tregua da parte di Tel Aviv. E propone per il dopoguerra un governo «non di parte» per la Striscia, definendo il problema «una questione interna palestinese».

LA SOLA COSA CERTA è che non c’è stata alcuna tregua, ieri nella Striscia. Ancora quattro operatori umanitari sono stati uccisi in un raid israeliano nei pressi di Khan Younis. Distribuivano aiuti alla popolazione civile per conto della fondazione britannica Al-Khair quando il magazzino in cui operavano è stato colpito. A inizio settimana stessa sorte era toccata a ben sette operatori della ong statunitense World Central Kitchen.

Ieri una riunione del Consiglio di sicurezza Onu richiesta dalla solita Algeria verteva sul rischio carestia sempre più concreto a Gaza e proprio sull’escalation di attacchi perlopiù deliberati contro gli “umanitari”, messi a bersaglio tanto quanto i giornalisti e il personale sanitario, oltre ovviamente ai civili, in maggioranza donne e bambini. 38.345 è il conto delle vittime aggiornato ieri dalle autorità sanitarie della Striscia. Un bilancio a cui vanno aggiunte le decine di vittime palestinesi rinvenute nell’area di Tal al-Hawa, a Gaza City, dopo il ritiro delle truppe israeliane. Si parla di almeno 60 cadaveri e di altre dozzine di corpi ancora sepolti sotto le macerie. Altre 8 persone sono state uccise a Rafah e 4 nel campo profughi di Nuseirat.

Ultraortodossi in rivolta. Ma il vero problema è il militarismo di Israele

MEDIO ORIENTE. L’opposizione e le proteste pubbliche sono diventate una questione di principio anche tra i sefarditi di Shas, storicamente più moderati

Sarah Parenzo  13/07/2024

«L’esercito ha bisogno di 10mila soldati subito» e l’esercito può «reclutare 4.800 ebrei ortodossi immediatamente», ha detto qualche giorno fa il ministro della Difesa Yoav Gallant dando seguito concreto al passo mosso dalla Corte suprema il mese scorso. I massimi giudici di Israele hanno deciso all’unanimità che non esiste più alcun quadro giuridico che consenta al governo di «concedere esenzioni totali dal servizio militare agli studenti ortodossi delle scuole religiose».

LA QUESTIONE non è solo un problema per la stabilità del governo di Netanyahu sorretto da un’alleanza tra il Likud, i partiti di estrema destra e quelli religiosi ortodossi. Riguarda la società israeliana nel suo insieme e le relazioni tra la maggioranza della popolazione e la comunità ultraortodossa (haredi), con effetti potenzialmente dirompenti per il futuro di quest’ultima.
L’esonero degli ultraortodossi dal servizio militare, insieme ai finanziamenti statali delle yeshivòt, le accademie talmudiche, sono sempre stati temi oggetto di accesi dibattiti all’interno dell’opinione pubblica israeliana da quando, all’indomani della fondazione dello stato, David Ben Gurion accettò di esonerare gli allora circa 400 charedìm in età di leva. Per anni si è parlato di preparativi in corso per il loro arruolamento nelle modalità più svariate, ma, come spiega il giornalista e ricercatore Avishay Ben Haim, si trattava sostanzialmente di un bluff mentre, tra proroghe di legge e compiacenza delle autorità, il privilegio si passava da una generazione all’altra.

Dopo un ping pong di alcuni mesi con il governo, tuttavia, lo scorso giugno l’Alta Corte di Giustizia ha emesso all’unanimità una sentenza in base alla quale non sussisterebbe più alcun quadro giuridico tale da giustificare la decennale pratica di esenzione. Contestualmente la Corte ha vietato al governo di proseguire il finanziamento a favore delle yeshivòt i cui studenti abbiano ricevuto l’esenzione, intimando anche all’esercito di attivarsi immediatamente. Il provvedimento ha mandato in escandescenze l’intero mondo ultraortodosso, i cui leader da settimane radunano folle di manifestanti inferociti che si dichiarano pronti a morire o a lasciare il paese, piuttosto che cedere al ricatto. Inoltre, sulla scia della pressione esercitata dai giudici, questo martedì il ministro della difesa Yoav Gallant ha approvato un piano per dare inizio all’arruolamento degli ultraortodossi, aggiungendo ulteriore benzina al fuoco.

PER FORNIRE un’interpretazione degli avvenimenti in corso è necessario operare considerazioni di ordine diverso. Per quanto riguarda il punto di vista laico, verosimilmente Ben Gurion aveva sottovalutando la crescita demografica che oggi fa degli ultraortodossi il 12% circa della popolazione del paese, ma soprattutto il settore più prolifico, con una media di circa sette figli a famiglia.

SE SI RIVOLGE lo sguardo ai sionisti, religiosi compresi, è inoltre comprensibile che il peso di oltre nove mesi di combattimenti su diversi fronti, sulle spalle di soldati e riservisti, abbia avuto tra le conseguenze quella di evidenziare drammaticamente l’eccezione di cui godono gli ultraortodossi nella società, riportando urgentemente all’ordine del giorno la necessità che anche loro si facciano carica dell’onere militare sia per ragioni morali, che per motivi pratici. Un’inversione di tendenza si registra invece nella società ultraortodossa che, seppure in sordina, con l’apertura a internet e al mondo del lavoro aveva fatto dei passi avanti anche verso l’esercito anche grazie a plotoni speciali di combattenti o al programma “KodKod” che forma i giovani per prestare servizio nelle unità di èlite dell’intelligence, regalando loro un prezioso futuro lavorativo nell’industria dell’hi-tech.

LA PROSPETTIVA di raggiungere alti stipendi per mantenere le loro numerosissime famiglie può fungere da incentivo non indifferente a superare la riprovazione della loro società che formalmente mette ancora lo studio della Torah al primo posto. Resta il fatto che, sino a poco tempo fa, solo i membri del Peleg Yerushalmi, frangia estremista dell’ebraismo ultraortodosso lituano, rifiutavano di presentarsi all’ufficio di leva anche solo per ricevere il rinvio ufficiale. Ora, invece, l’opposizione e le proteste pubbliche sembrano diventate una questione di principio persino tra i sefarditi di Shas, storicamente più moderati e, seppure in modo ambiguo, vicini al sionismo. Questo cambio di rotta potrebbe essere da attribuire anche al fatto che gli ultraortodossi si sentono presi di mira dal resto della popolazione che li conosce molto poco, e che la questione della leva sembra diventata la posta di un gioco di scacchi tra Netanyahu e i suoi rivali, tanto i giudici della Corte suprema, quanto il ministro Gallant il quale, pur provenendo dal Likud, non perde occasione per segnare punti contro il primo ministro.

SENZ’ALTRO, come diceva il saggio professor Leibowitz già negli anni Sessanta, il connubio governo-religione, che conduce i politici laici a finanziare le accademie rabbiniche per comprarne i voti, è una piaga da sanare e che ormai scontenta tutti. Bene dunque cominciare dal taglio dei finanziamenti, ma non ci sono altre forme per responsabilizzare la società Charedì senza snaturarla, demonizzarla o peggio sfruttarla? In uno scenario ideale sarebbe auspicabile invertire la tendenza militaristica del paese, optando per una soluzione politica pacifica che garantisca la reale sicurezza di tutti i cittadini nel lungo periodo, se non altro affinché l’unico denominatore comune tra i diversi settori della popolazione ebraica non si riduca alla comunque indifferenza verso il destino dei palestinesi. Ma la partita sembra essere ancora lunga ed è troppo presto per prevederne l’esito.

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